Descrizione
Prologo
Domenica 24 ottobre 2004.
Un mese prima della Tragedia.
Domani, mio cugino Woody entrerà in carcere. Vi passerà i prossimi cinque anni della sua vita.
Sulla strada che conduce dall’aeroporto di Baltimore a Oak Park, il quartiere della sua infanzia dove sto andando a raggiungerlo per il suo ultimo giorno di libertà, lo immagino presentarsi davanti al cancello dell’imponente penitenziario di Chesire, nel Connecticut.
Passo la giornata con lui, nella casa di mio zio Saul, dove siamo stati così felici. Ci sono anche Hillel e Alexandra, e insieme ricostituiamo per cinque ore il meraviglioso quartetto che siamo stati. In quel momento, non ho la minima idea dell’influenza che quella giornata avrà sulle nostre vite.
Due giorni dopo, ricevo una telefonata di zio Saul.
“Marcus? Sono lo zio Saul.”
“Ciao, zio Saul. Come st…”
Non mi lascia finire.
“Ascoltami bene, Marcus: devi venire subito a Baltimore. Senza fare domande. È successa una cosa grave.”
Riattacca. Io penso che sia caduta la linea e lo richiamo subito: non risponde. Dato che insisto, finisce per rispondere e mi dice tutto d’un fiato: “Vieni a Baltimore.”
Riattacca di nuovo.
Se trovate questo libro, leggetelo, per favore.
Vorrei che qualcuno conoscesse la storia dei Goldman di Baltimore.
1.
Io sono lo scrittore.
È così che mi chiamano tutti. I miei amici, i miei genitori, i miei parenti, e anche le persone che non conosco e che tuttavia mi riconoscono in un luogo pubblico e mi dicono: “Lei non è quello scrittore…?” Io sono lo scrittore: è la mia identità.
La gente crede che, in quanto scrittore, la tua vita sia abbastanza tranquilla. Recentemente un mio amico, dopo essersi lamentato per i suoi spostamenti quotidiani tra casa e ufficio, mi ha detto: “Tu, in fondo, la mattina ti alzi, ti siedi alla scrivania e scrivi. Tutto qua.” Non gli ho risposto niente, forse per lo sconforto di rendermi conto fino a che punto, nell’immaginario collettivo, il mio lavoro consista nel non far niente. La gente pensa che non combini nulla, ma è proprio quando non fai niente che lavori di più.
Scrivere un libro è come aprire una colonia estiva. La tua vita, in genere solitaria e tranquilla, viene improvvisamente scombussolata da una moltitudine di personaggi che un giorno giungono senza preavviso e ti stravolgono l’esistenza. Arrivano una mattina, a bordo di un grande pullman, dal quale scendono rumorosamente, eccitati per il ruolo che hanno ottenuto. E tu devi rassegnarti, devi occupartene, devi dargli da mangiare, devi ospitarli. Sei responsabile di tutto. Perché tu, appunto, sei lo scrittore.
Questa storia inizia nel febbraio del 2012, quando lasciai New York per andare a scrivere il mio nuovo romanzo nella casa che avevo appena acquistato a Boca Raton. L’avevo comprata tre mesi prima, coi soldi della cessione dei diritti cinematografici del mio ultimo libro, e, a parte qualche rapida incursione per arredarla nei mesi di dicembre e gennaio, era la prima volta che mi ci fermavo a lungo. Era una casa spaziosa, tutta vetrate, affacciata su un lago molto apprezzato dagli amanti delle passeggiate. Sorgeva in un quartiere tranquillo e pieno di verde, abitato perlopiù da pensionati benestanti in mezzo ai quali stonavo. Avevo metà dei loro anni, ma se avevo scelto quel posto era proprio per la sua quiete assoluta. Era il luogo che mi serviva per scrivere.
Al contrario dei miei soggiorni precedenti, sempre brevissimi, stavolta avevo molto tempo a disposizione e raggiunsi la Florida in macchina. I duemila chilometri di viaggio non mi spaventavano minimamente: negli anni precedenti, avevo fatto innumerevoli volte quel tragitto partendo da New York per andare a trovare mio zio, Saul Goldman, che si era trasferito nei sobborghi di Miami dopo la Tragedia che aveva colpito la sua famiglia. Avrei potuto fare quella strada a occhi chiusi.
Lasciai New York sotto una fitta coltre di neve, con il termometro che segnava -10°, e arrivai a Boca Raton due giorni dopo, nella mitezza dell’inverno tropicale. Ritrovando quel familiare scenario di sole e palme, non potei fare a meno di pensare a zio Saul. Mi mancava terribilmente. Ne ebbi la netta percezione al momento di lasciare l’autostrada per entrare a Boca Raton, quando fui tentato di continuare fino a Miami per rivederlo. Mi chiesi se, in occasione dei precedenti soggiorni, fossi davvero venuto per occuparmi dei miei mobili o se quello non fosse, in fondo, un modo per riallacciare i rapporti con la Florida. Senza di lui, non era la stessa cosa.
Il mio vicino di casa a Boca Raton era un simpatico ultra settantenne, Leonard Horowiz, ex luminare di diritto costituzionale a Harvard, che veniva a svernare in Florida e che, dopo la morte della moglie, passava il tempo a cercare di scrivere un libro che non riusciva a iniziare in modo soddisfacente. L’avevo conosciuto il giorno in cui ero entrato per la prima volta nella mia nuova casa. Aveva suonato alla porta, presentandosi con una confezione di birre per darmi il benvenuto, ed eravamo andati d’accordo sin dal primo istante. Da allora, aveva preso l’abitudine di venire a salutarmi ogni volta che capitavo lì. Tra noi si era rapidamente instaurato un rapporto amichevole.
Apprezzava la mia compagnia e penso che fosse contento di sapere che stavolta mi sarei fermato più a lungo. Avendogli spiegato che ero venuto a scrivere il mio nuovo romanzo, mi parlò immediatamente del suo. Lavorava con passione ma stentava a far procedere la storia. Portava sempre con sé un grande quaderno a spirale, sul quale aveva scritto col pennarello “Quaderno n. 1”, lasciando intendere che ne sarebbero seguiti altri. Da casa mia lo vedevo costantemente col naso ficcato tra le pagine, sin dal mattino, in terrazza o al tavolo della cucina. L’avevo incrociato più volte seduto a un tavolino di un bar del centro, concentrato sul suo testo. Lui, per contro, mi vedeva passeggiare, nuotare nel lago, andare in spiaggia, fare jogging. La sera, veniva a suonare alla mia porta con qualche birra ghiacciata. Le bevevamo sulla mia terrazza, giocando a scacchi e ascoltando musica. Dietro di noi si stendeva il paesaggio sublime del lago e delle palme che il tramonto tingeva di rosa. Tra una mossa e l’altra, Leo mi chiedeva sempre, senza distogliere lo sguardo dalla scacchiera:
“Allora, Marcus, il suo libro?”
“Procede, Leo. Procede.” Ero lì da due settimane quando, una sera, mentre stavo per mangiargli una torre, lui si bloccò di colpo e mi disse, in tono improvvisamente seccato:
“Non era venuto qui per scrivere il suo nuovo romanzo?”
“Sì, perché?”
“Perché non fa niente dalla mattina alla sera, e questo mi irrita.”
“Cosa le fa credere che io non faccia niente?”
“Lo vedo coi miei occhi! Passa le giornate a fantasticare, a fare sport e a guardare le nuvole che si rincorrono. Ho settantotto anni, e sono io che dovrei perder tempo come fa lei, che ne ha poco più di trenta e dovrebbe sgobbare tutto il giorno!”
“Cos’è che la disturba davvero, Leo? Il mio libro o il suo?”
Avevo colpito nel segno. Si addolcì:
“Vorrei solo sapere come fa. Il mio romanzo non procede. Sono curioso di sapere qual è il suo modo di lavorare.”
“Mi siedo su questa terrazza e rifletto. E mi creda, non è un lavoro da poco. Lei invece scrive per tenere impegnata la mente. È diverso.”
Mosse il cavaliere e minacciò il mio re.
“Non potrebbe darmi una buona idea di trama da romanzo?”
“Impossibile.”
“Perché?”
“L’idea deve nascere da lei.”
“In ogni caso, eviti di parlare di Boca Raton nel suo libro, la prego. Non mi va che tutti i suoi lettori vengano qui in processione per vedere dove abita.”
Io sorrisi e aggiunsi:
“Non bisogna cercare l’idea, Leo. L’idea viene da sola. L’idea è un avvenimento che può capitare da un momento all’altro.”
Avrei mai potuto immaginare che fosse proprio ciò che stava per succedere nel momento in cui pronunciavo quelle parole? Vidi sul lungolago la sagoma di un cane che vagabondava. Corpo robusto ma elegante, orecchie appuntite e muso nell’erba. Vicino a lui non c’era nessuno che passeggiasse.
“Sembra che quel cane sia solo,” dissi.
Horowitz alzò la testa e osservò l’animale vagabondo.
“Qui non ci sono cani randagi,” decretò.
“Non ho detto che è un cane randagio. Ho detto che gironzola tutto solo.”
Amo da morire i cani. Mi alzai dalla sedia, misi le mani a imbuto davanti alla bocca e fischiai per chiamarlo. Il cane rizzò le orecchie. Fischiai ancora, e lui accorse.
“È pazzo,” borbottò Leo, “come fa a sapere che quella bestia non ha la rabbia? Tocca a lei muovere.”
“Infatti non lo so,” risposi, avanzando sbadatamente la torre.
Horowitz mi mangiò la regina per punirmi della mia insolenza.
Il cane arrivò all’altezza della terrazza. Mi accucciai accanto a lui. Era un maschio abbastanza alto, dal pelo fulvo, con una mascherina scura sugli occhi e lunghe vibrisse da foca. Mi poggiò il muso sulle ginocchia e io lo accarezzai. Aveva un’espressione dolcissima. Sentii immediatamente che tra lui e me si stava creando un legame, come un colpo di fulmine – e chi conosce i cani sa di cosa parlo. Non aveva collare, niente che potesse identificarlo.
“Ha mai visto questo cane?” chiesi a Leo.
“Mai.”
Dopo aver ispezionato la terrazza, il cane si allontanò di corsa, senza che potessi trattenerlo, e sparì tra le palme e i cespugli.
“Ha l’aria di sapere dove va,” disse Horowitz. “Sarà sicuramente il cane di qualche vicino.”
Quella sera c’era un caldo opprimente. Quando Leo andò via, nonostante l’oscurità, intuii un cielo minaccioso. Di lì a poco scoppiò un violento temporale, con fulmini impressionanti che si abbattevano oltre il lago; dalle nuvole gonfie si rovesciava una pioggia torrenziale. Verso mezzanotte, mentre leggevo nel soggiorno, udii un guaito provenire dalla terrazza. Andai a vedere di che si trattasse, e dalla vetrata scorsi il cane, con il pelo zuppo e l’aria abbacchiata. Gli aprii, e lui s’infilò subito in casa. Mi guardò con aria implorante.
“Va bene, puoi restare,” gli dissi.
Gli diedi da bere e da mangiare in due ciotole improvvisate con delle pentole; poi mi sedetti accanto a lui per asciugarlo con un telo da bagno e restammo a guardare la pioggia che scorreva sui vetri.
Passò la notte da me. L’indomani, quando mi svegliai, lo trovai tranquillamente addormentato sul pavimento della cucina. Feci un guinzaglio con un pezzo di corda – era solo una precauzione, visto che mi seguiva docilmente – e uscimmo alla ricerca del suo padrone.
Leo stava bevendo il caffè nella veranda di casa, con il “Quaderno n. 1” aperto davanti a sé su una pagina disperatamente bianca.
“Che sta combinando con quel cane, Marcus?” mi chiese quando vide che facevo salire il cane nel baule della mia macchina.
“Stanotte l’ho trovato in terrazza. Con quel temporale, l’ho fatto entrare in casa. Dev’essersi perduto.”
“E dove sta andando, adesso?”
“A mettere un avviso al supermercato.”
“Ecco, come dicevo, non lavora mai.”
“In realtà, sto lavorando.”
“Be’, allora non si stanchi troppo, amico mio.”
“Promesso.”
Dopo aver messo un avviso nei due supermercati più vicini, andai a fare quattro passi col cane nella strada principale di Boca Raton, con la speranza che qualcuno lo riconoscesse. Invano. Decisi allora di recarmi alla stazione di polizia, dove mi indirizzarono a uno studio veterinario. A volte gli animali erano muniti di un microchip identificativo che permetteva di risalire al proprietario. Non era il caso di quel cane, e il veterinario non fu in grado di aiutarmi. Mi propose di ricoverarlo al canile, ma io rifiutai e tornai a casa accompagnato dal mio nuovo amico che, devo dire, era particolarmente dolce e mansueto, nonostante la stazza imponente.
Leo aspettava il mio ritorno sulla veranda di casa. Appena mi vide, corse verso di me brandendo dei fogli che aveva appena stampato. Aveva scoperto di recente la magia di Google e digitava a tutto spiano ogni domanda che gli passasse per la testa. Per un accademico come lui, che aveva trascorso gran parte della vita nelle biblioteche a cercare riferimenti, la magia degli algoritmi di ricerca aveva un effetto particolare.
“Ho fatto una piccola indagine,” disse, come se avesse appena risolto il caso Kennedy, tendendomi le decine di pagine che a breve mi avrebbero costretto ad aiutarlo a cambiare la cartuccia d’inchiostro della stampante.
“E cosa ha scoperto, professor Horowitz?”
“I cani ritrovano sempre la loro cuccia. Alcuni percorrono migliaia di chilometri per tornare a casa.”
“Cosa mi consiglia di fare?”
Leo mi guardò con un’espressione da vecchio saggio:
“Segua il cane, anziché costringerlo a seguirla. Lui sa dove andare, lei no.”
Il mio vicino non aveva torto. Decisi di sganciare il guinzaglio di corda del cane e di lasciarlo vagabondare. Si allontanò al piccolo trotto, dapprima costeggiando il lago, poi imboccando un sentiero interno. Attraversammo un campo da golf e giungemmo in un quartiere residenziale che non conoscevo, fiancheggiato da un braccio di mare. Il cane seguì la strada, svoltò due volte a destra e infine si fermò di fronte a un cancello, dietro il quale vidi una villa magnifica. Si accucciò e uggiolò. Suonai al citofono. Mi rispose una donna, cui dissi che avevo trovato il suo cane. Il cancello si aprì e il cane corse fino alla casa, chiaramente felice di essere tornato alla sua cuccia.
Lo seguii. Una donna comparve sugli scalini della villa, e il cane si precipitò verso di lei in uno slancio di gioia. Sentii la donna chiamarlo col suo nome. “Duke.” I due si fecero un sacco di coccole e io avanzai di qualche passo. Lei alzò il viso e io rimasi sbigottito.
“Alexandra?” riuscii infine ad articolare.
“Marcus?”
Era incredula quanto me.
Poco più di sette anni dopo la Tragedia che ci aveva separato, la ritrovavo. Spalancò gli occhi e ripeté, con voce carica di stupore:
“Marcus, sei tu?!”
Io rimasi immobile, stordito.
Lei corse verso di me.
“Marcus!”
In uno slancio di tenerezza istintiva, mi prese il viso tra le mani, come se nemmeno lei riuscisse a crederci e volesse assicurarsi che era proprio vero. Quanto a me, non riuscivo a pronunciare neppure una parola.
“Marcus,” disse lei, “non riesco a credere che sia proprio tu.”
A meno che non viviate in una caverna, avrete inevitabilmente sentito parlare di Alexandra Neville, la cantante e musicista più in voga degli ultimi anni. Era l’idolo che la nazione aveva atteso a lungo, colei che aveva salvato l’industria discografica. I suoi tre album avevano venduto 20 milioni di copie; per il secondo anno consecutivo, figurava tra i personaggi più influenti selezionati dalla rivista “Time” e il suo patrimonio personale era valutato in 150 milioni di dollari. Era adorata dal pubblico, adulata dalla critica. Piaceva sia ai giovani sia agli anziani. Piaceva a tutti, tanto da darmi la sensazione che ormai l’America conoscesse solo quelle quattro sillabe che scandiva con amore e fervore: A-lex-an-dra.
Era fidanzata con un giocatore di hockey originario del Canada, Kevin Legendre, che proprio in quell’istante comparve dietro di lei.
“Ha ritrovato Duke! È da ieri che lo stavamo cercando! Alex era disperata. Grazie!”
Mi tese la mano. Vidi il suo bicipite contrarsi mentre mi stritolava le falangi. Avevo visto Kevin solo sui tabloid, che non si stancavano di commentare la sua storia con Alexandra. Era di una bellezza sfacciata. Più ancora che nelle foto. Mi fissò per qualche istante con un’espressione curiosa e disse:
“Io la conosco, no?”
“Mi chiamo Marcus. Marcus Goldman.”
“Lo scrittore, vero?”
“Esatto.” “Ho letto il suo ultimo libro. È stata Alexandra a consigliarmelo, adora i suoi romanzi.”
Non riuscivo a credere a quella situazione. Avevo appena ritrovato Alexandra… a casa del suo fidanzato. Kevin, che non aveva idea di cosa stesse capitando, mi propose di restare a cena, e io accettai volentieri.
Grigliammo delle enormi bistecche su un gigantesco barbecue in terrazza. Non avevo seguito gli ultimi sviluppi della carriera di Kevin: lo credevo ancora un difensore dei Nashville Predators, ma era stato ingaggiato dai Florida Panthers durante il mercato estivo. Quella era la sua casa. Abitava a Boca Raton, adesso, e Alexandra aveva approfittato di una pausa nella registrazione del suo nuovo disco per andare a trovarlo.
Fu solo alla fine della cena che Kevin si rese conto che Alexandra e io ci conoscevamo bene.
“Tu sei di New York, vero?” mi chiese.
“Sì. Vivo lì.”
“Cosa ti ha condotto in Florida?”
“Da qualche anno ho preso l’abitudine di venire da queste parti. Mio zio abitava a Coconut Grove e andavo spesso a trovarlo. Ho appena comprato casa a Boca Raton, non molto lontano da qui. Volevo un posto tranquillo per scrivere.”
“Come sta tuo zio?” chiese Alexandra. “Non sapevo che avesse lasciato Baltimore.”
Ignorai la domanda e mi limitai a dire:
“Ha lasciato Baltimore dopo la Tragedia.”
Kevin puntò la forchetta contro di noi, senza neanche rendersene conto.
“Sto sognando, o voi due vi conoscete?” domandò.
“Ho vissuto per qualche anno a Baltimore,” spiegò Alexandra.
“E una parte dei miei parenti viveva lì,” proseguii io. “Mio zio, appunto, con sua moglie e i miei cugini. Abitavano nello stesso quartiere della famiglia di Alexandra.”
Alexandra ritenne opportuno non aggiungere altri particolari e cambiammo argomento. Terminata la cena, dato che ero a piedi, si offrì di accompagnarmi a casa.
Quando mi trovai da solo in macchina con lei, avvertii chiaramente un certo imbarazzo tra noi. A un certo punto, dissi:
“È pazzesco, ci mancava che il tuo cane finisse a casa mia…”
“Scappa spesso,” rispose lei.
Ebbi il cattivo gusto di voler scherzare.
“Può darsi che non gli piaccia Kevin.”
“Non cominciare, Marcus.”
Il suo tono era tagliente.
“Non fare così, Alex…”
“Così come?”
“Sai benissimo cosa voglio dire.”
Inchiodò di botto in mezzo alla strada e piantò i suoi occhi nei miei.
“Perché l’hai fatto, Marcus?”
Stentavo a sostenere il suo sguardo. Quasi strillando, disse:
“Mi hai abbandonata!”
“Mi spiace. Avevo i miei motivi.”
“I tuoi motivi? Non avevi nessun motivo di mandare tutto all’aria!”
“Alexandra, loro… Loro sono morti!”
“E con questo… È colpa mia?”
“No,” risposi. “Mi dispiace. Mi dispiace per tutto.”
Scese un silenzio pesante. Le uniche parole che pronunciai furono per guidarla fino a casa mia. Arrivati davanti all’ingresso, disse:
“Grazie per Duke.”
“Mi piacerebbe rivederti.”
“Penso che sia meglio chiuderla qui. Non tornare, Marcus.”
“A casa di Kevin?”
“Nella mia vita. Non tornare nella mia vita, per favore.”
Ripartì.
Non me la sentivo di entrare in casa. Avevo le chiavi della macchina in tasca e decisi di andare a fare un giro. Guidai fino a Miami e, senza riflettere, attraversai la città e raggiunsi il tranquillo quartiere di Coconut Grove. Mi fermai davanti alla casa di mio zio. Scesi dall’auto, la temperatura era gradevole. Mi appoggiai alla carrozzeria e rimasi a lungo a guardare la casa. Avevo l’impressione che lui fosse lì, mi sembrava di sentire la sua presenza. Volevo ritrovare lo zio Saul, ed esisteva solo un modo per riuscirci. Scriverlo.
Saul Goldman era il fratello di mio padre. Prima della Tragedia, prima dei fatti che mi accingo a raccontare, era “un uomo molto importante”, per usare un’espressione utilizzata dai miei nonni. Avvocato, dirigeva uno degli studi più rinomati di Baltimore, e la sua esperienza l’aveva portato a occuparsi di cause celebri in tutto il Maryland. Il caso Dominic Pernell, l’aveva trattato lui. E anche il caso Città di Baltimore contro Morris e quello delle vendite illegali a Sunridge. A Baltimore lo conoscevano tutti. Compariva sui giornali, in televisione, e ricordo che, all’epoca, tutto questo mi faceva una grande impressione. Aveva sposato il suo amore di gioventù, la donna che per me era diventata zia Anita. Ai miei occhi di bambino, lei rappresentava la più bella delle donne e la più dolce delle madri. Medico, era una delle colonne del reparto di oncologia dell’ospedale Johns Hopkins, uno dei più rinomati del paese. Insieme, Saul e Anita avevano avuto un figlio meraviglioso, Hillel, un ragazzo buono e di un’intelligenza eccezionale, che, con qualche mese di differenza, mi era coetaneo e col quale avevo un rapporto fraterno.
I momenti migliori della mia giovinezza furono quelli trascorsi con loro, e per molto tempo il semplice evocare i loro nomi mi rese pazzo di orgoglio e felicità. Rispetto a tutte le famiglie che avevo conosciuto, a tutte le persone che avevo incontrato, Saul, Anita e Hillel mi erano sempre sembrati superiori: più felici, più realizzati, più ambiziosi, più stimati. Per molto tempo, l’esistenza mi diede ragione. Erano esseri di un’altra dimensione. Ero affascinato dalla facilità con cui percorrevano la vita, abbagliato dal loro ascendente, soggiogato dalla loro disinvoltura. Ammiravo il loro stile, la loro posizione sociale, le loro proprietà. L’immensa casa, le auto di lusso, la residenza estiva negli Hamptons, l’appartamento a Miami, le tradizionali vacanze sulla neve di marzo a Whistler, nella Columbia Britannica. La loro semplicità, la loro felicità. Il loro garbo nei miei confronti. Quella magnifica superiorità che li faceva ammirare istintivamente.
Non suscitavano gelosie: erano troppo ineguagliabili per essere invidiati. Erano stati benedetti dagli dèi. Per molto tempo pensai che non gli sarebbe mai successo niente. Per molto tempo pensai che sarebbero stati eterni.
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