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La verità sul caso Harry Quebert

Author: Joël Dicker

17,10

Estate 1975. Nola Kellergan, una ragazzina di 15 anni, scompare misteriosamente nella tranquilla cittadina di Aurora, New Hampshire. Le ricerche della polizia non danno alcun esito. Primavera 2008, New York. Marcus Goldman, giovane scrittore di successo, sta vivendo uno dei rischi del suo mestiere: è bloccato, non riesce a scrivere una sola riga del romanzo che da lì a poco dovrebbe consegnare al suo editore. Ma qualcosa di imprevisto accade nella sua vita: il suo amico e professore universitario Harry Quebert, uno degli scrittori più stimati d’America, viene accusato di avere ucciso la giovane Nola Kellergan. Il cadavere della ragazza viene infatti ritrovato nel giardino della villa dello scrittore, a Goose Cove, poco fuori Aurora, sulle rive dell’oceano. Convinto dell’innocenza di Harry Quebert, Marcus Goldman abbandona tutto e va nel New Hampshire per condurre la sua personale inchiesta. Marcus, dopo oltre trent’anni deve dare risposta a una domanda: chi ha ucciso Nola Kellergan? E, naturalmente, deve scrivere un romanzo di grande successo.

Informazioni aggiuntive

Editore

Data di pubblicazione

12 gennaio 2022

ISBN

978-8830109391

Lingua

Italiano

Formato

Cartaceo

Copertina flessibile

€ 16,00

COD: 8830109398 Categoria: Tag: Product ID: 22099

Descrizione

Il giorno della scomparsa

(Sabato 30 agosto 1975)

“Centrale di polizia, qual è il suo problema?”

“Mi chiamo Deborah Cooper, abito in Side Creek Lane. Credo di avere appena visto una ragazza inseguita da un uomo nella foresta.”

“Cos’è successo esattamente?”

“Non lo so! Ero affacciata alla finestra, stavo guardando verso la foresta, e a un certo punto ho visto questa ragazza correre in mezzo agli alberi. Dietro di lei c’era un uomo… Credo che stesse cercando di sfuggirgli.”

“Dove si trovano in questo momento?”

“Non… Non riesco più a vederli. Sono dentro la foresta.”

“Mando subito una pattuglia, signora.”

Fu quella telefonata a dare inizio alla vicenda che turbò la cittadina di Aurora, nel New Hampshire. Quel giorno, Nola Kellergan, una ragazza del posto di quindici anni, scomparve. Non venne più ritrovata.

 

Ottobre 2008

(Trentatré anni dopo la scomparsa)

Tutti parlavano del libro. Non potevo più camminare in pace per le strade di New York; non potevo più fare jogging nei vialetti di Central Park senza che qualche passante mi riconoscesse ed esclamasse: “Ehi, è Goldman! Lo scrittore!” Capitava perfino che alcuni si mettessero a correre per seguirmi e farmi le domande che li assillavano: “Le cose che ha scritto nel suo libro sono tutte vere? Harry Quebert ha davvero agito così?” Nel bar del West Village che frequentavo abitualmente, alcuni avventori non si facevano più scrupoli a sedersi al mio tavolino per rivolgermi la parola: “Signor Goldman, sto leggendo il suo libro: non riesco a staccarmene! Il primo era bello, ma questo… È vero che le hanno dato un milione di dollari per scriverlo? Quanti anni ha? Solo trenta? Trent’anni! E ha già guadagnato tutti questi soldi!” Persino il portiere del mio palazzo, che vedevo procedere nella lettura tra un’apertura di portone e l’altra, una volta finito il libro mi aveva bloccato a lungo davanti all’ascensore, per confidarmi quello che gli pesava sul cuore: “Allora è questa la fine che ha fatto Nola Kellergan? Che orrore! Ma come si può fare una cosa simile? Eh, signor Goldman, com’è possibile?”

Tutta New York si appassionava al mio libro; era uscito da due settimane e già prometteva di diventare il libro più venduto dell’anno nel continente americano. Tutti volevano sapere cosa fosse successo nella cittadina di Aurora nel 1975. Se ne parlava dappertutto: alla televisione, alla radio, nei giornali. Avevo appena trent’anni e con quel libro, che era soltanto il secondo della mia carriera, ero diventato lo scrittore più in vista del paese.

Il caso che turbava l’America, e intorno al quale avevo costruito il mio racconto, era scoppiato qualche mese prima, all’inizio dell’estate, quando erano stati rinvenuti i resti di una ragazza scomparsa trentatré anni addietro. Fu così che vennero alla luce i fatti accaduti tanti anni prima nel New Hampshire, senza i quali Aurora sarebbe sicuramente rimasta una cittadina sconosciuta al resto degli USA.

 

Parte Prima

La malattia degli scrittori

(Otto mesi prima dell’uscita del libro)

 

31.

Negli abissi della memoria

 

“Il primo capitolo è fondamentale, Marcus. Se ai lettori non piace, non leggono il resto del libro. Tu come intendi cominciare il tuo?”

“Non lo so, Harry. Pensi che un giorno ci riuscirò?”

“A fare cosa?”

“A scrivere un libro.”

“Ne sono certo.”

All’inizio del 2008, all’incirca un anno e mezzo dopo essere diventato, grazie al mio primo romanzo, il nuovo beniamino delle lettere americane, fui colpito da un terribile blocco dello scrittore, una sindrome che sembra piuttosto diffusa tra gli autori baciati da un successo istantaneo e clamoroso. La malattia non era arrivata di colpo: si era insinuata dentro di me lentamente. Era come se il mio cervello, una volta infettato, si fosse bloccato un po’ per volta. Di fronte ai primi sintomi avevo fatto finta di niente: mi ero detto che l’ispirazione sarebbe tornata l’indomani, o il giorno dopo, o forse il successivo. Ma i giorni, le settimane e i mesi erano passati e l’ispirazione non era mai tornata.

La mia discesa in quegli inferi si era sviluppata in tre fasi. La prima, indispensabile per una splendida caduta vertiginosa, era stata l’ascesa folgorante: il mio primo romanzo aveva venduto due milioni di copie, catapultandomi, a soli ventotto anni, nell’Olimpo degli scrittori di successo. Era l’autunno del 2006 e nel volgere di qualche settimana il mio nome diventò il nome: la mia immagine spuntava dappertutto, in televisione, sui giornali, sulle copertine delle riviste. Il mio viso compariva su enormi cartelloni pubblicitari nelle stazioni della metropolitana. I critici più severi dei grandi quotidiani della East Coast erano tutti d’accordo: il giovane Marcus Goldman sarebbe diventato un grandissimo scrittore.

Un libro, uno solo, e già vedevo aprirsi davanti a me le porte di una nuova vita: quella delle giovani star milionarie. Lasciai la casa dei miei, a Montclair, nel New Jersey, per trasferirmi in un lussuoso appartamento del Village; abbandonai la mia Ford di terza mano per una Range Rover nuova fiammante, nera e con vetri fumé; cominciai a frequentare i ristoranti più ricercati, mi affidai ai servizi di un agente letterario che organizzava il mio tempo – e veniva a guardare le partite di baseball sullo schermo gigante del mio nuovo appartamento. Affittai uno studio a due passi da Central Park, in cui una segretaria di nome Denise, che forse si era invaghita di me, sbrigava la mia corrispondenza, preparava il mio caffè e archiviava i miei documenti importanti.

Nei primi sei mesi dopo l’uscita del libro mi ero limitato ad approfittare degli agi della mia nuova esistenza. Ogni mattino passavo in studio per leggere gli eventuali articoli che mi riguardassero e per dare un’occhiata alle decine di lettere di ammiratori che ricevevo quotidianamente e che Denise provvedeva ad archiviare in voluminosi schedari. Poi, soddisfatto di me stesso e giudicando di aver lavorato abbastanza, me ne andavo a zonzo per le strade di Manhattan, dove i passanti sussurravano tra di loro al mio passaggio. Dedicavo il resto delle giornate ad approfittare dei nuovi diritti che mi offriva la celebrità: il diritto di comprare qualunque cosa mi andasse; il diritto di ottenere posti VIP al Madison Square Garden per assistere alle partite dei Rangers; il diritto di sfilare sui red carpets insieme alle star della musica di cui, da ragazzo, avevo comprato tutti i dischi; e il diritto di uscire con Lydia Gloor, la protagonista della serie TV del momento, che tutti si contendevano. Ero uno scrittore famoso; avevo l’impressione di fare il mestiere più bello del mondo. E, convinto che il mio successo sarebbe durato per sempre, avevo ignorato i primi avvertimenti del mio agente e del mio editore, che mi sollecitavano a rimettermi al lavoro e a cominciare a scrivere il mio secondo romanzo.

Fu durante i successivi sei mesi che mi resi conto che il vento stava girando: le lettere degli ammiratori si erano diradate e per strada non venivo più abbordato così spesso. Ben presto, i passanti che ancora mi riconoscevano cominciarono a chiedermi: “Signor Goldman, di cosa parlerà il suo prossimo libro? E quando uscirà?” A quel punto avevo capito che dovevo provarci, e ci avevo provato: avevo buttato giù qualche idea su dei fogli volanti e abbozzato una sinossi sul mio computer. Niente di buono. Allora mi ero spremuto per partorire qualche altra idea e avevo abbozzato un altro paio di trame. Ma anche in quel caso, senza risultati apprezzabili. Alla fine avevo comprato un nuovo computer, nella speranza che fosse corredato di buone idee e di eccellenti sinossi. Tutto invano. Allora avevo provato a cambiare metodo: requisivo Denise fino a tarda notte per dettarle quelle che mi sembravano frasi fantastiche, parole splendide e incipit eccezionali. Ma l’indomani tutte quelle parole mi suonavano insulse, le frasi sgangherate e gli incipit disastrosi. Stavo entrando nella seconda fase della malattia.

Nell’autunno del 2007 era passato ormai un anno dall’uscita del mio primo libro e non avevo ancora scritto neanche una riga del secondo. Quando non ci fu più nessuna lettera da archiviare, nessun avventore che mi riconoscesse in un locale pubblico, e nessun manifesto con la mia faccia nelle grandi librerie di Broadway, mi resi conto che la gloria era effimera. Era una gorgone affamata, e coloro che non la nutrivano si vedevano rapidamente rimpiazzati, come stava succedendo a me: l’uomo politico del momento, la starlette dell’ultimo reality, il gruppo rock che aveva appena sfondato avevano deviato su di sé la mia parte di visibilità. Eppure dal mio primo libro erano trascorsi solo dodici piccoli mesi: un lasso di tempo ridicolmente breve ai miei occhi, ma che, nella scala del successo, corrispondeva a un’eternità. In quello stesso anno, solo negli USA, era nato un milione di bambini, era morto un milione di persone, mezzo milione era sprofondato nella droga, un milione era diventato milionario, diciassette milioni avevano cambiato cellulare, cinquantamila erano deceduti in incidenti d’auto e, nelle stesse circostanze, due milioni erano rimasti feriti in maniera più o meno grave. Quanto a me, ero rimasto al mio primo libro.

Schmid & Hanson, l’influente casa editrice newyorkese che aveva sborsato una bella somma per pubblicare il mio primo romanzo, e che puntava molto su di me, assillava il mio agente, Douglas Claren, il quale a sua volta mi dava il tormento. Mi diceva che il tempo stringeva, che dovevo assolutamente presentare un nuovo manoscritto, e io, rassicurando lui per rassicurare me stesso, gli rispondevo che il secondo romanzo procedeva di buon passo e che non c’era alcun motivo di preoccuparsi. Ma, nonostante le ore che passavo chiuso in ufficio, le mie pagine restavano bianche: l’ispirazione era scomparsa da un momento all’altro e non la trovavo più. E la sera, a letto, non riuscendo ad addormentarmi, pensavo che ben presto, e prima di compiere trent’anni, il grande Marcus Goldman avrebbe cessato di esistere. Quel pensiero mi spaventò così tanto che decisi di concedermi una vacanza per rinfrescare le idee: mi concessi un mese in un albergo di lusso di Miami con il pretesto di cambiare aria, intimamente convinto che un po’ di relax all’ombra delle palme mi avrebbe permesso di riprendere il pieno controllo del mio genio creativo. Ma evidentemente la Florida era solo un magnifico tentativo di fuga, e duemila anni prima di me il filosofo Seneca aveva già sperimentato quella penosa situazione: ovunque possiate fuggire, i problemi che vi affliggono si infileranno nei vostri bagagli e vi seguiranno dappertutto. Era come se, appena sbarcato a Miami, un affabile facchino cubano mi avesse rincorso mentre uscivo dall’aeroporto e mi avesse detto:

“È lei il signor Goldman?”

“Sì.”

“Allora questa è sua.”

E mi avrebbe porto una busta con dentro una manciata di fogli.

“Sono le mie pagine bianche?” “Sì, signor Goldman. Pensava di lasciare New York senza portarle con sé?”

Così passai quel mese in Florida da solo, chiuso in una suite in compagnia dei miei demoni, triste e risentito. Sul mio computer, acceso giorno e notte, il file che avevo nominato Nuovo romanzo.doc restava disperatamente vergine. E la sera in cui offrii un margarita al pianista del bar dell’albergo, capii di avere contratto una malattia molto diffusa nell’ambiente artistico. Seduto al bancone, il pianista mi raccontò che in tutta la sua vita aveva scritto soltanto una canzone, ma che quella canzone era stata una cannonata. Aveva avuto un tale successo che in seguito non era più riuscito a scrivere niente, e adesso, rovinato e disperato, sopravviveva strimpellando successi di altri artisti per i clienti degli alberghi. “All’epoca ho fatto delle tournée incredibili nelle più grandi sale del paese,” mi disse, aggrappandosi al colletto della mia camicia. “Diecimila persone che gridavano il mio nome, ragazzine che svenivano e altre che mi lanciavano le mutandine. Una cosa fantastica.” E, dopo aver leccato come un cagnolino il sale sul bordo del suo bicchiere, aggiunse: “Ti giuro che è la verità.” Il lato peggiore era proprio quello, perché sapevo bene che era vero.

La terza fase delle mie disavventure iniziò mentre tornavo a New York. Durante il volo di rientro, lessi un articolo su un giovane autore che aveva appena pubblicato un romanzo incensato dalla critica, e quando arrivai all’aeroporto LaGuardia vidi la sua faccia su un paio di grandi manifesti nell’area del recupero bagagli. La vita si prendeva gioco di me: la gente, oltre ad avermi dimenticato, stava provvedendo a rimpiazzarmi. Douglas, che venne a prendermi all’aeroporto, era fuori di sé: quelli della Schmid & Hanson, la cui pazienza era ormai agli sgoccioli, volevano qualcosa che dimostrasse che stavo procedendo e che presto sarei stato in grado di consegnare il nuovo romanzo finito.

“Siamo nei guai,” mi disse in macchina mentre mi riportava a Manhattan. “Dimmi che in Florida ti sei ripreso e che il tuo libro è a buon punto! C’è quel tizio di cui parlano tutti… Il suo libro sarà il grande successo di Natale. E tu, Marcus? Cos’hai per Natale?”

“Ce la farò!” urlai io, in preda al panico. “Ti assicuro che ci riuscirò. Faremo una grande campagna pubblicitaria e funzionerà! Al pubblico è piaciuto il primo libro, amerà anche il secondo!”

“Marc, tu non capisci: avremmo dovuto farlo qualche mese fa. Era quella la strategia: sfruttare l’onda del tuo successo, alimentare il pubblico, dargli quello che voleva. Il pubblico voleva Marcus Goldman, ma siccome Marcus Goldman è andato a fare i suoi comodi in Florida, i lettori sono andati a comprare il libro di un altro. Hai studiato un po’ di economia, Marc? I libri sono diventati un prodotto intercambiabile: la gente cerca un libro che le piaccia, che la rilassi, che la diverta. E se non sei tu a darglielo, lo farà il tuo vicino, e tu sarai pronto per il dimenticatoio.”

Atterrito dai vaticini di Douglas, mi misi al lavoro come non avevo mai fatto prima di allora: cominciavo a scrivere alle sei del mattino e non smettevo mai prima delle nove o anche le dieci di sera. Passavo intere giornate nel mio studio, a scrivere incessantemente, trascinato dalla frenesia della disperazione, ad abbozzare parole, iniziare frasi e moltiplicare i soggetti del romanzo. Ma, con mia grande afflizione, non producevo niente di valido. Denise passava le giornate a preoccuparsi per le mie condizioni. Non avendo più altro da fare – nessuna dettatura da trascrivere, nessuna corrispondenza da archiviare, nessun caffè da preparare – andava avanti e indietro nel corridoio. E quando non ce la faceva più, tamburellava alla mia porta.

“La prego, Marcus, mi apra!” gemeva. “Esca da quella stanza, vada a fare quattro passi al parco. Oggi non ha mangiato niente!”

Io le rispondevo urlando:

“Niente fame! Niente fame! Niente libro, niente cibo!”

Lei quasi singhiozzava.

“Non dica così, Marcus. Adesso vado al deli giù all’angolo e le prendo dei sandwich al roast-beef, quelli che le piacciono tanto. Vado subito! Vado subito!”

La sentivo prendere la borsetta e correre fino alla porta, per poi precipitarsi giù per le scale, come se la sua foga potesse cambiare qualcosa della mia situazione. Perché mi ero finalmente reso conto della portata di ciò che mi era successo: scrivere un libro essendo un Signor Nessuno mi era sembrato facile, ma adesso che ero in vetta, adesso che dovevo servirmi del mio talento e ripetere quella marcia spossante verso il successo che è la scrittura di un bel romanzo, non me ne sentivo più capace. Ero annichilito dal blocco degli scrittori e non c’era nessuno che potesse aiutarmi: le persone con le quali ne parlavo mi dicevano che era una sciocchezza, che era una situazione normalissima e che se non avessi iniziato a scrivere il mio libro oggi l’avrei fatto domani. Cercai, per due giorni di seguito, di andare a lavorare nella mia vecchia stanza, a casa dei miei, a Montclair, dove avevo trovato l’ispirazione per il primo romanzo. Ma anche quel tentativo si risolse in un penoso fallimento, al quale non era stata estranea mia madre, che aveva trascorso quei due giorni seduta accanto a me, scrutando lo schermo del mio computer portatile e continuando a ripetere: “È perfetto, Markie.”

“Mamma, non ho ancora scritto una riga,” finii per dirle.

“Io però sento che sarà perfetto.”

“Mamma, se mi lasciassi un po’ solo…”

“Perché solo? Hai mal di pancia? Devi fare un peto? Puoi farlo anche in mia presenza, tesoro mio. Sono tua madre.”

“No, non devo fare un peto, mamma.”

“Allora che c’è, hai fame? Vuoi delle frittelle? Dei biscotti? Qualcosa di salato, forse? Magari due uova?”

“No, non ho fame.”

“Allora perché vuoi mandarmi via? Stai cercando di dirmi che la presenza della donna che ti ha messo al mondo ti disturba?”

“No, non mi disturbi, però…”

“Però cosa?”

“Niente, mamma.”

“Tu hai bisogno di un’amichetta, Markie. Credi che non sappia che hai rotto con quell’attrice televisiva? Come si chiamava?”

“Lydia Gloor. Comunque non stavamo davvero insieme, mamma. Nel senso che la nostra era solo una storia così.”

“Una storia così, una storia così! Ecco cosa fanno i giovani d’oggi: vivono delle storie così, e poi si ritrovano a cinquant’anni calvi e senza una famiglia.”

“Che rapporto c’è tra la calvizie e l’essere senza una famiglia, mamma?”

“Nessun rapporto. Ma ti sembra normale che io debba venire a sapere dai giornali che stai con quella ragazza? Che razza di figlio farebbe una cosa del genere a sua madre, eh? Pensa che poco prima che tu partissi per la Florida sono andata da Scheingetz – il parrucchiere, non il macellaio – e appena sono entrata tutti mi hanno guardato con una faccia strana. Allora gli ho chiesto cos’avevano da guardarmi in quel modo, e la signora Berg, con la testa infilata nel casco della permanente, mi ha mostrato la rivista che stava leggendo: e lì c’era una foto di te e di quella Lydia Gloor, per strada, insieme… e il titolo dell’articolo diceva che vi eravate lasciati. Lì dentro tutti sapevano che avevate rotto, mentre io neanche sapevo che frequentavi quella ragazza! Ovviamente, non mi andava di fare la figura della cretina, perciò ho detto che quella Lydia era una ragazza affascinante ed era venuta spesso a cenare a casa.”

“Mamma, non te ne ho parlato perché non c’era niente di serio. Non era quella giusta, capisci?”

“Ma non è mai quella giusta! Quelle che conosci tu non sono mai adatte, Markie! È questo il problema. Pensi che un’attrice televisiva sia in grado di gestire un rapporto?

A proposito, ieri al supermercato ho incontrato la signora Emerson: anche sua figlia è single. Sarebbe perfetta per te. Tra l’altro ha dei gran bei denti. Vuoi che le dica di fare un salto qui adesso?”

“No, mamma. Sto cercando di lavorare.”

In quell’istante, qualcuno suonò alla porta.

“Devono essere loro,” disse mia madre.

“Loro chi?”

“La signora Emerson e la figlia. Gli ho chiesto di venire alle quattro per un tè. Sono le quattro in punto. Una buona moglie è sempre puntuale. Non ne sei già innamorato?”

“Le hai invitate a prendere il tè? Mandale via, mamma! Non voglio vederle! Devo scrivere un libro, perdio! Non sono venuto qui per fare conversazione, devo scrivere un romanzo!”

“Oh, Markie, tu hai proprio bisogno di un’amichetta. Un’amichetta con cui fidanzarti e poi sposarti. Pensi troppo ai libri e non abbastanza al matrimonio…”

Nessuno si rendeva conto della gravità della situazione: avevo assolutamente bisogno di un nuovo romanzo, anche solo per rispettare le clausole del contratto che mi legava alla casa editrice. A metà gennaio del 2008, Roy Barnaski, potente direttore della Schmid & Hanson, mi convocò nel suo ufficio, al cinquantunesimo piano di un grattacielo di Lexington Avenue, per un serio richiamo all’ordine: “Allora, Goldman, quando ha intenzione di darmi il nuovo manoscritto?” ringhiò. “Il suo contratto prevede cinque libri: deve mettersi al lavoro, e in fretta! Servono risultati, servono vendite! Lei è in ritardo sulle scadenze! È in ritardo su tutto! Ha visto quel tizio che ha pubblicato il suo libro prima di Natale? L’ha già rimpiazzata nel cuore del pubblico! Il suo agente dice che ha già quasi finito il nuovo romanzo! E lei? Lei ci sta facendo perdere un sacco di soldi! Perciò si dia una mossa e veda di sistemare la situazione. Forza, si impegni, mi scriva un bel libro e si salvi il culo. Le do sei mesi di tempo: fino alla fine di giugno.” Avevo sei mesi per scrivere un libro quando ero bloccato da quasi un anno e mezzo. Era impossibile. E non solo, perché Barnaski, nell’impormi quella scadenza, non mi aveva informato delle conseguenze cui andavo incontro in caso non la rispettassi. Fu Douglas a spiegarmele, due settimane dopo, durante un’ennesima riunione nel mio appartamento. Mi disse: “Devi metterti a scrivere, ragazzo mio, non puoi più tergiversare. Hai firmato un contratto per cinque libri! Cinque libri! Barnaski è fuori di sé, è stufo di aspettare… Mi ha detto che ti dà tempo fino a giugno. Sai cosa ti succede se non rispetti la scadenza? Ti faranno causa per inadempienza contrattuale e ti lasceranno in mutande. Si riprenderanno tutti i soldi e potrai dire addio alla tua bella vita, al tuo bell’appartamento, alle tue scarpe italiane e al tuo macchinone: non ti resterà più niente. Ti spolperanno vivo.” E così io, considerato fino a un anno prima la nuova star della letteratura nazionale, ne ero ormai diventato la grande delusione, l’enorme bluff dell’editoria nordamericana. Lezione numero due: oltre a essere effimera, la gloria non è priva di conseguenze. La sera dopo l’incontro con Douglas, alzai la cornetta e feci il numero dell’unica persona che secondo me potesse togliermi dai guai: Harry Quebert, il mio ex professore dell’università e, soprattutto, uno degli autori più letti e rispettati degli Stati Uniti, al quale ero legato da una decina d’anni, dopo essere stato suo studente all’università di Burrows, nel Massachusetts.

Era passato più di un anno dal nostro ultimo incontro, e quasi altrettanto dall’ultima volta che c’eravamo sentiti. Gli telefonai nella sua casa di Aurora, nel New Hampshire. Sentendo la mia voce, disse in tono ironico:

“Oh, Marcus! Sei proprio tu? Incredibile… Da quando sei diventato una star non ti sei più fatto vivo. Ti avevo telefonato un mesetto fa, ma mi aveva risposto la tua segretaria dicendomi che non c’eri per nessuno.”

Andai subito al sodo:

“Sono nei guai, Harry. Temo di non essere più uno scrittore.”

Il suo tono si fece subito serio:

“Cosa vorresti dire, Marcus?”

“Non so più cosa scrivere, sono rovinato. Sindrome da pagina bianca. Da mesi. Forse un anno.”

Harry rispose con una risata rassicurante e calorosa.

“È solo un blocco mentale, Marcus, tutto qua! Le pagine bianche sono una stupidaggine, esattamente come le débâcles sessuali dovute ad ansia da prestazione: è panico da genio, lo stesso che ti ammoscia l’arnese quando stai per giocare al dottore con una delle tue ammiratrici e pensi solo a provocarle un orgasmo misurabile in termini di scala Richter. Non preoccuparti del genio, limitati a mettere in fila le parole. Il genio viene naturalmente.”

“Credi?”

“Ne sono certo. Ma ti conviene accantonare per un po’ le serate mondane e i pasticcini. Scrivere è una cosa seria. Credevo di avertelo insegnato.”

“Ma io sto lavorando duro! Non faccio altro! Eppure, nonostante tutto, non riesco a concludere niente.”

“Allora vuol dire che ti manca l’ambiente adatto. New York è una città splendida, ma è troppo rumorosa. Perché non vieni a stare qui, come quando eri mio studente?”

Allontanarmi da New York, cambiare aria. Mai un invito all’esilio mi era sembrato più sensato. Andare a cercare l’ispirazione per il nuovo libro in riva all’oceano, in compagnia del mio vecchio maestro: era proprio ciò che mi serviva. E così, una settimana più tardi, quasi a metà febbraio del 2008, partii per Aurora. Allora mancavano solo pochi mesi ai tragici fatti che mi accingo a raccontare in queste pagine.

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