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Game of Gods. Discesa agli inferi

17,00

Ricchi e intelligentissimi, i fratelli Lively – Hades, Apollo, Hermes, Aphrodite e Athena – sono i più popolari di Yale: nessuno osa avvicinarli, ma tutti li conoscono e li guardano da lontano; ogni venerdì sera organizzano quelli che sono diventati famosi come i Giochi degli Dèi, in cui all’avversario non si riserva nessuna pietà; batterli è impossibile. Quando Haven arriva al campus come matricola, rimane affascinata da loro, anche se un po’ impaurita, finché Hades si accorge di lei… L’amore che scoppia tra i due è irrefrenabile, ma si rivela ben presto una vera e propria discesa all’Inferno; i giochi a Yale, infatti, sono solo una minuscola parte di quello che nascondono i Lively: la posta in palio è alta e Haven ancora non sa che la pedina principale della partita è proprio lei. Un amore indimenticabile, una storia intrisa di mitologia, Game of Gods è il primo volume di una serie che ha già ricevuto milioni di letture su Wattpad

Informazioni aggiuntive

Autore

Editore

Data di pubblicazione

24 ottobre 2023

ISBN

978-8820077716

Lingua

Formato

Copertina flessibile

COD: 10282 Categoria: Tag: Product ID: 22054

Descrizione

 

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I FRATELLI

Tutti gli dèi dell’Olimpo furono invitati alle nozze di Teti e Peleo.

Tutti, ma non Eris, dea della discordia. Furiosa, volle vendicarsi dell’offesa, così si presentò al banchetto e gettò tra gli invitati una mela d’oro, su cui aveva inciso le parole: ALLA PIÙ BELLA.

Subito Era, Afrodite e Atena cominciarono a litigare, e si rivolsero a Zeus, perché stabilisse a chi tra loro dovesse andare la mela.

 Egli si rifiutò di esprimere un giudizio, e decise di assegnare l’ingrato compito a un mortale, il principe troiano Paride. Il giovane scelse Afrodite, consolidando così la fama della sua bellezza leggendaria.

ESISTONO due tipi di persone al mondo: quelle che vedono il bicchiere mezzo pieno e quelle che lo vedono mezzo vuoto.

A me piace stare nell’esatto centro.

Dunque, guardo il bicchiere per quello che è davvero: un bicchiere d’acqua. Poco mi importa se ne manca metà o se ce n’è metà: l’acqua è lì, in ogni caso.

Se dovessi descrivere la mia vita, la paragonerei a un mezzo bicchiere d’acqua.

Un solo genitore.

Un solo fondo bancario da dividere con mio fratello.

Un cervello abbastanza intelligente da avermi concesso l’ammissione a Yale, ma non superiore a nessuno.

Un solo occhio azzurro. Un solo occhio marrone.

Quando non ti preoccupi di quanto ti manca e di quanto hai, ti resta solo il pensiero che qualcosa almeno ce l’hai. E dovresti esserne grato.

Al tempo stesso, quando hai il minimo necessario, devi lavorare di più per fare in modo che ti basti.

Non hai neanche il tempo di invidiare chi ha un bicchiere pieno, perché sei troppo preoccupata ad assicurarti di avere almeno un po’ d’acqua nel tuo.

«Haven!»

Mi volto di scatto, spaventata. Mio fratello mi sta venendo incontro, seguito da due ragazzi e una ragazza a me sconosciuti. Io ho due valigie davanti a me e uno zaino da otto chili in spalla. «Ehi», saluto con il fiato corto.

Io e mio fratello Newt siamo l’esempio più pratico del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Ciò che non ho io, lo ha lui. E ciò che ha lui, non ho io. Un metro e novanta di altezza, lui. Un metro e sessanta, io. Le labbra naturalmente colorate di un rosso carico, io. Le labbra pallide e sottili, lui. La sua spaventosa bravura per la matematica, contro la mia mente che detesta i numeri.

Lui è fortunato in amore, io nel gioco.

Lui è nato nel pieno della primavera, io nel pieno dell’autunno.

«Hai l’incontro per le matricole all’auditorium?» chiede la ragazza che lo accompagna. Ha i capelli ricci, molto spettinati, e la carnagione scura, è alta pochi centimetri in meno di mio fratello e ha il corpo smilzo. Delle profonde occhiaie le solcano il viso dall’espressione annoiata.

Annuisco e controllo l’ora sul telefono. «Forse dovrei andare. Newt, puoi portarmi in stanza i bagagli?»

Prima che possa rispondere, uno dei suoi due amici lo scansa e mi si avvicina. «Ci penso io», esclama con troppo entusiasmo. «Mi chiamo Liam.»

Lo osservo, un po’ titubante, mentre afferra le mie valigie e si fa mettere lo zaino sulla schiena. Indossa una felpa con lo stemma di Yale. «Ciao, Liam, grazie.»

«Starai in camera con me», mi informa la ragazza di cui ancora non so il nome. «Spero ti vada bene. In caso contrario… beh, mi dispiace, non sono possibili i cambi.»

Newt sospira. «Lei è Jack.»

Jack nota subito la mia espressione confusa.

«Jack è il diminutivo di Jacqueline Jones», spiega Newt.

Sto per rivolgermi all’ultimo ragazzo di cui mi mancano informazioni, quando i miei occhi ricadono su Liam. Ha il corpo scosso da tremiti e gli occhi chiusi, per lo sforzo che sta facendo nel tenere sollevati i miei bagagli.

«Liam, guarda che puoi poggiarli a terra», lo informa Newt.

«No, devo fare buona impressione con tua sorella.»

«Perché mai?»

«È bona.»

Newt incrocia le braccia al petto. «Cosa hai detto su mia sorella, scusa?»

Liam sussulta. «Nulla, nulla.» Si volta in direzione dell’altro ragazzo. «È bona, vero?» sussurra, forse convinto che non possiamo sentirlo.

Comincio a capire perché non ci abbia mai presentato i suoi amici qui a Yale. Nemmeno io ne andrei fiera, al suo posto.

Mentre Liam e l’altro ragazzo discutono, Jack mi prende a braccetto in modo brusco e mi trascina via, verso i cancelli del campus. «Vuoi un consiglio, sorella di Newt? Liam è come un virus. Se lo ascolti per più di cinque secondi, rischi di beccartelo. Devi vaccinarti.»

Mi scappa da ridere. «Quindi cosa dovrei fare per evitare di contrarlo?»

«Io, di solito, quando inizia a parlare comincio a ripetere l’alfabeto al contrario. Poi in francese, in italiano e in spagnolo.»

«Wow», dico. «Conosci così tante lingue?»

Fa spallucce. «No, ho imparato solo l’alfabeto per evitare di ascoltare Liam.»

Questa volta non mi trattengo e ridacchio. Jack sorride, ma la sua espressione rimane indifferente. Sembra perennemente incazzata con il mondo e un po’ la capisco.

Attraversiamo i giardini, gremiti di ragazzi che trasportano le loro cose e si affaccendano da una parte all’altra. È una giornata di fine settembre piuttosto calda e la giacca comincia a darmi fastidio. Jack non mi parla più e mi scarica all’entrata dell’edificio. Infila le mani nelle tasche della salopette in jeans slavato che indossa e si fissa le Converse nere.

«Da qui devi proseguire dritta, svoltare a sinistra, poi a destra, due volte a sinistra e arrivare fino alla fine del corridoio. Troverai l’auditorium.»

Non ho capito nulla, ma sono una studentessa di Yale; perciò fingo che le istruzioni siano chiare e la ringrazio. Per fortuna scompare ancora prima che varchi la soglia dei portoni e capisca che non ho la più pallida idea di dove andare.

Qui, ad accogliermi, ci sono due ragazzi, un maschio e una femmina. «Ciao», mi saluta lei. «Io sono Lizzie. Posso sapere il tuo nome, così ti do la targhetta di matricola?»

«Haven Cohen.»

Scrive con un pennarello nero su un rettangolo bianco, contornato da una striscia blu, del colore dell’università, e lo stemma. Mi applica la targa sul petto, vicino alla spalla, e sorride. «A presto, Haven.»

Lancio un’occhiata verso il basso e sospiro. Ha scritto male il mio nome, come del resto mi è sempre successo. Pensano tutti che si scriva «Heaven», come «Paradiso».

Attorno a me è tutto così frenetico che mi viene il capogiro. Dovrei capire chi è una matricola come me e seguirla per arrivare nell’auditorium, ma c’è troppa calca e finisco per arrangiarmi a modo mio.

Percorro il corridoio che ho davanti a me e svolto a destra. Mi ritrovo ai piedi di una scalinata in marmo, larga, con il corrimano color oro. Sollevo lo sguardo e non posso che trasalire, quando noto per quanto si estende in altezza. Comincio a salire i gradini, scoraggiata.

«Stai sbagliando», dice una voce maschile alle mie spalle.

Mi giro, portandomi una mano al cuore. Ai piedi della scala, poggiato contro il muro, c’è un ragazzo. Guarda dritto davanti a sé e ha una mela rossa in mano, con cui giocherella come se fosse una palla e non del cibo.

«Come, scusa?»

I capelli neri, sotto le luci artificiali, emanano riflessi blu. Una ciocca gli scivola davanti al viso, nascondendomelo ulteriormente. «Stai sbagliando strada. L’auditorium è dalla parte opposta.»

Comincio a scendere le scale, ma sembra che, più mi avvicini a lui, più si irrigidisca. «Ti dispiace mostrarmi dove andare?» gli domando.

«Sì.»

Spalanco la bocca. Non che sia costretto a farlo, ma inventare una scusa e buttarci un po’ di gentilezza in mezzo non farebbe male.

Lui solleva lo sguardo. È divertito. Dà un morso alla mela e mastica senza staccarmi gli occhi di dosso. Inconsciamente, muovo un passo verso di lui per osservarli meglio. Sono grigi. Ma la cosa più particolare è la cicatrice che gli attraversa il lato sinistro del viso. Parte dalla basetta e scende lungo la mandibola, per poi scomparire sotto il mento.

Non so se sia dovuto alla mia curiosità morbosa o all’intensità del suo sguardo su di me, che mi fa staccare il cervello per un secondo e porta le mie labbra a muoversi, formulando l’ultima domanda al mondo che avrei dovuto porgli.

«Cos’hai in faccia?» chiedo. Me ne pento subito.

Socchiude gli occhi. Non so se è stupito dalla mia intraprendenza o irritato dalla mia curiosità. «Due occhi, un naso e una bocca. Come te», sibila.

Vorrei scusarmi, ma ormai il danno è fatto. Sono così in imbarazzo che ho l’istinto di iniziare a correre, per scappare da questa situazione. Il problema è che io non corro, mai.

Lo aggiro con calma, senza mai dargli le spalle, e ritorno ai piedi della scalinata. Lui segue ogni mio movimento e mi sento come una preda davanti a un leone, pronto ad attaccare non appena gli volterò le spalle.

Dà un secondo morso alla mela e il succo della polpa gli cola dall’angolo della bocca. Lo acchiappa con il polpastrello dell’indice e lo lecca.

«Beh, allora grazie. Ci vediamo.»

«No, non credo», risponde.

Non riesco a nascondere un’espressione mortificata, mentre si stacca dal muro e mi viene incontro. I suoi occhi non si posano su di me neanche per un istante. Giunto al mio fianco, alza il braccio. Sta tenendo la mela per il picciolo, tra indice e pollice. La lascia andare senza alcun preavviso e io mi ritrovo a protendere le mani in avanti per afferrarla al volo.

Resto a fissarla per qualche istante, poi la realtà di ciò che è appena successo mi colpisce. «Ma che…»

Quando mi volto, non c’è più nessuno con me.

Vorrei rincorrerlo per lanciargli la mela contro o costringerlo a ingoiarla, ma sono già in ritardo.

La butto nel primo cestino che incontro e, per fortuna, mi imbatto in Lizzie, la ragazza di prima. Nota subito che qualcosa non va, ma non ha bisogno di fare domande. «Andiamo, ti mostro come arrivare all’auditorium», propone.

«Sembro così persa?»

Sorride. «Hai l’aria di una che sta per avere una crisi di pianto.»

Dunque, è il mio primo giorno in uno dei college più prestigiosi degli Stati Uniti. Non so orientarmi. Non conosco nessuno. E un tipo bizzarro mi ha lasciato la sua mela mangiucchiata in mano. Certo che sto per avere una crisi di pianto.

Ennesima differenza tra me e Newt. Chi piange per la rabbia? Io. Chi piange per la tristezza? Lui. Di conseguenza, chi non sa affrontare una discussione senza scoppiare in lacrime? Io, esatto. Questo è uno dei rari casi in cui il bicchiere lo vorrei pieno.

Lizzie ha lunghi capelli arancioni e lisci, con la riga al centro, una forcellina con una farfalla applicata sul lato sinistro e dei vestiti che ricordano gli anni Settanta. Non mi perde di vista un attimo e mi tiene per il braccio lungo tutto il tragitto. Mi racconta che è al secondo anno di Astronomia e mi incoraggia per l’inizio del mio percorso universitario, dicendomi che per qualsiasi cosa posso rivolgermi a lei.

Vorrei chiederle chi è il ragazzo con gli occhi grigi che si aggira per le scale di Yale e fa lo stronzo, ma ho cose più importanti a cui pensare adesso. E, comunque, è molto probabile che non ci avrò più nulla a che fare.

La riunione per le matricole è di una noia mortale. Accanto a me si siede un ragazzo arrivato dalla Francia che profuma di gelsomino, ma il suo inglese è talmente contaminato dall’accento che faccio fatica a capirlo.

Gli altri studenti parlano tra di loro, in toni sovraeccitati, e mi ritrovo a rimpiangere di non riuscire a prendere le cose con più leggerezza. Per me, questo non è l’inizio di un percorso universitario prestigioso ed emozionante. È l’inizio di un percorso universitario per il quale ho una borsa di studio che non posso sprecare.

La rettrice di Yale è una donna di almeno sessant’anni con un caschetto di capelli biondo platino.

Ci dà il benvenuto con un enorme sorriso materno e ci ricorda della grande opportunità che ci è stata concessa nel poter conseguire un titolo di studio a Yale. Come se non sapessimo già di essere stati ammessi a una delle università private migliori degli Stati Uniti.

«Yale è la terza istituzione di istruzione superiore più antica degli Stati Uniti, nonché un membro della Ivy League. Tra le più rinomate università del mondo, Yale si è sempre distinta per la facoltà di Legge. Abbiamo formato presidenti e capi di Stato…»

La rettrice continua a tessere le lodi dell’università per quello che è un quarto d’ora ben sopportabile, alla fine del quale lo studente francese mi dice qualcosa che non capisco e io borbotto uno «Oui» solidale.

Ritrovare la strada, ora, è più semplice, perché vanno tutti nella stessa direzione. E, non appena mi ritrovo vicina all’ingresso, lancio un’occhiata alla mia sinistra, dove intravedo la rampa di scale di prima. Il ragazzo della mela non c’è.

Lizzie è ancora davanti alle porte e mi fa un cenno di saluto, accompagnato da un’alzata di pollice. Le sorrido, grata e mi accingo a uscire all’aperto.

I raggi del sole mi colpiscono in faccia e uso la mano per riuscire a vedere qualcosa. Mentre mi guardo attorno, nonostante sia qui da appena un’ora e mi ritrovi lontana da casa, capisco che questo posto mi piace già parecchio. Con il tempo, finirò per amarlo. Il giardino del campus è disseminato di alberi dalle chiome foltissime, che gettano ombre generose sull’erba. Qua e là ci sono panchine occupate da studenti e, in mezzo all’erba, delle passerelle in cemento creano una rete di stradine tramite le quali spostarsi.

Newt e Jack sono fermi a qualche metro di distanza dall’entrata, intenti a parlare.

«Eccola, la mia sorellina», mi saluta lui, ancora prima che sia abbastanza vicina.

«Com’è andata? Hai conosciuto qualcuno? Ti hanno dato fastidio? Ti piace il posto?»

Jack alza gli occhi al cielo. «Vieni con me e lascia stare tuo fratello. È il tuo primo e ultimo giorno di pausa dagli studi, devi godertelo.»

Newt mi fa strada per primo. Jack mi si affianca e lo apprezzo. «Allora, che te ne pare? Hai già conosciuto qualcuno?»

Esito. Pessima domanda. «Uno studente francese, una ragazza del secondo anno che sembra uscita da un’altra epoca e un maleducato dagli occhi grigi», borbotto.

Accadono due cose strane. Non appena finisco di parlare, Newt si blocca e scambia un’occhiata con Jack. E Jack a sua volta si ferma, inarca un sopracciglio e corruccia le labbra.

Riprendono a camminare come se nulla fosse. «Scusate, cos’era quello scambio silenzioso di informazioni dal quale mi avete esclusa?»

«Te lo sei immaginata, Haven», taglia corto Newt. E prima che possa ribattere e insistere, alza il braccio in aria in un gesto di saluto troppo drammatico. Qualcosa non va. «Liam!»

Liam e il ragazzo di prima sono seduti sull’erba del giardino. Ora che ci faccio caso, ci sono un sacco di studenti che se ne stanno spaparanzati all’aperto. Molti di loro hanno il cartellino da matricole e mi chiedo come sia possibile che la gente riesca a fare amicizia così velocemente.

Newt spettina i capelli di Liam prima di buttarsi a terra. Jack si siede in modo più composto e si guarda attorno.

«Comunque io sono Percy.»

Una mano compare nella mia visuale e la stringo. L’altro amico di Newt ha i capelli castani, molto scuri, gli occhi marroni e le labbra sottili. Mi sorride e mi porge un pacchetto di patatine.

Liam glielo ruba di mano, solo per porgermelo di nuovo. «Patatina, Haven?»

Jack mi dà una gomitata. «Alfabeto al contrario. Ricordatelo», sussurra.

Liam ha sentito, ma non fa domande. Continua a fissarmi con insistenza. «Com’è andata la riunione, Haven?»

Faccio spallucce. «Normale, direi. Tu conosci un ragazzo dagli occhi grigi e l’atteggiamento un po’ da maleducato? Magari con una mela rossa in mano.»

Al sentire la mia domanda, sia Newt sia Percy cambiano posizione. È impercettibile, ma è come se fossero improvvisamente scomodi e volessero alzarsi per andare via.

«Solo uno può rientrare nella descrizione e si chiama…» sta dicendo Liam.

Mio fratello gli dà un colpo. «Amico.»

«Cosa?»

«Meno ne sa, meglio è. Haven è troppo curiosa.»

Okay. Ora comincio a infastidirmi. Perché tutto questo mistero? È uno studente come noi. Perché non posso sapere il nome del ragazzo che ha usato le mie mani come cestino per la sua mela?

In realtà, Newt non ha tutti i torti. Voglio sapere chi è per andare a fargliela pagare. Non sono una persona aggressiva, ma sono vendicativa. Newt è l’altra metà del bicchiere: sempre affabile e gentile, evita gli scontri.

E, proprio mentre sto pensando a un modo per ottenere altre informazioni, lo vedo.


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