Descrizione
PROLOGO
Questa notte verrò uccisa.
I fulmini squarciano il buio, illuminando il soggiorno del villino dove mi trovo. E dove presto la mia vita finirà bruscamen-te. Riesco a malapena a distinguere le assi del pavimento e, per una frazione di secondo, immagino il mio corpo disteso su quelle stesse assi sopra una pozza rossa che si allarga in un cerchio irregolare, filtrando nel legno. I miei occhi spalancati fissano il nulla. La mia bocca è leggermente socchiusa, un rivolo di sangue scorre lungo il mento.
No. No.
Non stanotte.
Nel villino cala di nuovo l’oscurità. Brancolo nel buio, abbandonando la comodità del divano. Il temporale è violento, ma non abbastanza da interrompere la corrente elettrica. No, il responsabile è qualcun altro. Qualcuno che stasera ha già ucciso. E io sarò la sua prossima vittima.
Tutto è iniziato con un semplice lavoro di pulizie. E adesso potrebbe concludersi con il mio sangue che viene ripulito dal pavimento del villino.
Aspetto che la luce di un altro lampo mi mostri dove dirigermi, quindi mi muovo con cautela verso la cucina. Non ho un piano in mente, ma forse troverò qualcosa da usare come arma. C’è un ceppo portacoltelli. Con una di quelle lame affilate potrei almeno difendermi. Anche solo una forchetta sarebbe utile. A mani nude, sono spacciata.
In cucina ci sono grandi finestre panoramiche che lasciano entrare un po’ più di luce rispetto al resto del villino. Le mie pupille si dilatano e mi sforzo di captare quanti più dettagli possibile. Barcollo verso il bancone, ma dopo tre passi scivolo e cado a terra pesantemente, battendo il gomito così forte che il vero, stavo già piangendo.
Provo a rialzarmi e mi accorgo che il pavimento è bagnato.
Appena c’è un altro lampo, mi guardo i palmi delle mani. Sono macchiati di rosso. Non sono scivolata su una pozza d’acqua o di latte rovesciato.
Sono scivolata su del sangue.
Rimango immobile per un istante, passando in rassegna ogni parte del mio corpo. Non mi fa male niente. Sono intatta. Dunque, il sangue non è mio. Almeno, non ancora.
Muoviti. Sbrigati. È la tua unica possibilità.
Questa volta riesco a sollevarmi. Raggiungo il bancone e tiro un sospiro di sollievo quando sfioro la superficie dura e fredda con le dita. Cerco a tentoni il ceppo portacoltelli, ma non riesco a trovarlo. Dov’è finito?
Sento dei passi. Sempre più vicini. Non ne sono sicura perché sono immersa nell’oscurità, ma credo che ci sia qualcuno qui in cucina con me. Percepisco un paio di occhi che mi fissano, penetrandomi. Un brivido mi corre lungo la schiena.
Non sono più sola.
Il cuore mi martella nel petto, lo stomaco stretto da una morsa di terrore. Ho commesso un tragico errore. Ho sottovalutato una persona estremamente pericolosa. E ora ne pagherò le conseguenze.
PRIMA PARTE
1
MILLIE
Tre mesi prima
Dopo aver pulito e strofinato tutto con cura per un’ora, la cucina di Amber Degraw è immacolata.
Anche se il mio sforzo sembra del tutto inutile, considerato che, da quel che so, Amber mangia sempre fuori, nei ristoranti della zona. Scommetto che non sa nemmeno come si accende il suo costosissimo forno. Ha una cucina splendida, enorme, dotata di elettrodomestici che credo non abbia mai usato. Ha una pentola a pressione elettrica, un cuociriso, una friggitrice ad aria e persino una cosa chiamata essiccatore.
Un po’ contraddittorio che una persona con otto tipi diversi di crema idratante sulla mensola del bagno abbia un essiccatore. Ma chi sono io per giudicare?
Ok, sì. Giudico un po’.
Ho ripulito meticolosamente ognuno di questi elettrodomestici inutilizzati, compreso il frigorifero. Ho riposto decine di piatti e ho lavato e rilavato il pavi-mento: ora è talmente lucido che ci si può specchiare. Adesso tutto ciò che mi rimane da fare è piegare l’ultimo carico di bucato e l’attico dei Degraw sarà lindo e splendente.
«Millie!». La voce ansimante di Amber mi raggiunge in cucina.
Mi asciugo il sudore dalla fronte con il dorso della mano.
«Millie, dove sei?»
«Qui!», grido. Anche se in realtà è ovvio. L’abitazione, composta da due appartamenti uniti in uno solo, è grande sì, ma non così grande. Se non sono in soggiorno, quasi sicuramente sono in cucina.
Amber entra trafelata, impeccabile ed elegante come al solito in uno dei suoi tanti, tanti abiti firmati. Quello di oggi ha una stampa zebrata con una profonda scollatura a V e delle maniche che si restringono ai polsi. Anche gli stivali sono zebrati. È incantevole, come sempre, eppure non so se farle i complimenti o darle la caccia in un safari.
«Eccoti!», esclama con una nota di accusa nella voce, come se non fossi dove dovrei essere.
«Ho quasi finito», la informo. «Prendo il bucato e…».
«A dire il vero, ho bisogno che tu rimanga», mi interrompe.
Sbuffo. Faccio le pulizie per Amber due volte alla settimana, ma svolgo anche altre commissioni, incluso fare da babysitter a sua figlia Olive, una bambina di nove mesi. Cerco di essere flessibile perché lo stipendio è fantastico, ma lei non riesce proprio a chiedermi le cose in anticipo. Sembra che i miei impegni di bambinaia qui siano indispensabili. E, a quanto pare, non è necessario che ne sia informata se non una ventina di minuti prima.
«Devo andare a fare la pedicure», mi riferisce con la solennità di qualcuno che annuncia di doversi sottoporre a un intervento al cuore. «Ho bisogno che tu ti occupi di Olive nel frattempo».
Olive è una bimba molto dolce e, di solito, non mi dispiace affatto occuparmi di lei. Anzi, ci sono momenti in cui colgo al volo l’opportunità di arrotondare l’esorbitante stipendio che mi dà Amber – quello che mi permette di avere un tetto sopra la testa e non mangiare cibo recuperato da un bidone della spazzatura.
Tuttavia, in questo momento non posso accontentarla. «Ho lezione tra un’ora».
«Oh..». Amber aggrotta la fronte, poi la rilassa subito. L’ultima volta che sono stata qui mi ha raccontato di aver letto un articolo sul fatto che sorridere e accigliarsi sono le principali cause delle rughe. Quindi cerca sempre di mantenere un’espressione neutra. «Non puoi saltarla? Non registrano le lezioni? Non potresti farti dare degli appunti o cose del genere?».
No, niente di tutto questo. Inoltre, ho già saltato due lezioni nelle ultime settimane proprio a causa delle sue richieste dell’ultimo minuto. Sto cercando di laurearmi e ho bisogno di prendere la sufficienza in questo corso. Il programma di studi che seguo mi piace. La psicologia sociale è divertente e interessante. E passare questo esame è fondamentale.
«Non te lo chiederei, se non fosse importante», prosegue Amber.
Il suo concetto di “importante” è decisamente diverso dal mio. Per me, significa concludere gli studi e conseguire la laurea in assistenza sociale. E non credo proprio che una pedicure sia altrettanto rilevante. Insomma, è ancora inverno. Chi diamine le vedrà i piedi?
«Amber», dico.
Proprio in quel momento, dal soggiorno ci arriva un vagito. Anche se al momento non faccio ufficialmente da babysitter a Olive, di solito la tengo d’occhio se sono in casa. Amber, insieme alle amiche, porta la piccola a una scuola materna tre volte alla settimana e, per il resto del tempo, sembra escogitare ogni modo possibile per liberarsi della figlioletta. Si è lamentata che il signor Degraw non le permette di assumere una governante a tempo pieno perché lei non lavora, quindi si organizza ingaggiando diverse babysitter, soprattutto la sottoscritta. In ogni caso, Olive era nel lettino quando ho iniziato a fare le pulizie, e sono rimasta in soggiorno con lei finché il ronzio dell’aspirapolvere non l’ha cullata, facendola addormentare.
«Millie», scandisce Amber in tono tagliente.
Sospiro e metto giù la spugna che ormai si è quasi fusa al mio palmo. Mi lavo le mani nel lavello e me le asciugo sui jeans. «Arrivo, Olive!», grido.
Quando entro in soggiorno, la piccola è in piedi, aggrappata al bordo del lettino, e piange con una tale disperazione che il suo bel visino tondo è diventato paonazzo. È la classica bambina che si vede sulle copertine delle riviste per bebè. È perfetta, angelica, con morbidi riccioli biondi che ora, dopo il sonnellino, sono schiacciati contro la guancia sinistra. A dirla tutta al momento non è proprio an-gelica, ma appena mi vede alza subito le braccine e i singhiozzi si placano.
Infilo le braccia nel lettino e la sollevo. Lei mi nasconde il faccino bagnato contro la spalla e non mi sento più tanto in colpa a saltare la lezione. Non so come mai, ma nel momento in cui ho compiuto trent’anni, è stato come se dentro di
me fosse scattato un interruttore che mi ha fatto pensare che i bambini siano la cosa più meravigliosa del mondo. Adoro passare il tempo con Olive, anche se non è mia figlia.
«Lo apprezzo molto, Millie», afferma Amber, infilandosi il cappotto e prendendo la borsa di Gucci dall’attaccapanni accanto alla porta. «E credimi, le mie dita dei piedi ti ringraziano»
Sì, sì. Come no. «Quando torni?»
«Non starò via a lungo», mi assicura, ma sappiamo entrambe che è una bugia bella e buona. «E poi so che mancherò alla mia piccola principessa!».
«Certo», mormoro.
Mentre Amber fruga nella borsetta alla ricerca delle chiavi, del cellulare o del portacipria, Olive strofina il nasino ancora di più contro la mia spalla. Poi alza il visino e mi sorride con i suoi quattro minuscoli denti bianchi. «Ma-ma», farfu-glia.
Amber si blocca, con la mano ancora infilata nella borsa. Il tempo sembra fermarsi. «Che cosa ha detto?».
Oh, no. «Ha detto… Millie, forse?».
Olive, ignara del putiferio che sta scatenando, mi sorride di nuovo. «Mamma!», balbetta più forte.
Il viso di Amber si incendia sotto il fondotinta. «Ti ha chiamata mamma?»
«No…».
«Mamma!». Olive strilla allegramente. O mio Dio. Ti prego, smettila, piccolina.
Amber getta la borsa sul tavolino, il volto contorto in una maschera di rabbia che quasi sicuramente le farà venire le rughe.
«Dici forse a Olive che sei sua madre?»
«No!», esclamo. «Le dico che sono Millie. Millie. Sono sicura che si confonde, soprattutto perché sono io quella che…».
Spalanca gli occhi. «Quella che sta con lei più di me? È questo che stavi per dire?»
«No! Assolutamente no!».
«Stai forse insinuando che sono una cattiva madre?». Amber fa un passo verso di me e Olive sembra allarmata. «Pensi di essere una madre migliore di me per la mia piccolina?»
«No! Mai..».
«Allora perché le dici che sei sua madre?»
«Ma non glielo dico!». Il mio esorbitante compenso da babysitter sta per andare in fumo. «Lo giuro. Millie. Le dico solo questo. Forse alle sue orecchie suona come “mamma”, perché inizia con la stessa lettera».
Amber prende un respiro profondo, cercando di calmarsi. Poi fa un altro passo verso di me. «Dammi la mia bambina».
«Certamente…».
Ma Olive non ha intenzione di facilitarci le cose. Quando vede la madre dirigersi verso di lei con le braccia tese, si stringe più forte a me. «Mamma!», singhiozza.
«Olive», mormoro. «Non sono la tua mamma. Questa è la tua mamma». Che mi licenzierà se non mi lasci andare.
«Non è giusto!», piagnucola Amber. «L’ho allattata al seno per più di una setti-mana! Non conta niente?»
«Mi dispiace tanto…».
Alla fine, mi strappa Olive dalle braccia, mentre la piccola singhiozza disperata.
«Mamma!», strilla, protendendo le braccine paffute.
«Non è la tua mamma!», la rimprovera Amber. «Sono io la tua mamma. Vuoi vedere le smagliature? Questa donna non è tua madre».
«Mamma!», continua a piagnucolare.
«Millie», la correggo. «Millie».
Ma qual è la differenza? Non ha bisogno di sapere il mio nome. Perché da oggi non mi sarà mai più permesso entrare in questa casa. Oh, sono licenziata. Di sicuro.
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