Descrizione
1
«Non ricordo dov’ero o cosa stavo facendo quando ho saputo che mio padre era morto.»
«Okay. Se la sente di approfondire?»
Restai a fissarla. Seduta sulla poltrona di pelle, Theresa mi ricordava il ghiro assonnato al tè del Cappellaio Matto o un altro dei suoi bizzarri amichetti. Batteva di continuo le palpebre dietro gli occhialini rotondi e aveva le labbra sempre imbronciate. La gonnellona di tweed nascondeva due gambe di tutto rispetto, e anche i capelli non erano male. Avrebbe potuto essere carina, se avesse voluto, ma sapevo che a lei interessava soltanto apparire intelligente.
«Electra? L’ho persa di nuovo.»
«Sì, scusi. Avevo la testa da un’altra parte.»
«Pensava a ciò che ha provato alla notizia della morte di suo padre?»
Quello che stavo pensando non potevo certo dirglielo, perciò annuii con convinzione. «Sì, esatto.»
«E?»
«Niente da fare. Non riesco a ricordare.»
«Sembra arrabbiata per la sua morte, Electra. Perché?»
«Io non sono… non ero arrabbiata. Cioè, non lo ricordo. Sul serio.»
«Non riesce a ricordare cos’ha provato in quel momento?»
«No.»
«Okay.»
Scribacchiò una frase sul suo taccuino, probabilmente qualcosa del tipo: «Ha rimosso la morte del padre». Era la diagnosi del mio ultimo strizzacervelli, ma in realtà quella morte non c’era stato verso di “rimuoverla”. Con gli anni però avevo imparato che, appena scovata una causa plausibile per il mio casino mentale, gli analisti ci affondavano i denti, proprio come un topolino in una fetta di formaggio, e continuavano a insistere finché anch’io mi dichiaravo d’accordo e li accontentavo raccontando un mucchio di balle.
«E cosa prova per Mitch?»
Se avessi dato voce ai miei pensieri, Theresa si sarebbe attaccata al telefono per avvertire la polizia che c’era una pazza a piede libero, decisa a far saltare le palle a una delle rock star più celebri al mondo. Perciò mi limitai a un sorriso mellifluo.
«Quella faccenda è risolta. L’ho superata.»
«Era molto arrabbiata con lui l’ultima volta che ci siamo viste, Electra.»
«Sì, ma adesso sto bene. Davvero.»
«Ottima notizia. E come va con l’alcol? Il problema è un po’ più sotto controllo?»
«Sì» mentii di nuovo. «Adesso però devo andare. Ho una riunione.»
«Ma siamo solo a metà della seduta…»
«Lo so, è un peccato, ma che vuol farci? È la vita.» Mi alzai e andai alla porta.
«Magari riesco a infilare un altro appuntamento nei prossimi giorni. Parli con Marcia prima di uscire.»
«Lo farò, grazie» la rassicurai, mentre accostavo già la porta. Superai ad ampie falcate la scrivania di Marcia, la segretaria, e raggiunsi l’ascensore. Arrivò quasi subito e durante la discesa serrai gli occhi – detestavo i luoghi chiusi – e appoggiai la fronte calda sul rivestimento di marmo, fresco e liscio.
Gesù, pensai, ma cos’ho che non va? Neanche alla mia analista riesco a dire la verità!
È che ti vergogni troppo per confessarla… e comunque lei non capirebbe, risposi a me stessa. Probabilmente vive in un’ordinata villetta come tante insieme al marito avvocato, e in cucina ha un frigorifero coperto da buffe calamite e dai disegni dei loro due adorabili marmocchi. Oh, aggiunsi tra me salendo nel retro della mia limousine, e scommetto che in salotto, sopra il divano, hanno appeso la gigantografia di una vomitevole foto di famiglia, con l’intero quartetto in identiche camicie di jeans.
«Dove la porto, signorina?» chiese lo chauffeur dal citofono interno.
«A casa» ringhiai, afferrando una bottiglietta d’acqua dal minibar e richiudendolo subito per non lasciarmi tentare da alternative più alcoliche. Erano le cinque passate e io avevo un mal di testa atroce, che nessun analgesico era riuscito a placare. La festa della sera prima doveva essere stata notevole, anche se ricordavo ben poco. Maurice, il mio nuovo migliore amico stilista, era in città ed era passato a bere un paio di drink con alcuni dei suoi compari newyorkesi, che a loro volta ne avevano invitati altri… Non ricordavo di essere andata a letto, e mi aveva sorpresa, al risveglio, trovarmi accanto uno sconosciuto. Uno sconosciuto bellissimo, però, e, dopo esserci divertiti ancora un po’ tra le lenzuola, eravamo passati alle presentazioni ufficiali. Il tizio si chiamava Fernando, e aveva lavorato come fattorino in un negozio Walmart a Philadelphia finché, qualche mese prima, il responsabile acquisti del reparto abbigliamento lo aveva notato e gli aveva girato il contatto di un’agenzia di modelli a New York. Si era detto disponibile a farmi da cavaliere al primo red carpet utile, ma io sapevo per esperienza che l’offerta era interessata: un solo scatto al mio fianco avrebbe catapultato la carriera di Mr Walmart nel firmamento dello star system, perciò mi ero liberata di lui il prima possibile.
Dunque, Electra, cosa sarebbe successo se avessi ammesso la verità con la Signora Ghiro? Se le avessi confessato che ieri sera avevi una tale quantità di alcol e coca in corpo che saresti andata a letto con Babbo Natale senza pensarci due volte? Che il motivo per cui non riesci proprio a tollerare il pensiero di tuo padre non è la sua morte, ma la consapevolezza di quanto si sarebbe vergognato di te… quanto si vergognava di te già allora?
Almeno quand’era vivo potevo nascondergli quel che combinavo, mentre adesso Pa’ Salt era come diventato onnipresente; avrebbe potuto essere nella mia stanza da letto, la sera prima, o persino nella limousine, in quel preciso momento…
Cedetti e afferrai una mignon di vodka, scolandola tutta d’un fiato per dimenticare la delusione che avevo letto in faccia a Pa’ l’ultima volta che l’avevo visto. Era venuto apposta a New York per parlarmi, aveva detto. Io l’avevo evitato fino all’ultimissima sera quando, non potendo più sottrarmi, avevo accettato un incontro a cena. Al mio arrivo da Asiate, un ristorante proprio di fronte a Central Park, avevo già fatto il pieno di vodka e pasticche, e per l’intera serata ero rimasta seduta intontita davanti a lui, scusandomi per filarmela in bagno a sniffare un’altra pista ogni volta che lui accennava a intavolare un discorso.
Dopo il dessert si era messo a braccia conserte e mi aveva scrutata con la massima serietà. «Sono davvero preoccupato per te, Electra. Sembri completamente assente.»
«Tu non capisci che razza di pressioni devo sopportare» avevo sbottato. «Quanta fatica si fa per essere me!» Me ne vergogno, ma conservo solo un vago ricordo della sua reazione o di quanto era accaduto in seguito. So soltanto che poco dopo mi ero alzata e l’avevo piantato in asso. Perciò ora non scoprirò mai di cosa avrebbe voluto parlarmi…
E che te ne frega, Electra?, chiesi a me stessa, asciugandomi le labbra con il dorso della mano e nascondendo la mignon in tasca: lo chauffeur era nuovo e ci mancava solo che vendesse ai tabloid lo scoop che mi ero svuotata il minibar. Non era neanche il tuo vero padre.
E comunque era tardi per rimediare. Pa’ se n’era andato – proprio come chiunque avessi amato in vita mia – quindi non restava che tirare avanti. Non avevo bisogno di lui. Non avevo bisogno di nessuno…
«Siamo arrivati, signorina» disse lo chauffeur.
«Grazie. Scendo al volo» dissi uscendo e chiudendo lo sportello. Sempre meglio non attirare l’attenzione sul mio arrivo; debitamente camuffate, le altre celebrità potevano godersi l’anonimato di una tavola calda qualsiasi, ma io superavo il metro e ottanta e non sarei passata inosservata nemmeno se fossi stata una persona comune.
«Signorina Electra!»
«Ciao, Tommy» salutai, sforzandomi di sorridere mentre raggiungevo il portone del mio palazzo. «Come va?»
«Meglio, ora che l’ho vista. Ha passato una buona giornata?»
«Ottima, grazie» risposi a quello che era il mio fan numero uno. «A domani, Tommy.»
«Può contarci, signorina. Non esce stasera?»
«No. Serata tranquilla a casa. Be’, io vado» conclusi, salutandolo con un cenno ed entrando nell’atrio.
Almeno lui mi ama, riflettei, passando dal concierge a recuperare la posta prima di avviarmi all’ascensore. Mentre l’addetto ai bagagli mi accompagnava di sopra (era il suo lavoro, io però non avevo nulla da fargli portare, tanto che per un momento considerai l’ipotesi di affidargli le mie chiavi) continuai a pensare a Tommy. Da mesi ormai mi aspettava quasi ogni giorno davanti al portone. All’inizio la sua presenza mi aveva innervosita e avevo chiesto al concierge di mandarlo via. Tommy però si era dimostrato irremovibile: aveva risposto che era suo diritto restarsene impalato sul marciapiede e che non faceva del male a nessuno. Il suo unico scopo era proteggermi. Il concierge mi aveva consigliato di denunciarlo per stalking alla polizia, ma una mattina avevo chiesto a Tommy il suo cognome e mi ero dedicata a mia volta a un pizzico di stalking su Internet. Dal suo profilo Facebook avevo scoperto che era un veterano dell’esercito decorato al valore per le sue azioni in Afghanistan, e che aveva una moglie e una figlia nel Queens. Adesso, invece di allarmarmi, la sua presenza mi faceva sentire al sicuro. E poi lui si era sempre comportato in modo rispettoso e educato, perciò avevo detto al concierge di lasciarlo stare.
L’addetto uscì dall’ascensore e mi cedette il passo. Seguì una sorta di balletto in cui dovetti farmi da parte per permettergli di precedermi e di aprire la porta del mio attico con il suo passepartout.
«Ecco fatto, signorina D’Aplièse. Buon proseguimento.»
Mi salutò con un cenno della testa e zero calore nello sguardo. Sapevo che il personale del palazzo si augurava che sparissi in una nuvoletta di fumo. Gran parte degli altri inquilini viveva lì quand’era ancora nella pancia della mamma, ai tempi in cui per una donna di colore come me sarebbe stato un “privilegio” entrare dalla porta di servizio in veste di domestica. Erano tutti possidenti, mentre per loro io ero una plebea: un’estranea, per quanto ricca, ammessa in quell’enclave perché la legittima titolare del mio attico era morta di vecchiaia e suo figlio dopo aver ristrutturato l’appartamento, aveva tentato di venderlo a un prezzo esorbitante. Nel mentre, però, era scoppiata la cosiddetta bolla immobiliare, perciò il tentativo era fallito, e il nuovo proprietario aveva dovuto accontentarsi di affittare al miglior offerente: io. Il canone era stratosferico, ma d’altra parte lo era anche l’appartamento, stipato di opere d’arte e di ogni gadget elettronico noto all’uomo (io stessa sapevo farne funzionare meno della metà), e con un terrazzo dalla vista spettacolare su Central Park.
Se mai avessi avuto bisogno di un promemoria del mio successo, quell’appartamento ne era la prova tangibile. Ma ciò che mi ricorda più di tutto, pensai, sprofondando su un divano che avrebbe potuto fungere da confortevole letto per due uomini adulti, è la mia solitudine. La sua enormità mi faceva sentire piccola e fragile… e molto, molto isolata.
Da qualche parte nell’attico sentii arrivare la suoneria del mio cellulare: la canzone che aveva reso Mitch una superstar planetaria, e che io avevo cercato invano di cambiare. Se CeCe è dislessica con le parole, io lo sono con la tecnologia, considerai tra me e me, andando in camera a recuperare il telefono. Notai con sollievo che l’inserviente aveva cambiato le lenzuola del letto matrimoniale, e tutto era tornato immacolato come in una camera d’albergo. Mi piaceva la nuova domestica scovata dalla mia assistente; come tutti nel mio entourage, aveva firmato un contratto di riservatezza, impegnandosi a non spifferare ai media indiscrezioni sul mio discutibile stile di vita. E tuttavia rabbrividivo al pensiero di ciò che la donna – Lisbet? Si chiamava così? – doveva aver pensato aprendo la porta quella mattina.
Sedetti sul letto ad ascoltare i messaggi in segreteria. Cinque erano della mia agente, che chiedeva di contattarla con urgenza in merito al servizio fotografico per Vanity Fair, fissato per l’indomani, e l’ultimo era di Amy, la mia nuova assistente. Lavorava per me da appena tre mesi, però mi era simpatica.
«Ciao, Electra, sono Amy. Io… be’, volevo solo dirti che è stato davvero bello lavorare per te, ma temo non possa funzionare sul lungo periodo. Oggi ho consegnato la mia lettera di dimissioni alla tua agente. Ti auguro tutto il meglio per il futuro, e…»
«Cazzo!» strillai, premendo CANCELLA e scagliando il cellulare all’altro capo della stanza. «Ma che accidenti le ho fatto di male?!» urlai al soffitto, chiedendomi al tempo stesso perché mi ferisse tanto che una nullità qualsiasi, che mi aveva implorata in ginocchio di darle una possibilità, mi avesse scaricata nel giro di tre mesi.
«“Sogno di lavorare nella moda da quand’ero bambina. La prego, signorina D’Aplièse, sarò a sua completa disposizione, giorno e notte, vivrò solo per lei e non la deluderò mai, giuro.”» Imitai il tono piagnucoloso di Amy e il suo accento di Brooklyn mentre digitavo il numero della mia agente. C’erano solo tre cose al mondo di cui non potevo fare a meno: la vodka, la cocaina e un’assistente personale.
«Ciao, Susie. Ho appena saputo che Amy ha dato le dimissioni.»
«Sì. Una scocciatura. Sembrava così promettente.» La sua cadenza britannica era secca e professionale.
«Già, pareva anche a me. Sai perché se n’è andata?»
Fece una pausa prima di rispondere. «No. Comunque avverto Rebekah e te ne troviamo un’altra entro la fine della settimana. Hai sentito i miei messaggi?»
«Sì.»
«Okay. Sii puntuale, domani. Vogliono cominciare le riprese alle prime luci dell’alba. Mando un’auto a prenderti alle quattro, okay?»
«Certo.»
«A quanto ho sentito, hai festeggiato parecchio ieri sera.»
«Sì, è stato divertente.»
«Be’, niente feste stasera, Electra. Domani devi essere al meglio. La tua foto sarà in copertina.»
«Non preoccuparti. Vado a nanna alle nove, come una brava bambina.»
«Okay. Scusami, ho Lagerfeld sull’altra linea. Rebekah ti chiamerà con un elenco di nuove assistenti. Baci.»
«Baci» le feci eco, prima che riagganciasse. Pochissime persone al mondo avrebbero osato chiudermi il telefono in faccia, ma Susie era tra queste. Era la titolare della più potente agenzia di modelle a New York e gestiva tutti i grossi nomi del nostro ambiente. Mi aveva scoperta quando avevo sedici anni. Al tempo lavoravo a Parigi come cameriera, dopo essermi fatta espellere dalla terza scuola in tre anni. A Pa’ avevo detto che era inutile cercarmene un’altra, perché sarebbe comunque finita allo stesso modo. E con mia enorme sorpresa lui si era rassegnato.
Era l’ennesimo dei miei fallimenti, e mi aveva davvero sbalordita che Pa’ non fosse andato su tutte le furie. Semmai sembrava deluso, e vederlo così mi aveva avvilita.
«Ho pensato che magari potrei viaggiare un po’» avevo suggerito. «Imparare direttamente dalla vita.»
«È vero che buona parte di ciò che serve per avere successo non si apprende con gli studi accademici» aveva risposto lui. «Ma, data la tua intelligenza, speravo che saresti arrivata almeno al diploma. Sei un po’ troppo giovane per andartene in giro da sola. È un mondo piuttosto grande, quello là fuori.»
«So badare a me stessa» avevo replicato, con fierezza.
«Non ne dubito. Ma come pensi di finanziarli i tuoi viaggi?»
«Mi troverò un lavoro, ovviamente» avevo risposto, con un’alzata di spalle. «Come prima tappa pensavo a Parigi.»
«Ottima scelta» aveva annuito lui. «È una città incredibile.» Mi sedeva di fronte, alla grande scrivania del suo studio, e guardandolo mi sembrò un po’ nostalgico e triste. Sì, decisamente triste.
«Senti,» aveva proseguito «perché non troviamo un compromesso? Capisco che tu voglia lasciare la scuola, ma mi preoccupa pensare alla mia bambina tutta sola in giro per il mondo. Marina ha qualche contatto a Parigi. Sono certo che potrà procurarti un alloggio sicuro. Prenditi l’estate, dopodiché ne riparliamo e decidiamo il passo successivo.»
«Okay, affare fatto» avevo risposto, ancora allibita che non mi avesse imposto di finire gli studi. Mentre mi alzavo per andarmene, mi convinsi che o si stava lavando le mani di me e di tutto ciò che mi riguardava, o mi stava dando abbastanza corda per impiccarmi da sola. Comunque, Ma’ aveva chiamato i suoi contatti e io mi ero ritrovata in un’adorabile mansardina affacciata sui tetti di Montmartre. Era minuscola e dovevo condividere il bagno con una mandria di studenti stranieri venuti in città a perfezionare il francese, ma era mia.
Ricordavo il primo, delizioso assaggio d’indipendenza quando, la sera del mio arrivo, mi ero ritrovata per la prima volta nella mia stanzetta e mi ero resa conto che non c’era nessuno a dirmi cosa dovevo fare. Però non c’era neanche nessuno che cucinasse per me, per cui ero scesa nel bistrot all’angolo della via, mi ero seduta a un tavolino nel dehors e mi ero accesa una sigaretta mentre studiavo il menu. Avevo chiesto una zuppa di cipolle e un bicchiere di vino al cameriere, che non aveva battuto ciglio vedendomi fumare o sentendomi ordinare alcolici. Tre bicchieri dopo, mi sentivo abbastanza sicura di me da avvicinare il direttore e chiedergli se gli serviva una cameriera. E dopo venti minuti avevo ripercorso le poche centinaia di metri che mi separavano dalla mansarda armata di un lavoro. Chiamare mio padre l’indomani mattina dal telefono a pagamento dell’atrio era stato uno dei momenti di maggiore orgoglio della mia vita. E devo riconoscergli il merito di avere reagito con lo stesso entusiasmo che aveva manifestato quando mia sorella Maia si era aggiudicata un posto alla Sorbona.
Quattro settimane dopo avevo servito un croque monsieur a Susie, la mia attuale agente, e il resto è storia…
Perché continuo a ripensare al passato?, mi chiesi, recuperando il cellulare per ascoltare gli altri messaggi. E perché continuo a pensare a Pa’?
«Mitch… Pa’…» borbottai, mentre aspettavo che la segreteria vuotasse il sacco. «Se ne sono andati, Electra, e oggi se n’è andata anche Amy. Devi andare avanti.»
«Carissima Electra, come stai? Sono di nuovo a New York… Hai impegni stasera? Ti andrebbe una bottiglia di champagne e del chow mein dans ton lit avec moi? Mi struggo per te. Chiamami appena puoi.»
A dispetto del mio malumore, mi sfuggì un sorriso. Zed Eszu era l’enigma della mia vita. Ricco sfondato, con le conoscenze giuste e – per quanto carente sul versante statura e niente affatto il mio tipo – strepitoso a letto. Ce l’eravamo spassata regolarmente per tre anni, finché la mia relazione con Mitch non era diventata una cosa seria. Qualche settimana prima l’avevo reinserito tra le mie frequentazioni, e lui mi aveva fornito proprio la botta di autostima di cui avevo bisogno.
Ci amavamo? Assolutamente no, almeno per quanto mi riguardava, però frequentavamo la stessa cerchia a New York e, soprattutto, quand’eravamo soli parlavamo in francese. Come Mitch, Zed non era intimidito dalla mia celebrità, una cosa rara ormai, e che per qualche motivo trovavo confortante.
Restai a fissare il cellulare, cercando di decidere se ignorare il messaggio e seguire le istruzioni di Susie andando a letto presto, oppure chiamare Zed e godermi una serata in compagnia. Capirai il dilemma. Lo chiamai, invitandolo a casa. Mentre lo aspettavo feci una doccia e indossai il mio kimono in seta preferito, disegnato apposta per me da uno stilista giapponese emergente. Poi mi scolai qualcosa come tre litri d’acqua per compensare tutto l’alcol e le altre sostanze che avrei probabilmente ingerito dopo il suo arrivo.
Dal citofono, il concierge mi avvertì che avevo un ospite, e io risposi di farlo salire. Zed si presentò alla porta con un gigantesco bouquet delle mie rose predilette – bianche – e la bottiglia di champagne che aveva promesso.
«Bonsoir, ma belle Electra» salutò, con quel suo curioso modo di spezzare le parole, porgendomi le rose e la bottiglia e baciandomi su entrambe le guance. «Comment vas-tu?»
«Sto bene» risposi, adocchiando con una certa brama lo champagne. «Lo stappo?»
«Credo che sia compito mio. Mi dai il tempo di levarmi la giacca?»
«Ma certo.»
«Prima, però…» aggiunse, prendendo dalla tasca una scatolina di velluto. «L’ho visto e ho pensato a te.»
«Grazie» dissi, sedendo sul divano e ripiegando le mie ingombranti gambe chilometriche sotto il sedere, mentre scrutavo quel piccolo oggetto con l’entusiasmo di una bambina. Zed mi comprava spesso regali: raramente appariscenti – strano, considerato il suo vasto patrimonio – ma sempre scelti con cura e originali. Sollevato il coperchio della scatolina, trovai un anello. La pietra era ovale e di una delicata tinta giallo burro.
«È un’ambra» spiegò Zed, mentre io sollevavo l’anello per guardarlo alla luce del lampadario. «Provalo.»
«Su quale dito?» domandai, con sguardo provocatorio.
«Quello che preferisci, ma chère. Ma se avessi voluto chiederti in moglie, non mi sarei accontentato di un’ambra. Immagino saprai che è una pietra associata al tuo nome.»
«Davvero? No, non lo sapevo proprio.» Lo guardai stappare la bottiglia. «In che senso?»
«Be’, in greco antico “ambra” si diceva “electron”, e secondo la leggenda i raggi del sole erano rimasti intrappolati nella pietra. Un filosofo aveva notato che l’attrito prodotto da due frammenti di ambra strofinati tra loro sprigionava energia. Il tuo nome ti calza a pennello, Electra.» Sorrise, posando una flûte davanti a me.
«Stai dicendo che produco attriti?» replicai, sorridendo a mia volta. «Però la vera domanda è un’altra: è il nome che mi si addice oppure sono stata io a adeguarmici? Santé.»
«Santé.» Dopo il brindisi Zed sedette al mio fianco.
«Mmm…» mormorai.
«Ti stai chiedendo se ho portato un altro regalo.»
«Esatto.»
«Guarda meglio nella scatolina.»
Lo feci, e, come previsto, sotto lo scomparto di velluto che prima reggeva l’anello, trovai una bustina di plastica.
«Grazie, Zed» dissi, infilando il dito nella bustina come un bambino goloso in un barattolo di miele, e strofinandomi la polverina sulle gengive.
«Buona, eh?» domandò lui, mentre ne versavo un po’ sul tavolino, staccavo la minuscola cannuccia dalla bustina e sniffavo di slancio.
«Mmm… ottima» concordai. «Ti va un assaggio?»
«Sai che non partecipo. Allora, come ti vanno le cose?»
«Oh… bene.»
«Non sembri convinta, Electra, e hai l’aria stanca.»
«Ho avuto da fare» risposi, bevendo un gran sorso. «Un servizio alle Figi la settimana scorsa, un altro a Parigi la prossima…»
«Forse dovresti rallentare un po’. Prenderti una pausa.»
«Disse l’uomo che passa più notti sul suo jet privato che nel suo letto» replicai, in tono scherzoso.
«In tal caso forse dovremmo entrambi prenderci una pausa. Ti potrebbe interessare una settimana sul mio yacht? Lo terrò ormeggiato a Santa Lucia ancora un paio di mesi, prima di mandarlo nel Mediterraneo per l’estate.»
«Magari…» sospirai. «Ho l’agenda stracolma fino a giugno.»
«A giugno, allora. Potremmo farci un giro in barca per le isole greche.»
«Forse» risposi, con un’alzata di spalle. Sapevo già che le sue erano soltanto parole. Zed mi proponeva sempre un mucchio di progetti che poi non si realizzavano mai; e, cosa più importante, io preferivo così. Lui era perfetto per una serata e un po’ di ginnastica, ma a passarci più tempo avrebbe finito per darmi sui nervi con la sua pignoleria e il suo ego spropositato.
Il citofono della conciergerie suonò di nuovo, e Zed andò a rispondere. «Lo faccia salire, grazie.» Tornò a rabboccare i calici. «È arrivata la cena. Ti prometto che sarà il miglior chow mein della tua vita.» Sorrise. «Come stanno le tue sorelle?»
«Non lo so. Ultimamente sono stata troppo indaffarata per chiamarle. Però Ally ha avuto il bambino. Un maschietto. Lo ha chiamato Bear: carino, no? Ora che ci penso, a giugno ho una rimpatriata con la famiglia al gran completo, ad Atlantis. Prendiamo la barca di Pa’ e andiamo nelle isole greche a depositare una corona di fiori nel tratto di mare in cui secondo Ally hanno inabissato il suo feretro. Tuo padre era stato ritrovato su una spiaggia poco lontano da lì, giusto?»
«Sì, ma anch’io preferisco non pensare alla morte di mio padre. Mi angoscia» replicò lui, secco. «A me interessa il futuro.»
«Lo so, ma ammetterai che la coincidenza è curiosa…»
Suonò il campanello e Zed andò ad aprire.
«Coraggio, Electra» disse, portando due confezioni take away in cucina. «Vieni a darmi una mano con questi.»
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