Descrizione
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La stazione di servizio Texaco di Hapscomb si trovava sulla Statale 93 appena a nord di Arnette, un paesotto con quattro strade in tutto, a centottanta chilometri circa da Houston. Quella sera c’erano i soliti clienti, seduti accanto alla cassa a bere birra, a chiacchierare del più e del meno, a guardare i moscerini che sciamavano intorno alla grande insegna accesa.
Era la stazione di servizio di Bill Hapscomb, per cui gli altri si rimettevano al suo parere, anche se Bill era un perfetto idiota. Si sarebbero aspettati la stessa considerazione se si fossero radunati in uno dei rispettivi negozi. Solo che nessuno di loro ne possedeva uno. Erano tempi duri, ad Arnette. Nel 1980 in paese c’erano due industrie: una cartiera, che fabbricava perlopiù articoli per picnic e barbecue, e uno stabilimento che produceva calcolatrici elettroniche. Ora la cartiera era chiusa e la fabbrica di calcolatrici andava malissimo: produrle a Taiwan costava molto meno, si era scoperto, proprio come succedeva per i televisori portatili e le radioline a transistor.
Norman Bruett e Tommy Wannamaker, che un tempo lavoravano alla cartiera, ormai dipendevano dalla pubblica assistenza, visto che da tempo avevano perso il diritto al sussidio di disoccupazione. Henry Carmichael e Stu Redman lavoravano alla fabbrica di calcolatrici, ma di rado facevano più di trenta ore la settimana. Victor Palfrey era in pensione e fumava puzzolenti sigarette di produzione artigianale, che erano tutto ciò che si poteva permettere.
“Ora, quello che penso io è questo,” disse loro Hap, posandosi le mani sulle ginocchia e chinandosi in avanti. “Dovrebbero solo mandare a fare in culo questa merda di inflazione. Mandare a fare in culo questa merda di debito nazionale. Ci sono le presse e c’è la carta. Stampiamo cinquanta milioni di biglietti da mille dollari e, Cristo santo, mettiamoli in circolazione.”
Palfrey, che aveva fatto il meccanico specializzato fino al 1984, era l’unico tra i presenti ad avere abbastanza rispetto di sé per ribattere alle dichiarazioni più palesemente imbecilli di Hap. Così, arrotolandosi un’altra delle sue merdose sigarette, disse: “Non risolverebbe niente. Se fanno una cosa del genere, finirà come a Richmond negli ultimi due anni della guerra di secessione. A quei tempi, se uno voleva un pezzo di panpepato, dava al panettiere un dollaro dei confederati e il panettiere lo piazzava sul panpepato e ne tagliava un pezzo della misura della banconota. I soldi sono solo carta, sapete?”
“Conosco qualcuno che non è d’accordo con te,” replicò acido Hap. Prese dalla scrivania una cartellina bisunta di plastica rossa. “Sono in debito con questa gente. E quelli cominciano a farsi prendere dalla smania.”
Stu Redman, che era forse l’uomo più taciturno di Arnette, se ne stava seduto su una delle malandate poltroncine di plastica Woolco, una lattina di Pabst in mano, lo sguardo fisso sulla Statale 93, oltre il finestrone della stazione di servizio. Stu ne sapeva parecchio sulla miseria. Era cresciuto nella miseria, lì in paese, figlio di un dentista che era morto quando lui aveva sette anni, lasciando la moglie e altri due figli.
Sua madre aveva trovato lavoro al Red Ball Truck Stop appena fuori Arnette; Stu avrebbe potuto vederlo da dove se ne stava seduto ora, se nel 1979 non fosse andato distrutto in un incendio. Lo stipendio bastava a sfamarli tutti e quattro, ma niente di più. A nove anni, Stu si era cercato un lavoro, prima per Rog Tucker, il padrone del Red Ball, dando una mano dopo la scuola a scaricare i camion per trentacinque centesimi l’ora, e poi ai macelli della vicina cittadina di Braintree, mentendo sull’età che aveva per ottenere venti spossanti ore di lavoro la settimana al minimo della paga.
Ora, mentre ascoltava Hap e Vic Palfrey blaterare di denaro e della sua misteriosa tendenza a prosciugarsi, Stu pensò a come all’inizio gli sanguinavano le mani a forza di spingere gli infiniti carrelli pieni di pelli e budella. Aveva cercato di tenerlo nascosto alla madre, ma lei se n’era accorta dopo meno di una settimana. Ci aveva fatto sopra un pianterello, e dire che non era facile alle lacrime. Però non gli aveva chiesto di lasciare il lavoro. Sapeva valutare la situazione. Era realista.
Il mutismo di Stu derivava in parte dal fatto che non aveva mai avuto amici né il tempo per farsene. C’era la scuola e poi c’era il lavoro. Il fratello minore, Dev, era morto di polmonite l’anno in cui Stu aveva cominciato a lavorare ai macelli, e Stu non era mai riuscito a superarlo del tutto. Senso di colpa, pensava. Aveva un debole per Dev, ma la sua scomparsa aveva anche significato una bocca in meno da sfamare.
Alle superiori Stu aveva scoperto il football e sua madre l’aveva incoraggiato, anche se gli allenamenti incidevano sull’orario di lavoro. “Gioca,” gli diceva. “Se c’è un modo per andartene da qui, è il football, Stuart. Gioca. Ricordati di Eddie Warfield.” Eddie Warfield era un eroe locale. Veniva da una famiglia ancora più povera di quella di Stu, si era coperto di gloria come quarterback della squadra studentesca regionale, aveva frequentato la Texas A&M grazie a una borsa di studio per lo sport e aveva giocato per dieci anni nei Green Bay Packers, perlopiù come quarterback di riserva, ma anche, in alcune occasioni memorabili, come titolare. Adesso Eddie possedeva una catena di tavole calde nell’Ovest e nel Sud-Ovest e ad Arnette continuava a essere una figura mitica. Ad Arnette, per dire “successo”, si faceva il nome di Eddie Warfield.
Stu non era un quarterback e non era neppure Eddie Warfield. Ma quando iniziò il primo anno delle superiori gli pareva che, se si fosse dato da fare, avrebbe avuto qualche probabilità di ottenere una piccola borsa di studio per lo sport… e poi c’erano quei programmi di studio e lavoro, e il suo consigliere scolastico gli aveva parlato del programma di prestiti nell’ambito della legge per la difesa dell’istruzione pubblica.
Poi sua madre si era ammalata e non era più stata in grado di lavorare. Era cancro. Due mesi prima che Stu prendesse il diploma era morta, lasciandogli il fratello Bryce da mantenere. Stu aveva rinunciato alla borsa di studio ed era andato a lavorare alla fabbrica di calcolatrici. E alla fine era stato Bryce, che aveva tre anni meno di Stu, a farcela. Adesso viveva nel Minnesota e faceva l’analista di sistemi all’IBM. Non scriveva spesso, e l’ultima volta che Stu l’aveva visto era stato a un funerale, quello della moglie di Stu, morta proprio dello stesso tipo di cancro che aveva portato alla tomba sua madre. Stu si diceva che forse anche Bryce aveva il suo senso di colpa da sopportare, e che forse Bryce provava un po’ di vergogna per il fatto che suo fratello era diventato solo uno dei tanti bravi ragazzi di una moribonda cittadina del Texas, che passava le giornate a tirare l’ora di chiusura alla fabbrica di calcolatrici e le sere giù da Hap o all’Indian Head a bere birra Lone Star.
Il periodo del matrimonio era stato il migliore, ma era durato solo un anno e mezzo. L’utero della giovane moglie aveva concepito un unico cupo e maligno frutto. Era accaduto tre anni addietro. Da allora Stu aveva pensato di andarsene da Arnette, in cerca di qualcosa di meglio, ma l’inerzia della provincia glielo aveva impedito: il sommesso canto delle sirene dei luoghi familiari e dei volti familiari. Ad Arnette era benvoluto da tutti e Vic Palfrey una volta gli aveva fatto l’enorme complimento di definirlo “un duro di quelli di una volta”.
Mentre Vic e Hap continuavano a blaterare, nel cielo rimaneva ancora un po’ di luce, ma la terra era in ombra. Non passavano più molte automobili sulla 93 ed era una delle ragioni per cui Hap aveva tanti conti non pagati. Ora, però, Stu vide che stava arrivando una macchina.
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