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La casa delle luci

Il prezzo originale era: €23,00.Il prezzo attuale è: €21,85.

Nella grande casa spenta in cima alla collina, vive sempre sola una bambina… Si chiama Eva, ha dieci anni, e con lei ci sono soltanto una governante e una ragazza finlandese au pair, Maja Salo. Dei genitori nessuna traccia. È proprio Maja a cercare disperatamente l’aiuto di Pietro Gerber, il miglior ipnotista di Firenze, l’addormentatore di bambini. Da qualche tempo Eva non è più davvero sola. Con lei c’è un amichetto immaginario, senza nome e senza volto. E a causa di questa presenza, forse Eva è in pericolo. Ma la reputazione di Pietro Gerber è in rovina e, per certi versi, lo è lui stesso. Confuso e incerto sul proprio destino, Pietro accetta, pur con mille riserve, di confrontarsi con Eva. O meglio, con il suo amico immaginario. È in quel momento che si spalanca una porta invisibile davanti a lui. La voce del bambino perduto che parla attraverso Eva, quando lei è sotto ipno­si, non gli è sconosciuta.
E, soprattutto, quella voce conosce Pietro. Conosce il suo passato, e sembra possedere una verità rimasta celata troppo a lungo su qualcosa che è avvenuto in una calda estate di quando lui era un bambino.
Perché a undici anni Pietro Gerber è morto.
E il misterioso fatto accaduto dopo la sua morte ancora lo tormenta.

Informazioni aggiuntive

Editore

Data di pubblicazione

21 febbraio 2023

Lingua

Italiano

Formato

Cartaceo

Copertina flessibile

€ 23,00

COD: 8830453528 Categoria: Tag: Product ID: 22106

Descrizione

1

 

23 febbraio

«Tommi, ti va di raccontarmi di nuovo la storia del disegno?»

«Devo proprio?»

«Sì, per favore.»

«È successo durante la ricreazione. Non siamo usciti in cortile perché pioveva, allora siamo rimasti a fare merenda in classe insieme alla maestra.»

«C’erano tutti i tuoi compagni, giusto?»

«Federico e Gaia erano andati al gabinetto» puntualizzò il bambino.

Pietro Gerber annotò sul taccuino quel dato apparentemente irrilevante. La precisione di Tommaso dimostrava che avesse ben chiara la scena proiettata sullo schermo delle sue palpebre abbassate.

Il piccolo paziente era perfettamente immerso nell’esperienza ipnotica. Stava guardando con gli occhi della mente.

«Allora, cosa è accaduto?» lo incalzò il terapeuta, mentre il metronomo elettronico continuava a scandire un tempo esatto, rilassante.

«Giulio ha disegnato una giraffa alla lavagna, poi si è voltato e ha detto: ’Questa è Ginevra’.»

«Perché Ginevra è molto alta, giusto?»

«La più alta della classe» confermò il piccolo paziente, continuando a cullarsi sulla sedia a dondolo. «Abbiamo tutti riso perché era vero. Anche la maestra ha riso.»

«E Ginevra si è offesa per essere stata paragonata a una giraffa?» chiese Gerber che intanto, dalla poltrona, osservava attentamente ogni minima reazione di Tommaso.

«No, anche lei rideva insieme a noi.»

«E poi cosa è successo?»

«Giulio ha continuato a disegnare: Luca era una tigre, Manuel un gorilla, Virginia era una zebra…» Mentre elencava i compagni di classe, Tommaso sembrava tranquillo.

Lo psicologo infantile continuava a prendere appunti: rapide vergate della stilografica sul foglio ruvido, eleganti come fendenti di fioretto. «E quando è arrivato il tuo turno?»

Il bambino si bloccò un istante. «Giulio ha detto che io ero un uccello.»

«Perché un uccello?»

«Non lo so» ammise il piccolo, con una smorfia di fastidio.

Gerber smise di scrivere e, con la mano con cui stringeva la penna, si sollevò gli occhiali, portandoseli sulla fronte. «Non è male essere paragonati a un uccello» disse con convinzione. «Gli uccelli possono volare: dev’essere bello poter guardare il mondo da lassù, non trovi?»

«Gli uccelli fanno la cacca sulle persone e sulle cose» replicò il bambino, stizzito. «E poi io volevo essere un leone» concluse, visibilmente contrariato.

A sette anni quell’atteggiamento era del tutto naturale e Gerber non avrebbe dato tanto peso alla reazione se non avesse nutrito il sospetto che, in realtà, dietro di essa si celasse qualcos’altro. Perché, nel pronunciare le ultime parole, il tono di Tommaso era cambiato, perdendo l’innocenza dell’infanzia e virando gradatamente verso note più astiose.

Quella non era più la voce di un bambino.

Ormai già da un po’ di sedute, lo psicologo aveva iniziato ad avvertire i segni di qualcosa che si agitava nel profondo della psiche del giovanissimo paziente.

Una collera innaturale per quell’età.

Non era il primo caso del genere in cui si imbatteva. Aveva già visto accadere qualcosa di simile, in passato. E non gli piaceva per niente.

Lo studio nel sottotetto dell’antico palazzo, a pochi passi da piazza della Signoria, era come un ventre caldo e accogliente per i bambini che si alternavano sulla stessa sedia a dondolo dove adesso era semidisteso Tommaso. Il caminetto acceso, le travi in legno, la grande libreria, il tappeto rosso cosparso di giochi, fogli e matite colorate: il luogo perfetto per farsi raccontare una bella favola. Solo che in quella stanza i bambini erano i narratori e spesso le loro storie erano popolate di mostri segreti e, a volte, non avevano un lieto fine.

Oltre a Pietro Gerber, erano presenti altri muti spettatori. Peluche, bambole e action figures celavano occhietti elettronici che videoregistravano le sedute.

Dopo aver fatto immergere i piccoli pazienti in se stessi con l’aiuto del metronomo o di un’altra tecnica di rilassamento, l’ipnotista li guidava con l’ausilio della propria voce, scegliendo accuratamente le parole per farli sentire sempre protetti e al sicuro.

«Vorresti essere un leone» asserì, ribadendo il desiderio di Tommaso.

«Sì, è così.»

«E, invece, essere un uccello come ti fa sentire?»

Il paziente non ebbe bisogno di pensarci troppo. «Arrabbiato» disse. Il suo volto si deformò in un ghigno d’ira, e strinse i pugni.

«Sei arrabbiato con il tuo compagno Giulio?» continuò a provocarlo Gerber.

«Sì.»

«Vorresti che fosse punito o che la maestra lo sgridasse?»

«Giulio deve morire» affermò il bambino, senza esitare.

L’ipnotista fece trascorrere qualche secondo prima di intervenire di nuovo. «Non ti pare un po’ esagerato? In fondo, non mi sembra che il tuo compagno abbia fatto qualcosa di grave.»

Stavolta il bambino non rispose.

Un mese prima, i genitori di Tommaso si erano rivolti a Pietro Gerber perché il figlio continuava a fare la pipì a letto. Solitamente, il problema si risolveva con un ciclo di sedute. Ma, già dopo la prima, lo psicologo si era reso conto che qualcos’altro non andava. Sotto ipnosi, nel bambino si era rivelata un’insospettabile aggressività repressa, che sempre più di frequente sfociava in dichiarazioni ostili simili a quella che aveva appena riguardato il compagno di scuola. Avevano tutte alla base motivi futili, spesso puerili. Gerber aveva chiesto ai familiari se per caso ci fossero stati atti vandalici nel vicinato senza che si riuscisse a risalire ai responsabili o se, ultimamente, fossero avvenuti incidenti domestici. Il padre di Tommaso gli aveva confermato che intorno alla villetta in cui abitavano, in un sobborgo di Firenze, aveva rinvenuto i resti di piccoli fuochi appiccati a rifiuti o sterpaglie. Poi aveva aggiunto che nel loro garage si era verificato un principio d’incendio che, per fortuna, era stato subito domato. L’uomo non capiva come quegli eventi potessero ricollegarsi al fatto che il figlio di sette anni bagnasse ancora il letto. D’altronde, come avrebbe potuto darsi una spiegazione?

Solo uno specialista poteva interpretare quei segnali. Enuresi notturna e piromania erano sintomi.

Poi Gerber aveva domandato se possedevano animali e la risposta era stata che la sorellina di Tommi aveva un piccolo acquario con i pesci rossi ma, siccome di solito non sopravvivevano per più di una settimana, avevano smesso di acquistarli.

Il terapeuta aveva raccolto quei dati per iniziare a comporre un quadro clinico, ma non era ancora sicuro della diagnosi, perciò azzardò: «Tommi, sei stato tu a uccidere i pesci di tua sorella?»

«Sì» confessò senza problemi il bambino sotto ipnosi.

«E perché l’hai fatto?»

«Non lo so» ammise, candidamente.

Ma Gerber era certo che mentisse: il bambino lo sapeva eccome ma, nonostante lo stato di trance favorisse il rilassamento dei freni inibitori, la sua psiche tratteneva l’informazione. A quanto pareva, Tommi era ancora padrone della capacità di ingannare e dissimulare. «Come hai ucciso quei pesci? Vuoi raccontarmelo?»

«Ho infilato un braccio nell’acqua e li ho presi in mano» disse quasi con sufficienza. «Scivolavano ma non potevo stringerli troppo.»

«Perché?»

«Perché se no loro se ne accorgevano…»

«Loro chi? I tuoi genitori?»

«Sì, mamma e babbo non devono capire che sono stato io. Così io tenevo il pesce nella mano e lo guardavo finché non smetteva di muoversi.»

Gerber annotò sul taccuino:

Premedita l’atto: calcola attentamente i rischi ed escogita modi per cancellare le prove e prevenire le probabili conseguenze.

«Cos’hai provato vedendo quel pesce che moriva nella tua mano?»

Nonostante il bambino fosse sempre immobile, il suo respiro accelerò e le pupille sotto le palpebre si mossero in maniera frenetica. Gerber sapeva cosa significavano quelle reazioni, il linguaggio del corpo era inequivocabile. Eccitazione.

«Non ti ha fatto pena quel povero pesce?» lo incalzò.

«No» disse Tommaso, deglutendo la saliva che gli impastava la bocca. «Mi piaceva guardarlo.»

Lo psicologo scrisse:

Mancanza di empatia, sadismo.

Gerber richiuse il taccuino con la copertina nera e se lo appoggiò in grembo: di lì a poco il libriccino sarebbe tornato al proprio posto nell’archivio riservato, insieme a quelli degli altri pazienti. Lo psicologo conservava anche i taccuini più vecchi, così come faceva il padre prima di lui.

Rimase a osservare il piccolo Tommi con un senso di frustrazione. A volte, anche l’essere più innocente serba dentro di sé un’indole potenzialmente malvagia. Nessuno in ambito clinico aveva ancora spiegato come ciò fosse possibile, ma in quel bambino si agitava una presenza oscura.

Un altro Tommi che aspettava solo l’occasione giusta per manifestarsi.

«Tu non faresti mai del male alla tua sorellina, vero, Tommaso?» chiese il dottor Gerber, sapendo già che, qualunque fosse stata la risposta, avrebbe dovuto comunque diffidare.

«Io non farò mai del male alla mia sorellina» affermò il bambino. Ma il tono accondiscendente faceva sospettare che avesse soltanto ripetuto ciò che quell’adulto voleva sentirsi dire.

L’ipnotista valutò il da farsi. Non era una decisione semplice. Avrebbe dovuto sottoporre Tommaso a una procedura non propriamente ortodossa, oltre i limiti della deontologia professionale. Però almeno così avrebbe avuto qualcosa da offrire a quel bambino.

Un nuovo inizio, lo chiamava il signor B.

«Io ti credo, Tommi» disse a proposito del non fare male alla sorella. Non contava che l’affermazione di Gerber non corrispondesse alla verità del suo pensiero. Voleva solo rassicurare il bambino, anche perché ormai lo psicologo aveva fatto la sua scelta. «Ora, però, devo rivelarti un segreto.»

«Quale segreto?» domandò, curioso, il bambino.

«Non sei stato tu a far morire i pesci rossi.»

«No?» chiese Tommaso, stupito.

«In realtà, non è mai successo. È stato solo un sogno.»

«Un sogno?» Era scettico.

«Un brutto sogno» gli confermò Gerber, mentendo. «Per questo adesso ti spiegherò cosa faremo: ti aiuterò a dimenticarlo.»

Tommi non ebbe alcuna reazione.

La cancellazione della memoria sotto ipnosi era una pratica proibita fra gli psicologi: alcuni la ritenevano eticamente scorretta poiché comportava una grave interferenza con la volontà del paziente.

L’ipnotista, però, stabilì che lui non aveva niente da perdere. E, vista la situazione, neanche Tommaso.

E siccome l’episodio dei pesci rossi avrebbe potuto innescare altri comportamenti violenti, era giusto eliminarlo.

«Se hai capito bene, ripeti ciò che ho appena detto» lo invitò Gerber.

«Devo dimenticare che ho fatto del male ai pesci rossi» riferì, diligente, il bambino.

«Esatto, andrà proprio così.»

La speranza era che la rimozione del singolo evento avrebbe ingenerato una reazione a catena nella mente di Tommi, deviando i percorsi logici che l’avevano portato a uccidere quei poveri pesci.

L’ipnotista non poteva sopprimere del tutto i suoi istinti, ma poteva ancora frenarli, ricacciandoli nell’abisso della psiche in cui si formano le peggiori pulsioni degli uomini.

«Ora faremo insieme un conto alla rovescia partendo dal numero dieci» affermò Gerber. «Poi accadrà come quando ti svegli nel tuo letto la mattina: aprirai gli occhi e il brutto sogno sarà scomparso.»

«Scomparso» ripeté il paziente.

Al termine del conteggio, il bambino riaprì gli occhi e si voltò verso di lui. «Allora, come sono andato?» chiese, ansioso di sapere se fosse stato in qualche modo promosso. Non ricordava nulla di quanto era avvenuto sotto ipnosi.

«Sei andato benissimo» gli confermò l’ipnotista e Tommi spalancò un favoloso sorriso sdentato. La sua mente è ancora plasmabile, si disse Gerber. Siamo ancora in tempo, provò a convincersi. Perché Tommaso era un bambino dolcissimo e ciò che gli stava accadendo era proprio crudele.

Il giovane paziente si alzò dalla sedia a dondolo e recuperò la sacca della palestra e la giacca sportiva dall’attaccapanni accanto alla porta. Aveva un’aria spensierata.

Mentre era di spalle, lo psicologo tornò a domandargli: «Non faresti mai del male alla tua sorellina, vero, Tommaso?»

Il bambino strabuzzò gli occhi, stupito. «No, mai» disse con apparente convinzione.

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