Descrizione
Capitolo 1
Il barchino scivolava silenzioso nella notte, la scia fosforescente che appena increspava l’acqua. Una figura nera, in piedi, remava decisa, ogni colpo di remo un balzo in avanti e si capiva che non stava facendo una gita di piacere: sapeva perfettamente dove andare e voleva arrivarci in fretta.
Venezia era rimasta alle sue spalle da oltre venti minuti e continuava a puntare verso il mare, oltrepassando la laguna. Finalmente, davanti, il profilo basso di un’isola; cespugli, dune, tra gli alberi i tetti di costruzioni buie. L’uomo sul barchino era vestito di nero e la sua silhouette si confondeva col nero del cielo. Si avvicinò all’isola, si tenne lungo la costa bassa e sabbiosa fino a che vide un’ombra più scura che sembrava protesa nell’acqua, un pontile di legno. Distese il remo sul fondo e si aggrappò con una mano alla bitta; si tirò accosto, legò la barca e poi con un balzo saltò su, senza rumore.
Era un giovane con i capelli neri, gli occhi chiari e un viso freddo, impersonale; di altezza media, indossava dei pantaloni scuri ed una maglietta nera. Con le scarpe dalla suola di gomma avanzò sul pontile senza il minimo rumore e si fermò un attimo davanti a un cartello di legno su cui era scritto “Sant’Agnese”, cancellato da un tratto di pittura rossa. Sotto, a lettere un po’ sbilenche, era scritto il nuovo nome dell’isola: “La Favorita”. Il giovane fece una smorfia di disgusto ironico, poi continuò lungo il molo, superandolo e girando subito a destra; c’era uno stretto sentiero di sabbia che curvava sparendo nel buio. Il giovane lo imboccò senza un attimo di esitazione.
Si fermò di scatto, le mani lungo i fianchi appena discoste dal corpo, in attesa.
Sul sentiero, davanti a lui, era apparso come per incanto un grosso dobermann con il muso teso e i muscoli pronti che lo costrinse a restare perfettamente immobile. Il cane avanzò, si fermò di nuovo con i denti scoperti in un ghigno. L’immobilità dell’uomo lo sconcertava perché era addestrato all’attacco contro soggetti in movimento.
Rimasero per lunghi momenti immobili, uno di fronte all’altro, come un gruppo statuario, poi fu il cane a cedere per primo. Sempre silenziosamente, spiccò un balzo a fauci spalancate .
Il giovane si scostò di un passo mentre col braccio destro ripiegato e la mano a taglio colpiva alla gola il cane in volo che ricadde con un tonfo sul sentiero, rantolò qualche istante e poi si irrigidì. Il giovane si chinò sull’animale, era morto; lo spinse fuori dal sentiero e proseguì. Non si era aspettato l’assalto del cane. Sperò che non ce ne fossero altri, ma in genere li tenevano in coppia. Infatti, qualche minuto dopo, una massa di muscoli e denti si lanciò su di lui, senza alcun suono. Era la femmina ed era più scaltra, non aveva atteso di vedere come colpiva il nemico, lo aveva sorpreso.
L’urto lo fece cadere a terra, ma già la mano era corsa al pugnale che teneva nella cintura e con un colpo solo si liberò del cane. Si sollevò su un ginocchio, aveva le mani sporche di sangue; si pulì sulla sabbia del sentiero, poi nascose l’animale, pulì il pugnale, se lo tornò a infilare alla cintola e proseguì.
In fondo al sentiero si vedeva una massa scura e compatta, squadrata; il giovane si fermò con uno sguardo compiaciuto: era finalmente arrivato alla meta. In due agili passi salì la scala di pietra che portava sopra il fabbricato, un bunker di cemento. C’era una botola e l’aprì, cominciando a scendere una scaletta di ferro a pioli. A tentoni cercò sul pavimento fino a che trovò ciò che si aspettava: una torcia elettrica, un sacco a pelo, delle scatolette e del caffè liofilizzato. C’era anche una tanica d’acqua e il giovane si lavò accuratamente le mani e il viso, poi bevve del caffè, si spogliò, spense la torcia e si infilò nel sacco a pelo. La prima parte di ciò che doveva fare, era fatta. Finalmente poteva rilassarsi.
Lo svegliò un raggio di sole che attraverso la botola gli batteva sul viso.
Il bunker era sufficientemente illuminato da una serie di feritoie ad altezza d’uomo che correvano lungo la parete verso il mare. Prima di uscire si infilò una maglietta, dei pantaloncini e un paio di zoccoli di legno, poi risalì per la scala a pioli e, appena fuori, richiuse accuratamente la torretta, mimetizzandola con dei rami.
Si avviò lungo il sentiero senza voltarsi, poi deviò a sinistra e si trovò davanti a una spiaggia deserta.
C’erano dune più alte di lui, lucertole al sole, e piccole onde battevano pigre in un biancore accecante.
Il giovane raggiunse l’acqua e cominciò a camminare lentamente lungo il mare, le onde che gli lambivano i piedi; dei grandi gabbiani con le ali scure si scostarono appena per lasciarlo passare. A metà spiaggia si buttò in acqua e nuotò adagio, sentendo una gioia profonda dentro di sé. Era a casa!
Quando risalì si gettò sulla sabbia calda e rimase supino, gli occhi chiusi, le mani distese davanti al viso e si assopì.
Si svegliò di colpo quando qualcosa di freddo e duro gli immobilizzò la schiena. Una lunga ombra lo sovrastava. Tentò di alzarsi, ma la cosa metallica aumentò la pressione, mentre una voce femminile con chiaro accento americano diceva:
Fermo dove sei, bello! Prima dimmi chi sei, cosa fai qui e dopo potrai alzarti.
Il giovane sorrise a fior di labbra, ecco la Favorita !
– Mi chiamo Alessio Bragadin e sono il proprietario di quest’isola. Posso alzarmi?
La pressione sulla schiena si allentò.
Alessio Bragadin si girò e guardò con aperta ammirazione la figuretta della ragazza in bikini; era snella, due lunghe gambe, una testolina di riccioli scuri, gli occhi neri, una bocca piccola. Aveva in mano un ancorotto e lo guardava, incredula. Le sorrise.
– Tu, piuttosto, chi sei?
La ragazza reagì e disse, ancora sorpresa:
– Ma l’isola è mia! Anzi, di mio padre! L’abbiamo comprata, era in vendita all’asta, non aveva più proprietari!
– Errato. L’isola appartiene ai Bragadin dal 1571, da quando il prode Marcantonio Bragadin si fece scuoiare vivo per difendere Cipro. Il Doge regalò l’isola agli eredi, si sentiva generoso dopo la vittoria di Lepanto. E io sono l’ultimo erede.
La ragazza scosse il capo, irritata.
– Non credo sia così semplice, signor Bragadin! Dovrà dimostrarlo con documenti alla mano, non con parole!
Alessio continuò a sorridere. Era molto divertito.
– E’ per questo che sono qui. Per dimostrarlo, documenti alla mano. Chi è lei, intanto?
– Io sono Clarissa Deward.
Alessio si alzò, le tese la mano, compito.
– Molto piacere, signorina. Cosa si fa, adesso?
Clarissa lo guardò, incerta.
– Penso sia meglio che venga a parlare con mio padre…
– Si, penso anch’io che sia meglio.
– Come è arrivato qui?
– Con una barca, è ovvio. E’ ancora un’isola, vero?
Clarissa scosse il capo, irritata.
– Lo so che è ovvio, signor Bragadin. Il fatto è che qui non vedo barche!
Alessio si guardò intorno, molto serio. La stava prendendo in giro.
– Ha ragione! Nemmeno io vedo barche!
Clarissa strinse le labbra.
– Andiamo!
Si avviò lungo la spiaggia, i fianchi che oscillavano piacevolmente e Alessio, dopo aver raccolto gli zoccoli e la maglietta, la seguì.
Era proprio una bella ragazza, un po’ intrattabile, ma graziosa. E meritava in pieno l’appellativo di Favorita.
Camminarono per una decina di minuti, poi la ragazza deviò verso l’interno, tra le dune. C’era un marciapiede di lastroni di cemento che scendeva e saliva, seguendo l’andamento delle dune. Clarissa Deward si girò e attese il giovane.
– Là in fondo comincia il recinto della casa. Più un villaggio che una singola casa. Le conviene starmi vicino, ci sono dei cani nella proprietà.
Alessio sollevò appena un sopracciglio, dimostrando sorpresa.
– Dei cani?! Davvero? E perché?
– Be’, per… sicurezza.
La risposta sembrava incerta e il giovane scosse appena il capo.
– Non tema, le starò vicino. Quanti sono?
– Due. Ma sono dobermann, addestrati. Mio padre li ha fatti venire apposta da un allevamento austriaco. Conoscono solo noi della famiglia.
– Piacevolissimo essere vostri ospiti!
– Non faccia del sarcasmo! Ci servono per tenere lontana gente come lei! Anzi, mi chiedo come mai non li ha incontrati.
Alessio alzò le spalle.
– Non lo so. Forse non hanno il dono dell’ubiquità e finchè io ero in spiaggia loro forse erano da un’altra parte.
Clarissa non rispose e proseguì a passo rapido. Entrarono attraverso un cancello di legno in un vasto cortile di sabbia con aiuole laterali e alti oleandri fioriti. C’erano delle casette qua e là, apparentemente senza criterio, dipinte di bianco e rosso mattone. Clarissa superò le casette e si diresse a una grande casa a due piani, metà fortezza e metà villa veneta, e salì la scalinata di pietra grigia. Stava per aprire la porta a vetri quando la stessa si spalancò e ne uscì un uomo sulla cinquantina, tarchiato e con le spalle larghe da lottatore che apostrofò la ragazza in un inglese secco e preciso.
– Tarzan e Jane sono spariti. Da dove vieni? Li hai visti?
Clarissa si girò verso il giovane che si era fermato ai piedi della scala.
– Papà, questo è Alessio Bragadin. Dice che l’isola è sua.
L’uomo lo guardò un attimo e poi chiese, in italiano:
– Lei ha visto i miei cani? Sono due magnifici dobermann addestrati alla difesa e mi sono costati un patrimonio.
– No, non li ho visti.
L’uomo rise, divertito.
– Le credo sulla parola! Se li avesse visti non sarebbe intero, signor… Come hai detto, Cissy?
– Bragadin, papà. Il padrone dell’isola.
L’uomo scoppiò a ridere e tese la mano al giovane.
– Piacere di conoscerla, giovane amico! Io sono Matt Deward. Venga, le offro da bere, fa caldo oggi. Cissy, mettiti addosso qualcosa e raggiungici sulla terrazza.
Alessio si infilò la maglietta e gli zoccoli. Matt deward non era stupido, l’aveva capito l’attimo in cui i loro sguardi si erano incontrati. Ora doveva stare in guardia e giocare bene le sue carte, altrimenti tutto sarebbe stato inutile
Seguì l’uomo dentro la casa e sentì uno strano formicolio percorrerlo; erano anni che non rimetteva piede nell’atrio di pietra grigia, che non spingeva la porta di vetri colorati che portava in una grande terrazza con una pergola di vite americana affacciata sulla laguna.
Matt Deward lo invitò con un gesto a sedere su una delle sedie di metallo bianco laccato e indicò la laguna.
– Bel panorama, vero? Alla sera mi siedo qui e cerco di dimenticare l’alta finanza, la politica e l’America! Non sempre ci riesco, ma se mai un giorno dovesse accadere, sarà proprio in questa terrazza!
Alessio fece un breve sorriso, poi lo sguardo si spostò su una splendida ragazza bionda che, seduta su una sedia con le gambe appoggiate su di un’altra, leggeva. Aveva lunghi capelli vaporosi, un vestitino bianco scollatissimo e la schiena dorata, serica. Alzò appena gli occhi, di un colore tra il verde e l’azzurro, e continuò a leggere. Matt Deward disse a voce forse un po’ troppo alta:
– Lilian, questo è il signor Bragadin che è venuto a trovarci. Signor Bragadin, l’altra mia figlia, Lilian. Cissy è il braccio e lei la mente, se posso fare questo paragone! Lilian studia e basta! Non so neppure più cosa, ho perso il conto delle sue conoscenze qualche anno fa, ma a qualsiasi domanda lei sa rispondere! Non ci sono limiti. E’ il mio cervello. L’eminenza grigia del mio successo, la mia anima nera! Ogni tanto viene da me e mi dice cosa devo fare e come, così, semplicemente!
Lilian continuava a leggere assorta, il capo chino, la mano affusolata che voltava le pagine con calma.
Matt Deward continuò, sembrava quasi con ira:
– Passa le giornate a studiare, la mia figliola! E una volta all’anno almeno mi chiede un assegno e se ne va in Francia, in Inghilterra, a Firenze e quando torna ha un diploma in più! A cosa le serve, si chiederà E’ quello che mi chiedo anch’io! A che cosa diavolo le serve? Fosse racchia, lo capirei, ma è bella!
Lilian chiuse il libro di scatto e si alzò, gli occhi rannuvolati come un cielo d’estate.
– Basta, papà!
Lo disse con una voce dolce, ma c’era una tale forza nelle sue parole che Matt sembrò piegarsi, farsi più piccolo.
– Ok, ok, Lily, scherzavo! Cosa preferisce, signor Bragadin? Vodka, un Martini, un whisky? Si ferma a pranzo con noi?
– Martini. Si, grazie, volentieri.
Matt Deward lo guardò e sorrise.
– Non ha molte incertezze nella vita!
– No, in effetti mi capita raramente di essere indeciso.
– Così lei sarebbe il padrone di quest’isola. E’ vero?
Lilian stava per uscire, ma si fermò e tornò a sedersi, con uno sguardo nuovo negli occhi che percorsero Alessio in un attento esame.
Il giovane bevve un paio di sorsi di Martini e alzò il bicchiere verso Matt.
– Sì, sono il padrone di quest’isola.
– Naturalmente può provarlo, immagino.
– Certo.
L’uomo alzò il bicchiere a sua volta e si mise a ridere, divertito.
– Bene, bene! Vorrei proprio vedere la faccia di Tony quando lo saprà! Ci pensi, Lily? Al vecchio Tony verrà un infarto, a una notizia del genere!
Alessio chiese, educato:
– Chi è Tony?
– Tony Clarence, il mio avvocato. Fino ad ora non mi è servito molto, per mia fortuna, ma io continuo a pagarlo e profumatamente. Ora dovrà veramente guadagnarsi lo stipendio! Lei ha un avvocato, naturalmente.
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