Descrizione
1
Il lago di Cornino era un’iride, buio al centro e cristallino lungo la riva. Cinto da boschi arrossati dall’autunno, si apriva nella terra come un occhio antico, di bestia primordiale. Vi stava sorgendo un’alba caliginosa, bruma d’ottobre aspra e zuccherina, che portava il sentore di uva lasciata marcire sui tralci e di brace rimestata nelle stufe.
Massimo inspirò a fondo. Se ciò che gli era stato detto al telefono dalla voce di uno sconosciuto era vero, allora quel paradiso fumante era stato l’inferno di qualcuno.
Sopra di lui volavano rapaci. L’apertura alare era impressionante, i volteggi bassi e concentrici. Puntavano i massi calcarei che si tuffavano nello specchio d’acqua, tra banchi di nebbia in dissolvenza. Avevano fiutato la carne, gli venne da pensare.
Si sporse dalla balaustra del punto panoramico, un terrazzamento che dalla strada abbracciava la conca, una polla di neanche centocinquanta metri di diametro, e cercò di spingere lo sguardo oltre le velature. Nel silenzio, il respiro era affannoso, nonostante Massimo non avesse mosso che pochi passi. Era in ascolto, con tutti i sensi, anche con l’istinto che non gli riusciva mai di lanciare davanti a sé, e che tuttavia qualcuno, qualcuno per lui speciale, continuava a dirgli di seguire.
Si alzò il vento. La bruma vorticò in mulinelli e il biancore a poco a poco si diradò scoprendo l’altra sponda.
Massimo strinse le dita attorno al parapetto. C’era qualcuno sulle rocce. Non riusciva a distinguerne i contorni, ma i rivoli scuri che colavano fino all’acqua gli provocarono uno spasmo allo stomaco.
Scattò e corse lungo il sentiero sterrato che scendeva al bacino. Toccò più volte l’arma che portava al fianco, per convincersi che non fosse da ingenuo precipitarsi in un luogo isolato, da solo, dopo una chiamata anonima che annunciava una morte tragica. Una chiamata arrivata sul suo telefono personale.
Giunse sull’altra riva. Il sentiero si stringeva, snodandosi tra rami scheletrici e massi erratici che creavano l’illusione di un cunicolo. Massimo doveva procedere mettendo un piede davanti all’altro, facendo attenzione a non inciampare sulle punte aguzze dei sassi che affioravano dal terreno.
Raggiunse uno slargo. Il perimetro del lago era circoscritto da una palizzata di legno. Al di là dello steccato, le rocce sembravano trasudare sangue. Sangue nero, ormai rappreso.
Massimo sfilò la pistola dalla fondina, la tenne puntata sulla figura scura, e avanzò. Forse era una precauzione inutile, esagerata, ma la natura in quel luogo cantava una melodia sinistra e lo contagiava.
I corpi in realtà erano due. Uno steso, il torso coperto da una maglietta a maniche corte, il viso rivolto al cielo. Il braccio che Massimo poteva intravedere era discosto dal fianco, attraversato da un taglio profondo, le vene ormai svuotate.
Il secondo corpo era chino sul primo.
Un uccello imponente li osservava dal masso accanto, puntando di tanto in tanto gli occhi avidi e dorati su Massimo. Era assurdo anche solo pensarlo, ma sembrava un avvoltoio. Non mostrava alcun timore dell’essere umano, solo accortezza. Aveva ancora il becco pulito.
Massimo agitò un braccio per farlo volare via, ma il rapace non fu l’unico a reagire.
Il secondo corpo si raddrizzò, facendolo sussultare.
«Polizia!» urlò tenendolo sotto tiro, ma subito abbassò la pistola, spaventato dall’idea che potesse partire un colpo.
Massimo conosceva quel soprabito blu, teso sul dorso largo, e conosceva anche gli inconfondibili capelli rossi, ora scarmigliati da una notte che doveva essere stata difficile.
Teresa Battaglia voltò la testa con lentezza e lo guardò. Aveva le guance sporche di sangue. In ginocchio, teneva il corpo del ragazzo morto tra le braccia. Sembrò cercare di porgerglielo.
«Mi può aiutare a spostarlo?» gli chiese, smarrita. «I grifoni lo vogliono divorare.»
2
Massimo si sentì venir meno. Teresa si era rimessa in piedi e stava in equilibrio precario sulla roccia. Si reggeva la testa, faceva vagare lo sguardo da un punto all’altro. Era palese che non aveva idea di che cosa stesse accadendo.
Lui d’istinto scavalcò la palizzata, ma se ne pentì non appena la vide trasalire e ricadere seduta.
Si morse la lingua per non gridare e peggiorare la situazione. Teresa non lo riconosceva ed era spaventata: per lei era solo un estraneo che tentava di afferrarla.
Massimo prese il cellulare e telefonò a Parisi. Quando il collega rispose assonnato, lui non perse tempo in spiegazioni. Sussurrò appena.
«Ti mando la posizione. Raggiungimi subito, è urgente. Non chiamare nessun altro.»
Non fece il nome di lei. Era la squadra a dover decidere, ma per quanto lo riguardava Massimo stava già vagliando i possibili modi per tenerla fuori da ogni coinvolgimento, e nessuno di essi era legale. Non avrebbe mai creduto di poter oltrepassare il perimetro della sua etica così facilmente come aveva fatto con lo steccato.
Si tolse l’impermeabile, vi infilò nella tasca cellulare, chiavi e portafoglio, e lo appese al recinto. Dio solo sapeva se doveva prepararsi a una zuffa.
Si impresse bene in mente ciò che gli aveva detto un medico, in lacrime, a proposito dell’Alzheimer di cui soffriva Teresa: cercare di ricondurla alla realtà, di razionalizzare i suoi comportamenti o le sue parole, non avrebbe fatto altro che acuire la sua confusione e trasformarla in rabbia, nel terrore di una bambina rimasta sola. Doveva invece imparare ad accompagnarla in quel viaggio doloroso, nient’altro che questo. Doveva imparare l’arte di non farla mai sentire sbagliata. Quel medico era Parri, il migliore amico di Teresa.
«Signora, ha bisogno di aiuto?» le chiese.
Lei lo soppesò, ma non rispose. Massimo indicò le rocce.
«Sono scivolose. Non vuole che l’aiuti a scendere? Se mi dice che sta bene, però, la saluto e continuo la mia passeggiata.»
Lei si guardò le scarpe sporche, poi scrutò i palmi delle mani graffiati.
«Voglio scendere, ma non so come.»
«In due è senz’altro più facile. Posso?»
Dopo una breve esitazione, lei annuì e questa volta Massimo compì ogni gesto con calma. Le strinse le mani, le disse dove appoggiare i piedi, non c’era alcuna fretta, lui aveva tutto il tempo del mondo per riportarla sulla riva. Allo stesso modo superarono lo steccato. Massimo la fece sedere. Andò a bagnare un fazzoletto e tornò da lei.
«Permette? Le pulisco il viso.»
Strofinò con delicatezza, ma senza tralasciare nemmeno un minuscolo sbaffo, consapevole di stare cancellando una prova. Una delle tante che dovevano essere sparse lì attorno e che altri avrebbero sicuramente trovato. Ma prova di cosa?
Lei puntava lo sguardo oltre le sue spalle. Aveva l’aria sfinita.
«Non so come ho fatto a finire là sopra.»
«Sta bene?»
«Dobbiamo coprirlo, o torneranno gli uccelli.»
Stava guardando il corpo.
«Chi è? Lo conosce?» le chiese Massimo.
«Chi?»
«Quel ragazzo.»
Teresa si passò una mano sulla fronte. Le labbra tremarono.
«Non lo so. Dobbiamo coprirlo.»
Massimo non poteva farlo, ed era un problema. Si rese conto che il soprabito di Teresa era macchiato di sangue. Il secondo problema.
«Si è sporcata. Le do volentieri il mio.»
L’aiutò a toglierlo e Teresa lo lasciò fare, osservando le macchie come se le vedesse per la prima volta. Fu sul punto di sfiorarle. Massimo le afferrò appena in tempo le dita.
«No. Lo prendo io.»
Lo arrotolò, senza sapere bene che cosa farne, poi le posò sulle spalle il proprio impermeabile.
«Aspetti qui.»
Prese i guanti in lattice dalla tasca dei jeans e li infilò. Non aveva intenzione di toccare il cadavere, non prima che Parri avesse eseguito il sopralluogo, ma le precauzioni non erano mai troppe.
Non lo hai ancora chiamato, ricordò a se stesso. Non hai chiamato la centrale, non hai avvertito il questore. Stai tergiversando.
Tergiversare era una perifrasi ridicola: stava manipolando le indagini.
Si voltò a controllare Teresa. Non c’era più. Imprecò e andò a cercarla. La trovò a pochi passi di distanza, lungo il sentiero. La prese con gentilezza per le spalle e la guidò dov’era prima.
«Non-si-muova. Per favore.»
«Non voglio stare qui.»
«Ce ne andiamo presto.» Non era vero e Massimo si rese conto troppo tardi di avere mentito. Sperò che quella falsa promessa non gli si rivoltasse contro a breve.
«Stia ferma, mi raccomando. Non è sicuro muoversi. Torno subito.»
Lei gli prese una mano.
«Non siamo soli. Lo senti?»
A Massimo si gelò il sangue.
Si accovacciò davanti a lei. «C’è qualcuno qui attorno? Nel bosco?»
Si rendeva conto di stare guardando in occhi completamente sperduti, ma allo stesso tempo sentiva che qualcosa in lei era in allerta.
Teresa alzò il viso al cielo.
«Lo divoreranno.»
I grifoni, come lei li aveva chiamati, continuavano a disegnare cerchi concentrici. Ogni tanto qualcuno planava più in basso, e allora si udivano i richiami.
Massimo soffiò fuori l’ansia. Mandò un vocale a Parisi.
«Senti, qui stiamo facendo festa e io non vedo l’ora che arrivi.»
Erano quasi le sei del mattino. Entro breve tempo, il mondo si sarebbe svegliato e il cadavere si offriva alla vista di chiunque avesse voluto affacciarsi dal punto di osservazione sull’altra sponda. Problema numero tre.
A malincuore, Massimo lasciò Teresa e salì sul masso.
Il corpo riverso era decisamente un cadavere. Nemmeno la prima occhiata fugace che Massimo gli aveva dato gli aveva fatto sperare il contrario. Il colore cereo della pelle, gli occhi velati, la carne degli avambracci aperta dai polsi ai gomiti con due tagli longitudinali raccontavano di una vita riversa nel sangue che aveva tinto la roccia.
Si voltò a cercare Teresa: era rimasta seduta e lo stava guardando. Massimo tornò a concentrarsi sul cadavere.
Doveva avere circa vent’anni. Gli occhi aperti guardavano il cielo. Una ciocca dei capelli bruni sfiorava le ciglia immobili. C’era stata un’eclissi di luna quella notte e Massimo si domandò se quell’ottenebramento del mondo fosse stato l’ultima immagine impressa nella retina del morto. I piedi erano nudi, la maglietta troppo leggera per l’autunno inoltrato. Bisognava cercare scarpe e vestiti. Portava diverse collane, una sull’altra, quasi aggrovigliate. Gli davano un aspetto tribale.
Teresa si era alzata e stava fissando Massimo dalla staccionata. Sembrava impossibile che prima del suo arrivo lei fosse riuscita a scavalcarla da sola, senza l’aiuto di qualcuno, ma lui aveva assistito alle sue ultime crisi. Aveva sperimentato il turpiloquio volgare, la forza violenta che poteva animarla e l’intolleranza a ogni tentativo di contenimento.
«Come sta?» chiese lei, riferendosi al giovane.
Massimo guardò il cadavere. Sembrava un manichino.
«Eh.» Non gli riuscì di dire altro.
Si abbassò sulle ginocchia, il viso che sfiorava la pietra, e controllò ogni centimetro del corpo e dei calzoni che il ragazzo indossava, attento a non modificare nulla, nemmeno una goccia di sangue. Adocchiò il portafoglio che spuntava da una tasca, ma non lo toccò. Doveva aspettare la scientifica. Quel pensiero gli fece stringere i denti per la tensione, ma allo stesso tempo era sicuro che Teresa Battaglia non avesse nulla da temere, nulla a che fare con la morte del ragazzo.
E allora perché mi sto compromettendo?
Doveva cercare l’arma. Gettò un’occhiata alla strada deserta e si arrischiò ad accendere la torcia. Solo un momento, si disse, manovrandola in modo da non puntare mai il fascio di luce verso l’alto.
Fu colpito dalla straordinaria trasparenza del lago. Le foglie cadute dagli alberi sembravano aleggiare sospese nel nulla. Il fondale era di un turchese intenso.
Massimo si sporse. Sotto di lui, nell’acqua, riluceva la lama di un pugnale, circa venti centimetri di metallo che costituivano il problema numero quattro: Massimo non poteva prendere l’arma, ma sull’elsa cesellata potevano esserci le impronte di Teresa. Magari aveva cercato di dissuadere il ragazzo, magari addirittura di strappargli l’arma di mano.
Un assassino l’avrebbe portata via con sé e occultata, o gettata lontano da lì. A meno che non gli fosse caduta accidentalmente.
Massimo non aveva alcun elemento certo per dirlo, ma la scena gli faceva sospettare un suicidio. O il giovane era stato ridotto in stato di incoscienza e poi ucciso, oppure era stato lui stesso a tagliarsi le vene, perché non c’erano segni di altra violenza, né di colluttazione. Le unghie erano pulite, la pelle dei palmi intatta. Nessun graffio, nessun ematoma, nemmeno sotto le collane d’argento. La quantità di sangue riversata sulla roccia era impressionante, tanto che risultava difficile pensare che il giovane fosse morto altrove e in seguito il corpo fosse stato spostato. Massimo aveva assistito a così tanti rilevamenti della scientifica da poter dire che, a giudicare dagli schizzi, il flusso di sangue non sembrava essere stato interrotto. Non c’era nessuno accanto a lui negli istanti in cui era morto.
Il ragazzo sembrava essersi semplicemente denudato e disteso, e poi ucciso. Aveva allargato le braccia, i palmi rivolti verso l’alto, le dita inanellate perfino rilassate, e aveva atteso di morire sotto un cielo stellato, sotto un’eclissi che aveva tinto la luna di rosso.
Massimo osservò quel viso colmo nei tratti di superba giovinezza e si chiese se almeno una lacrima lo avesse attraversato. Che cosa legava quella vita disperata a Teresa Battaglia?
Guardò l’ora e si chiese dove fosse finito Parisi. Le ombre si stavano ritirando e la nebbia era ormai dissolta. Il lago e il suo segreto di sangue erano fin troppo esposti allo sguardo.
Sospirò. Contro ogni ponderazione appena fatta e ogni remora morale, Massimo si scoprì un braccio e cercò di raggiungere il pugnale. La limpidezza dello specchio d’acqua era stata sviante, faceva apparire vicino ciò che invece era fuori portata. Non poteva arrivare all’arma, avrebbe dovuto immergersi, per prenderla.
Un suono lo fece scattare in piedi, tanto repentinamente che rischiò di cadere. Era il pianto di un bambino, ma la vocina disperata aveva sfumature innaturali, a volte metalliche, a volte sfocate. Una registrazione. Poco dopo, cessò.
Massimo strizzò gli occhi per mettere a fuoco ogni dettaglio, la mano già sulla fondina slacciata. Non si qualificò, perché qualcosa gli diceva che chiunque fosse nascosto a pochi passi da lui già sapesse chi aveva di fronte. Doveva essere lo stesso uomo che lo aveva chiamato per dirgli di precipitarsi lì.
Non siamo soli, aveva detto Teresa. Eccolo, il quinto problema, e si prospettava essere il peggiore.
Un problema che non si eclissava con la bruma e che voleva essere riconosciuto come tale.
Massimo doveva portare Teresa al sicuro. Si voltò e gli sfuggì un urlo. Lei era lì, davanti a lui, e lo guardava con rabbia. Lo spinse con forza. Giù, in acqua.
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