Descrizione
Capitolo 1
Volfrano, quarto Visconte di Ravedais, entrò nella sua stanza e richiuse violentemente la pesante porta di quercia, buttando il cappello su una sedia e scuotendo i lunghi capelli per liberarli dalla polvere, odiava portare le parrucche e ostentava senza ritegno i suoi capelli, scuri e lisci, anche se sapeva che lo criticavano per questo. Era stata una giornata nata male e stava finendo ancora peggio. A caccia non aveva preso nulla, aveva incontrato nei boschi suo cugino Eunulfo che era tornato alla carica chiedendo le terre che, a suo dire, suo padre aveva portato via vent’anni prima e come colmo di disgrazie, appena aveva messo piede nel cortile del palazzo lo avevano informato che sua moglie Marianna aveva chiesto di vederlo.
Per fortuna che, rientra ndo, aveva incontrato al limitare del bosco quelle due sorelle, figlie del maniscalco del villaggio vicino a Ravedais, cariche di fascine di legna da ardere.
Volfrano aveva ordinato ai suoi uomini di prendere le fascine e di portarle alla casa delle ragazze e con loro si era appartato in un angolo riparato del bosco. Lì, mentre abbrancava i seni prosperosi di una delle sorelle, l’altra gli aveva succhiato l’uccello fino a che glielo aveva fatto diventare duro come un bastone e allora se le era fatte tutte e due, a turno, scaricando la tensione dell’incontro con Eunulfo e la delusione di non aver preso niente a caccia. Pensò di andare a trovare la moglie subito, fuori il dente fuori il dolore, così com’era, col vestito da caccia e gli stivali infangati e ancora l’odore di sesso addosso, sapeva che l’avrebbe sconvolta, ma già, Marianna era sempre sconvolta! Pur che qualcuno non fosse già andato a riferirle della sua ultima bravata con le due sorelle!
Per l’ennesima volta si chiese come aveva fatto a lasciarsi intrappolare dai Querini a sposare quella loro figliola non bella e non troppo intelligente che ora gli stava addosso come una zecca. Ravedais non aveva bisogno dell’appoggio dei Querini, astuti mercanti veneziani che guardavano di cattivo occhio il patto che legava Volfrano con l’Imperatore asburgico e che cercavano in ogni modo di farlo passare dalla parte della Serenissima.
Non che Volfrano non ci avesse pensato, qualche volta.
Il suo feudo era a mezza via tra i territori di Venezia e quelli dell’Imperatore, poco più a nord di dove finivano i possedimenti della Serenissima e quasi ai confini con gli slavi e in quel dorato settembre del 1645 si barcamenava per restare fuori da litigi e conflitti locali, accettando la protezione dell’Imperatore che era l’unico in grado di difendere Ravedais dagli Ungari e dai turchi, ma senza respingere troppo apertamente Venezia.
Il giovane Visconte aveva seguito l’esempio di suo padre, gentile con tutti e senza impegnarsi troppo con nessuno e il risultato era che i suoi gastaldi e i suoi contadini lo rispettavano e accetavano di buon grado. Sapevano che Volfrano era sempre pronto a difenderli, ad essere presente in caso di calamità e di carestie e la gente gli riconosceva queste doti. Erano gente dura, scontrosa, chiusa, ma una volta che avevano accertato che lui era uno a posto, gli avevano concesso il loro rispetto incondizionato. Certo, Volfrano, come suo padre e suo nonno prima di lui, aveva il vizietto delle donne, ma sapevano come gestirlo, tenendo nascoste le ragazzine troppo giovani e le spose novelle, anche se circolava voce che aveva montato una giovane sposa mentre stava allattando il suo neonato! Ma Volfrano sapeva barcamenarsi anche in questo, ripagava sempre le famiglie con sacchi di farina, lenzuola in dote, vestiti e sementi e spesso qualche contadino più furbo degli altri si presentava a palazzo dicendo che la moglie, la figlia erano state violentate dal Visconte, sperando di ottenere favori. Ma Volfrano non dimenticava mai un viso o, come diceva ridendo “una fica e un paio di tette” e quindi li sbugiardava sempre, mandandoli via senza nulla e minacciandoli di andare davvero a cercare le figlie, la moglie, alla prima occasione. Con un sospiro si decise, togliendosi anche il cinturone e buttandolo dietro al cappello, sarebbe andato da Marianna ad ascoltare le sue ultime lamentele.
Stava per girarsi e uscire quando un movimento gli colpì la coda dell’occhio e tornò a fissare la stanza, la mano che correva veloce al cinturone e sfilando il coltello da caccia.
L’armadio aveva un’anta socchiusa e Volfrano si avvicinò leggero, spingendo poi la portiera fino a spalancarla e restando a fissare, sorpreso, una figuretta femminile che se ne stava seminascosta tra un paio di suntuosi vestiti di broccato e che lo guardava con gli occhi spalancati e spaventati, occhi di un caldo colore marrone, come le castagne d’inverno. Volfrano disse, severo.
«Chi diavolo sei? Che ci fai nella mia stanza?»
La ragazzina scostò i vestiti e fece un passo avanti e il giovane si trovò a misurarsi con….una bambina! Piccola, minuta, un visino pallido incorniciato da una cuffietta candida da cui sfuggivano ciocche di capelli di un biondo ramato, intenso e seducente, il vestitino azzurro col grembiule bianco delle cameriere, che si stringeva le mani, terrorizzata. Volfrano chiese ancora.
«Chi sei? Non ti ho mai vista…»
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