Descrizione
Prologo
«Draghi.» Mollander si chinò a raccogliere da terra una mela avvizzita e incominciò a passarsela da una mano all’altra.
«Lanciala in aria» esortò Alleras la Sfinge. Tolse una freccia dalla faretra e la incoccò.
«Mi piacerebbe vedere un drago.» Roone era il più giovane del gruppo, un ragazzo tarchiato cui mancava ancora un paio d’anni per raggiungere la virilità. «Mi piacerebbe proprio tanto.»
“E a me piacerebbe dormire tra le braccia di Rosey” pensò Pate. Si agitò inquieto sulla panca. Entro il mattino, la ragazza poteva essere sua. “La porterò lontano da Vecchia Città, attraverso il Mare Stretto, fino a una delle città libere.” Là non c’erano maestri, nessuno che lo potesse accusare.
Da dietro la finestra chiusa sopra di loro, si sentiva l’eco della risata di Emma, mescolata alla voce profonda dell’uomo che la stava sollazzando.
Emma era la più vecchia delle serve del Piumino & Boccale, quarant’anni compiuti, ma ancora attraente in modo carnale. Rosey era sua figlia, quindicenne e appena oltre la pubertà. Emma aveva stabilito il prezzo della verginità di Rosey: un dragone d’oro. Pate aveva risparmiato nove cervi d’argento e una pentola piena di stelle di rame, ma quelle monete non gli sarebbero servite a niente. Sarebbe stato più facile far nascere un drago vero piuttosto che tentare di ammassare abbastanza conio da metterne assieme uno d’oro.
«Sei nato troppo tardi per i draghi, ragazzo» stava dicendo Armen l’Accolito a Roone. Armen portava attorno al collo una stringa di cuoio cui erano appesi anelli di peltro, alluminio, piombo e rame. Come la maggior parte degli accoliti, sembrava credere che ai novizi, al posto della testa, in mezzo alle spalle crescesse una rapa. «L’ultimo è morto durante il regno di re Aegon III.»
«L’ultimo drago delle terre d’Occidente» insistette Mollander.
«Lancia quella mela» esortò nuovamente Alleras la Sfinge. Era un giovane di bell’aspetto. Tutte le serve gli sbavavano dietro. Perfino Rosey, quando gli portava il vino, a volte lo toccava, e Pate, digrignando i denti, era costretto a fare finta di non vedere.
«Fu proprio l’ultimo drago» non cedette Armen. «Questo è risaputo.»
«La mela» ripeté Alleras. «A meno che tu non voglia mangiartela.»
«Ecco, prendi.» Trascinandosi dietro la gamba di legno, Mollander fece un saltello, roteò su se stesso e lanciò la mela in obliquo nelle brume che fluttuavano sul Fiume Vino di Miele. Se non fosse stato per quel piede monco, sarebbe stato un cavaliere, come suo padre. Aveva la forza per esserlo, con quelle braccia massicce e quelle ampie spalle. La mela volò lontano e veloce…
… Ma non veloce come la freccia che le sibilò dietro, una verga di legno dorato lunga una iarda, dall’impennaggio scarlatto. Pate non vide la freccia centrare la mela, ma ne udì il rumore. L’eco soffocata rimbalzò dall’altra parte del fiume, seguita dal suono liquido dell’impatto contro la corrente.
«L’hai colpita!» Mollander fischiò. «Magnifico.»
“Nemmeno metà di quanto è magnifica Rosey.” Pate era incantato dai suoi occhi azzurri e dal seno acerbo, dal modo in cui lei gli sorrideva quando lo incontrava. Era incantato dalle fossette nelle sue guance. A volte Rosey serviva a piedi nudi, così da sentire l’erba sotto i propri passi. Pate era incantato anche da questo. E dall’odore di pulito, di fresco, che la circondava. E da come si tirava i capelli dietro le orecchie. Era incantato perfino dalle dita dei suoi piedi. Una notte Rosey gli aveva permesso di massaggiarglieli e di giocare con loro, e Pate aveva inventato una storiella divertente per ciascun dito, strappandole delle risatine.
Forse avrebbe fatto meglio a restare da questo lato del Mare Stretto. Con il conio che aveva risparmiato poteva comprarsi un asino, lui e Rosey si sarebbero dati il cambio sulla sella vagando per le terre d’Occidente. Ebrose non riteneva che lui fosse degno di ricevere pagamenti in argento, ma Pate sapeva ridurre fratture e salassare ferite con le sanguisughe. Il popolino gli sarebbe stato grato del suo aiuto. Se fosse riuscito a imparare a tagliare capelli e radere barbe, avrebbe addirittura potuto fare il barbiere. “Questo mi basterebbe” disse tra sé “se solo avessi Rosey.” Rosey era per lui il massimo dei desideri.
Non era sempre stato così. Una volta aveva sognato di essere un maestro, al servizio di un qualche munifico lord che lo avrebbe onorato per la sua saggezza e gli avrebbe fatto dono di un purosangue bianco per ringraziarlo dei suoi servigi. E come se ne sarebbe stato eretto sulla sella, sorridendo nobilmente al popolino lungo la strada…
Una notte, nella sala comune del Piumino & Boccale, dopo la seconda coppa di un sidro maledettamente forte, Pate aveva dichiarato che non sarebbe rimasto novizio per sempre. “Troppo vero” aveva replicato Leo il Pigro. “Infatti sarai un ex novizio, guardiano dei porci.” Pate si era scolato fino all’ultima goccia.
Quella mattina, la terrazza del Piumino & Boccale illuminata dalle torce era un’isola di luce circondata da un mare di nebbia. Lungo il fiume, molto più a valle, il faro remoto di Hightower, la torre alta, fluttuava nell’umidità della notte come una fosca luna arancione, ma quella luce non gli tirò su granché il morale.
“L’alchimista avrebbe già dovuto essere qui.” Era solo uno scherzo crudele, o forse a quell’uomo era accaduto qualcosa? Non sarebbe certo stata la prima volta che la fortuna girava le spalle a Pate. Un tempo si era ritenuto fortunato a essere stato scelto per occuparsi dei corvi dell’anziano arcimaestro Walgrave. Non immaginava che ben presto avrebbe finito per portargli da mangiare, rassettare le sue stanze, vestirlo ogni mattina. Tutti dicevano che Walgrave avesse dimenticato dell’arte dei corvi ben più di quanto sapesse la maggior parte dei maestri, così Pate aveva pensato che come minimo avrebbe ricevuto un anello di ferro nero, ma poi aveva scoperto che Walgrave non glielo poteva concedere. Il vecchio rimaneva arcimaestro solo formalmente. Un tempo, certo, era stato un grande sapiente ma ora le sue tonache celavano biancheria sempre più spesso lordata dall’incontinenza. E sei mesi prima alcuni accoliti lo avevano trovato in lacrime nella Biblioteca, incapace di ritrovare la strada per ritornare nelle proprie stanze. Ora, dietro la maschera di ferro, al posto di Walgrave sedeva maestro Gormon, quello stesso Gormon che una volta aveva accusato Pate di furto.
Sull’albero di mele vicino al fiume, iniziò a cantare un usignolo. Un suono delicato, piacevole intermezzo fra le urla roche e il continuo gracchiare dei corvi di cui Pate si occupava tutto il giorno. I corvi bianchi conoscevano il suo nome, e lo ripetevano gli uni agli altri ogni volta che lo vedevano, “Pate, Pate, Pate”, una nenia così ossessiva che gli veniva voglia di urlare. I grandi uccelli bianchi erano l’orgoglio dell’arcimaestro Walgrave. Alla sua morte, voleva che divorassero il suo corpo, ma Pate pensava che volessero far fuori anche lui.
Forse era l’effetto di quel sidro dannatamente forte – Pate non era andato alla locanda per bere, ma Alleras aveva voluto offrire per festeggiare il suo anello di rame, e il senso di colpa gli aveva messo sete – ma sembrava che l’usignolo ripetesse “ferro in oro, ferro in oro, ferro in oro”. Davvero strano, perché erano le parole che aveva usato il forestiero la notte in cui Rosey li aveva fatti incontrare. “Chi sei?” gli aveva chiesto Pate. “Un alchimista” aveva risposto l’uomo. “Posso trasmutare il ferro in oro.” E poi nella sua mano era apparsa la moneta, danzando tra una nocca e l’altra, il giallo pastoso dell’oro che scintillava alla luce della candela. Su una faccia c’era un drago con tre teste, sull’altra il ritratto di qualche re defunto. “Ferro in oro” ricordò Pate. “Non si potrebbe fare di meglio. Vuoi la fanciulla? La ami?” “Non sono un ladro” aveva detto Pate al sedicente alchimista. “Sono un novizio della Cittadella.” L’uomo aveva chinato il capo. “Se tu dovessi ripensarci” aveva concluso “di qui a tre giorni tornerò con il mio dragone d’oro.”
I tre giorni erano passati. Pate era ritornato al Piumino & Boccale ancora incerto su chi o che cosa era. Ma invece dell’alchimista aveva trovato Mollander, Armen e la Sfinge, con Roone alle calcagna. Non unirsi alla compagnia avrebbe sollevato sospetti.
Il Piumino & Boccale non chiudeva mai. Da seicento anni si ergeva sulla sua isola nella corrente del fiume Vino di Miele, e non una sola volta le sue porte erano state chiuse per i commerci. Anche se l’alta struttura di legno pendeva verso sud nello stesso modo in cui a volte i novizi pendevano verso i loro boccali, Pate era certo che la locanda avrebbe continuato a stare in piedi per altri seicento anni, vendendo vino e birra e quel sidro dannatamente forte a pescatori del fiume e a uomini di mare, a fabbri e cantastorie, a preti e principi, ai novizi e agli accoliti della Cittadella.
«Vecchia Città non è il mondo» dichiarò Mollander a voce troppo alta.
Era figlio di un cavaliere, e così ubriaco da non reggersi in piedi. Da che gli avevano recato la notizia della morte del padre, caduto nella Battaglia delle Acque Nere, Mollander si ubriacava quasi ogni notte. Perfino là a Vecchia Città, lontano dai combattimenti, al sicuro dietro le sue mura, la guerra dei Cinque Re li aveva toccati tutti… benché l’arcimaestro Benedict ribadisse che, da quando Renly Baratheon era stato assassinato e Balon Greyjoy si era autoincoronato, non era mai esistita alcuna guerra dei Cinque Re.
«Mio padre diceva sempre che il mondo è più grande di qualsiasi castello» continuò Mollander. «I draghi devono essere l’ultima cosa che un uomo può trovare a Qarth, ad Asshai e a Yi Ti. Quelle storie di marinai…»
«… sono solo storie di marinai, mio caro Mollander» lo interruppe Armen. «Prova ad andare al molo, e ti garantisco che troverai marinai che ti parleranno delle sirene che si sono portati a letto e di come hanno passato un anno dentro la pancia di un pesce.»
«Tu come fai a sapere che non è vero?» ribatté Mollander da dietro il bicchiere, cercando altre mele. «Devi esserci finito tu dentro la pancia di quel pesce per giurare che loro non ci sono andati. Un marinaio racconta una storia, aye, ci si può anche ridere sopra, ma quando i rematori di quattro diverse navi raccontano la medesima storia in quattro lingue diverse…»
«Non è la medesima storia» insistette Armen. «Draghi ad Asshai, draghi a Qarth, draghi a Meeren, draghi dothraki, draghi che liberano schiavi… ogni storia è diversa dall’altra.»
«Solo nei dettagli.» Più Mollander beveva, più diventava ostinato, ed era uno zuccone anche da sobrio. «Parlano tutte di draghi, e di una bellissima giovane regina.»
L’unico drago che interessava a Pate era fatto d’oro massiccio. Si domandò che cosa fosse successo all’alchimista. Il terzo giorno. Aveva detto che sarebbe tornato il terzo giorno.
«C’è un’altra mela vicino al tuo piede» disse Alleras a Mollander «e io ho ancora due frecce nella mia faretra.»
«Al diavolo la tua faretra.» Mollander raccolse un’altra mela strappata dal vento. «Questa ha dentro il verme» si lamentò, ma la lanciò comunque in aria.
La freccia centrò la mela proprio mentre stava cominciando a ricadere, spaccandola di netto in due. Una metà finì sul tetto di una torretta, rotolò su quello più in basso e mancò Armen di mezzo metro.
«Se tagli un verme in due, avrai due vermi» sentenziò l’accolito.
«Funzionasse così anche con le mele, nessuno patirebbe più la fame» commentò Alleras con uno dei suoi sorrisi melliflui. La Sfinge sorrideva sempre, come se conoscesse qualche segreto che tutti gli altri ignoravano. Questo gli conferiva un aspetto malevolo che ben si intonava con il mento appuntito, l’attaccatura dei capelli a punta e la folta massa di riccioli tagliati corti, neri come l’inchiostro.
Alleras sarebbe diventato un maestro. Era alla Cittadella da appena un anno, ma era già riuscito a forgiare tre anelli della catena dell’ordine. Armen avrebbe potuto averne di più, ma per forgiare ognuno dei suoi aveva impiegato un anno. Eppure, anche lui sarebbe diventato un maestro. Roone e Mollander restavano novizi dal collo roseo, ma Roone era molto giovane, mentre Mollander preferiva il bere alla lettura.
Pate, invece…
Era arrivato alla Cittadella da cinque anni, poco più che tredicenne, ma il suo collo era ancora roseo e intonso come il giorno del suo arrivo dalle terre d’Occidente. Due volte aveva ritenuto di essere pronto. La prima volta si era presentato al cospetto dell’arcimaestro Vaellyn, deciso a dimostrare la sua conoscenza del firmamento. Per contro aveva scoperto perché Vaellyn Aceto si fosse guadagnato quel soprannome. C’erano voluti due anni prima che Pate trovasse il coraggio di tentare di nuovo. Questa volta aveva affrontato il benevolo maestro Ebrose, noto per la voce pacata e per le mani gentili, ma i sospiri sconsolati di Ebrose si erano rivelati dolorosi quanto le parole taglienti di Vaellyn.
«Un’ultima mela» promise Alleras «e ti dirò qual è il mio sospetto riguardo a questi draghi.»
«Tu che cosa credi di sapere che io non so?» borbottò Mollander. Notò una mela ancora appesa al ramo, spiccò un salto, la strappò e la lanciò.
Alleras tese la corda dell’arco fino all’orecchio, si voltò con grazia seguendo il bersaglio in volo. Scoccò la freccia nell’attimo esatto in cui la mela cominciava a cadere.
«Manchi sempre l’ultimo tiro» disse Roone.
La mela, intatta, colpì il fiume sollevando uno spruzzo.
«Visto?»
«Il giorno in cui li centrerai tutti, smetterai di migliorare.» Alleras tolse la corda dall’arco lungo e lo ripose nella custodia di pelle. L’arco era fatto di cuordoro, un legno raro e rinomato delle Isole dell’Estate. Una volta Pate aveva cercato di tenderlo, senza riuscirci. “La Sfinge sembra esile, ma c’è molta forza in quelle braccia sottili” rifletté mentre Alleras si metteva a cavalcioni della panca e allungava una mano verso la coppa di vino. «Il drago ha tre teste» annunciò nel melodioso accento dorniano.
«Un enigma?» chiese Roone. «Nelle leggende, le Sfingi parlano sempre per enigmi.»
«Nessun enigma.» Alleras sorseggiò il vino.
Gli altri scolavano i boccali di fortissimo sidro per cui il Piumino & Boccale era rinomato, ma lui continuava a preferire gli esotici vini dolci di Dorne, terra dei suoi avi. Perfino a Vecchia Città quei vini non erano a buon mercato.
Era stato Leo il Pigro a dare ad Alleras quel soprannome: la Sfinge. Una sfinge è un po’ di questo e un po’ di quello: il volto di un uomo, il corpo di un leone, le ali di un falco. Alleras era proprio così: suo padre era un dorniano, sua madre una nativa delle Isole dell’Estate dalla pelle scura. La pelle di Alleras era scura come il tek. E, come le sfingi di marmo verde ai lati del portale principale della Cittadella, Alleras aveva occhi color onice.
«Nessun drago ha mai avuto tre teste, tranne quelli sugli scudi e sui vessilli» dichiarò con fermezza Armen l’Accolito. «È un simbolo araldico, niente di più. Inoltre, i Targaryen sono tutti morti.»
«Non tutti» replicò Alleras. «Il Re Mendicante aveva una sorella.»
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