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Gli ultimi giorni dei nostri padri

Author: Joël Dicker

17,30

Londra, 1940. Per evitare la distruzione dell’esercito britannico a Dunkerque, Churchill ha un’idea che cambierà il corso della guerra: creare una squadra dei servizi segreti che lavori nella discrezione più assoluta, la SOE, Special Operations Executive. La SOE è incaricata di azioni di sabotaggio e intelligence tra le linee nemiche: la novità è coinvolgere le persone più insospettabili tra la popolazione locale. Qualche mese dopo, il giovane Paul-Émile lascia Parigi per Londra nella speranza di unirsi alla Resistenza. Subito reclutato dalla SOE, è inserito in un gruppo di connazionali che diventeranno suoi compagni e amici del cuore. Addestrati e allenati in Inghilterra, i soldati che passeranno la selezione verranno rimandati nella Francia occupata e scopriranno presto che il controspionaggio tedesco è già in allerta… L’esistenza stessa della SOE è rimasta a lungo un segreto. Settant’anni dopo i fatti, Gli ultimi giorni dei nostri padri è uno dei primi romanzi a evocarne la creazione e a raccontare le vere relazioni tra la Resistenza e l’Inghilterra di Churchill.

Informazioni aggiuntive

Editore

Data di pubblicazione

13 giugno 2017

ISBN-13

978-8845294037

Lingua

Italiano

Formato
Copertina flessibile

€ 17,30

COD: 7668 Categoria: Tag: Product ID: 21199

Descrizione


1

Che tutti i padri del mondo, al momento di lasciarci,

sappiano quanto sarà grande il nostro pericolo senza di loro.

Ci hanno insegnato a camminare, ma non cammineremo più.

Ci hanno insegnato a parlare, ma non parleremo più.

Ci hanno insegnato a vivere, ma non vivremo più.

Ci hanno insegnato a diventare Uomini,

ma non saremo più neanche Uomini: non saremo più niente.

Seduti nell’alba, fumavano, osservando il cielo nero che danzava sull’Inghilterra. Pal recitava la sua poesia. Nascosto nel buio, ripensava al padre.

I mozziconi rosseggiavano nell’oscurità: avevano preso l’abitudine di andare a fumare su quella collinetta alle prime ore del mattino. Fumavano per tenersi compagnia; fumavano per non avvilirsi; fumavano per non dimenticare che erano Uomini.

Gros, il ragazzone sovrappeso, frugava tra i rovi come un cane randagio, uggiolava scovando i topi nell’erba umida. Pal si arrabbiò:

“Piantala, Gros! Oggi bisogna essere tristi!”

Al terzo richiamo, il compagno smise e, imbronciato come un bambino, girò intorno al semicerchio formato dalla decina di figure e si sedette dal lato dei taciturni, tra Grenouille, il depresso, e Prunier, il balbuziente infelice che amava segretamente le parole.

“A che pensi, Pal?” chiese Gros.

“A un sacco di cose…”

“Non pensare a cose brutte, pensa a cose belle.”

Con la mano grassa e paffuta, Gros cercò la spalla del compagno.

Dallo scalone del vecchio maniero che si ergeva di fronte a loro, qualcuno li chiamò. Stava per iniziare l’addestramento. Tutti si affrettarono, ma Pal rimase seduto ancora un istante ad ascoltare i rumori ovattati dalla bruma. Ripensava a quand’era partito da Parigi. Lo faceva continuamente, ogni sera e ogni mattina – soprattutto la mattina. Erano passati due mesi esatti da quel giorno.

Era stato all’inizio di settembre, poco prima dell’autunno. Non aveva potuto trattenersi: bisognava difendere gli Uomini, difendere i padri. Difendere suo padre, anche se Pal aveva giurato di non abbandonarlo mai, il giorno in cui, qualche anno prima, il destino si era portato via la madre. Il figlio affettuoso e il vedovo solitario. Ma la guerra li aveva raggiunti, e il ragazzo, decidendo di andare a combattere, sceglieva di abbandonare il padre. Già in agosto aveva saputo che gli sarebbe toccato partire, ma non era stato in grado di dirglielo. Vilmente, aveva trovato il coraggio dell’addio solo il giorno prima della partenza, quando avevano finito di cenare.

“Perché proprio tu?” si era rammaricato il padre.

“Perché se non lo farò io, non lo farà nessuno.”

Con gli occhi gonfi d’amore e di dolore, il vecchio aveva abbracciato il figlio per fargli coraggio.

Poi, chiuso in camera, aveva pianto per tutta la notte. Piangeva per la tristezza, ma sapeva che quel ragazzo di ventidue anni era il più coraggioso dei figli. Pal era rimasto davanti alla porta della stanza ad ascoltare i suoi singhiozzi. E, all’improvviso, si era odiato per essere la causa di tutto quel dolore, si era odiato al punto di colpirsi il torace con la punta del temperino fino a sanguinare. In uno specchio aveva guardato il proprio corpo ferito, si era insultato e aveva scavato ancora la carne all’altezza del cuore, per far sì che la cicatrice restasse per sempre.

L’indomani, all’alba, muovendosi in vestaglia per l’appartamento, stravolto dal dolore, il padre gli aveva preparato del caffè forte. Pal si era seduto al tavolo della cucina, vestito di tutto punto, e aveva bevuto il liquido scuro lentamente, per ritardare il momento della partenza. Non avrebbe mai più bevuto un caffè migliore di quello.

“Hai preso gli indumenti adatti?” aveva chiesto il vecchio, indicando la sacca che il figlio stava per portare con sé.

“Sì.”

“Fammi vedere. Ti serviranno vestiti caldi, l’inverno sarà molto rigido.”

Il vecchio aveva aggiunto al bagaglio qualche altro capo, un salame, un pezzo di formaggio e del denaro. Poi aveva svuotato e riempito la sacca per tre volte di seguito. “Voglio rifarla meglio,” ripeteva al termine dell’operazione, cercando di ritardare l’inesorabile destino. Quando non gli era rimasto nient’altro da fare, si era lasciato prendere dall’angoscia e dalla disperazione.

“Che ne sarà di me?” aveva chiesto.

“Tornerò presto.”

“Avrò molta paura per te!”

“Non devi…”

“Avrò paura tutti i giorni!”

Finché il figlio non fosse tornato, lui non avrebbe più mangiato né dormito: sì, sarebbe diventato il più infelice degli Uomini.

“Mi scriverai?”

“Certo, papà.”

“E io ti aspetterò sempre.”

Poi aveva stretto forte il figlio a sé.

“Devi continuare a studiare,” aveva aggiunto. “L’istruzione è importante. Se gli uomini fossero meno ignoranti, non ci sarebbe la guerra.”

Pal aveva annuito.

“Se gli uomini fossero meno stupidi, non ci troveremmo in questa situazione.”

“Sì, papà.”

“Ti ho messo dei libri nella sacca…”

“Lo so.”

“I libri sono importanti.”

A quel punto, il padre aveva afferrato il figlio per le spalle, furiosamente, in un impeto di rabbia disperata.

“Promettimi che non morirai!”

“Te lo prometto.”

Pal aveva preso la sacca e aveva abbracciato il vecchio. Un’ultima volta. E, sulla soglia, il padre l’aveva trattenuto ancora:

“Aspetta! Dimentichi la chiave! Come fai a tornare se non hai la chiave?”

Il ragazzo non la voleva: chi non torna più, non si porta la chiave. Per non dispiacere il padre, aveva semplicemente mormorato:

“Rischierei di perderla.”

Il vecchio tremava.

“Certo! Sarebbe seccante… Ma come faresti a tornare? Allora, guarda: la metto sotto lo stuoino. Guarda dove la sistemo sotto lo stuoino, proprio qui, vedi? Questa chiave la lascerò sempre qui, per quando tornerai.” Rifletté per qualche istante. “E se qualcuno se la portasse via? Mmm… Avviserò la portinaia, lei ha un duplicato. Le dirò che sei partito e che non deve lasciare la guardiola quando io non sono in casa, così come io non uscirò in sua assenza. Sì, le dirò di stare bene attenta. Le darò una mancia…”

“Non dire niente alla portinaia.”

“Come vuoi… Allora non chiuderò più la porta a chiave, né di giorno né di notte né mai. Così non ci sarà nessun rischio che tu non possa rientrare.”

C’era stato un lungo silenzio.

“Arrivederci, figlio mio,” aveva detto il vecchio.

“Arrivederci, papà,” aveva replicato il ragazzo.

Pal aveva aggiunto in un soffio: “Ti voglio bene, papà”, ma il padre non l’aveva sentito.

2

Nelle notti d’insonnia, Pal lasciava il dormitorio dove i suoi compagni, stremati dall’addestramento, dormivano come sassi. Camminava attraverso i corridoi del maniero gelido, in cui il vento s’infilava come se non ci fossero porte né finestre. Si sentiva come un fantasma scozzese, lui che era un francese errante. Passava per le cucine, il refettorio, la grande biblioteca; guardava il suo orologio, poi le pendole alle pareti, contando il tempo che mancava per andare a fumare insieme agli altri. A volte, per scacciare i pensieri cupi, ritornava con la mente a qualche storiella buffa e, se la trovava divertente, l’annotava per raccontarla al mattino ai compagni. Quando non sapeva proprio più che fare, andava a passarsi un po’ d’acqua sulle ecchimosi e le escoriazioni; chino nella conca del lavabo, recitava il proprio nome, Paul-Émile – lì lo chiamavano Pal, perché quasi tutti avevano ricevuto un soprannome: nuova vita, nuovo nome.

Tutto era cominciato a Parigi qualche mese prima, quando con Marchaux, uno dei suoi amici, in due occasioni Pal era andato a dipingere croci di Lorena sui muri della città. La prima volta era filato tutto liscio. Allora ci avevano riprovato. La seconda spedizione era avvenuta di sera, in una stradina: Marchaux stava di vedetta, Pal ci dava dentro con il pennello. Mentre era concentrato a tracciare le croci, aveva sentito una mano afferrargli una spalla e una voce sibilare: “Gestapo!” Si era voltato di scatto, con il cuore in gola: un tizio molto alto lo teneva saldamente con una mano, e con l’altra stringeva Marchaux. “Piccoli idioti!” aveva gridato l’uomo. “Volete farvi ammazzare per un po’ di vernice? La vernice non serve a niente!” Quel tizio non era della Gestapo, tutt’altro. In seguito, Marchaux e Pal l’avevano rivisto altre due volte. Il terzo incontro era avvenuto nel corso di una riunione che si era tenuta nel retrobottega di un bar di Batignolles; lì conobbero un uomo che fino a quel momento non avevano mai visto, apparentemente inglese. Il tale gli aveva detto di essere in cerca di francesi coraggiosi, disposti a partecipare alla guerra.

Così erano partiti. Pal e Marchaux. Tramite una lunga catena di contatti erano giunti in Spagna, passando dal sud della Francia e dai Pirenei. Da lì, Marchaux si era diretto in Algeria.

Pal, invece, aveva deciso di continuare verso Londra, perché si diceva che quello fosse il centro della Resistenza, così era arrivato in Portogallo e, da lì, aveva raggiunto l’Inghilterra in aereo. Arrivato a Londra, Pal era transitato per il centro di selezione di Wandsworth – una tappa obbligata per tutti i francesi che sbarcavano in Gran Bretagna –, e in quell’orda di codardi, di coraggiosi, di patrioti, di comunisti, di violenti, di veterani, di disperati e di idealisti, era sfilato davanti agli ufficiali addetti al reclutamento dell’esercito britannico. La fratellanza europea colava a picco, come una nave costruita troppo in fretta: da due anni infuriava la guerra, nelle strade e nei cuori, e ognuno voleva fare la propria parte. Pal non era rimasto a lungo a Wandsworth. L’avevano condotto quasi subito alla Northumberland House, un vecchio albergo nella zona di Trafalgar Square requisito dal ministero della Difesa. Lì, in una stanza spoglia e gelida, aveva avuto dei lunghi colloqui con Roger Calland, francese come lui. Gli incontri erano stati scaglionati in diverse giornate: il suo connazionale, che di mestiere faceva lo psichiatra, era diventato reclutatore per lo Special Operation Executive, il reparto per le azioni clandestine dei servizi segreti britannici, e sembrava molto interessato a Pal. Il ragazzo, ignorando del tutto il destino che avevano in serbo per lui, si era limitato a rispondere con impegno alle domande e ai questionari, felice di poter dare il proprio piccolo contributo allo sforzo bellico. Se l’avessero ritenuto utile come mitragliere, sarebbe diventato un mitragliere, e avrebbe sparato con foga dall’alto della torretta di un tank; se avessero voluto fare di lui un meccanico, sarebbe diventato un meccanico, e avrebbe stretto bulloni come mai nessun altro; e se le teste pensanti inglesi gli avessero affidato il ruolo di garzone in una tipografia clandestina, be’, allora avrebbe inchiostrato i rulli con tutto il suo entusiasmo.

Ben presto Calland aveva capito che Pal possedeva i requisiti giusti per diventare un agente operativo del SOE. Era un ragazzo tranquillo e discreto, dal viso dolce, piuttosto bello, con una corporatura robusta; era un patriota convinto pur senza essere una di quelle teste calde capaci di compromettere un’azione, e nemmeno uno dei tanti innamorati respinti e depressi che volevano combattere solo per cercare la morte. Si esprimeva bene, con logica e vigore, e il medico, divertito, l’aveva ascoltato spiegargli che, sì, si sarebbe dedicato volentieri alla tipografia, ma bisognava insegnargli il mestiere, perché ne sapeva poco, però amava scrivere poesie e si sarebbe impegnato fino allo spasimo per realizzare dei bei volantini – dei volantini magnifici, che sarebbero stati lanciati in gran quantità dai bombardieri, e che i piloti avrebbero letto a voce alta nelle loro cabine, pieni di emozione –, perché, in realtà, anche realizzare volantini era un modo di combattere.

Calland aveva scritto sui suoi appunti che il giovane Pal era una di quelle persone di valore che spesso non ne sono consapevoli, il che aggiunge la modestia alle tante qualità che già possiedono.

Il SOE era stato concepito dal primo ministro Churchill in persona all’indomani della disfatta di Dunkerque. Consapevole di non poter sconfiggere i tedeschi solo con l’esercito regolare, aveva deciso di incoraggiare azioni di guerriglia oltre le linee nemiche. La sua idea era brillante: sotto il coordinamento inglese, il SOE reclutava volontari stranieri nell’Europa occupata, li addestrava e li formava in Gran Bretagna, per poi rimandarli nei paesi d’origine, dove potevano effettuare operazioni sotto copertura dietro le linee nemiche: raccogliere informazioni, organizzare attentati, compiere azioni di sabotaggio e di propaganda e formare reti di resistenza.

Durante il terzo giorno alla Northumberland House, dopo che tutte le verifiche di sicurezza erano state effettuate, Calland aveva infine affrontato con Pal l’argomento SOE.

“Saresti disposto a effettuare missioni clandestine in Francia?” aveva chiesto lo psichiatra.

Il cuore del ragazzo aveva cominciato a battere all’impazzata.

“Che genere di missioni?”

“Missioni di guerra.”

“Pericolose?”

“Molto.”

Poi, con un tono di confidenza paterna, Calland gli aveva spiegato in maniera molto sintetica gli obbiettivi e il funzionamento del SOE – informazioni minime, ma sufficienti affinché il ragazzo cogliesse appieno l’importanza di una simile proposta. Pur senza comprendere ogni cosa, Pal aveva capito.

“Non sono sicuro di essere in grado,” aveva commentato.

Era impallidito: lui che si era immaginato un meccanico fischiettante, un tipografo canterino, adesso si trovava di fronte alla velata proposta di entrare nei servizi segreti.

“Ti lascerò del tempo per decidere,” aveva detto Calland.

“Certo, sì, un po’ di tempo…” aveva commentato il ragazzo.

Nulla impediva a Pal di rifiutare l’offerta, di tornare in Francia, di ritrovare la sua quiete parigina, di abbracciare di nuovo il padre e non lasciarlo mai più. Ma, nel fondo della sua anima tormentata, il ragazzo sapeva già che non l’avrebbe fatto. La posta in gioco era troppo importante. Aveva percorso tutta quella strada per fare la propria parte, e ora non poteva tirarsi indietro. Con un nodo allo stomaco e le mani tremanti, Pal era tornato nella stanza in cui l’avevano alloggiato. Aveva quarantotto ore per riflettere.

Due giorni dopo, aveva incontrato nuovamente lo psichiatra alla Northumberland House. Per l’ultima volta. Anziché nella solita, tetra stanza dei colloqui, era stato accompagnato in una sala accogliente, ben riscaldata, con le finestre che davano sulla strada. Su un tavolo al centro dell’ambiente c’era un vassoio con tè e biscotti e, poiché Calland si era assentato per qualche istante, Pal si era buttato sul cibo. Aveva fame: da due giorni non mangiava quasi niente per via dell’angoscia. Aveva trangugiato quei biscotti uno dopo l’altro, inghiottendoli quasi senza masticare. All’improvviso, la voce dello psichiatra l’aveva fatto trasalire.

“Da quant’è che non mangi, ragazzo?”

Pal non aveva risposto. Calland l’aveva guardato a lungo: gli sembrava un bravo figliolo, educato, intelligente – sicuramente era l’orgoglio dei suoi genitori. Ma aveva anche le qualità di un ottimo agente, e questo lo avrebbe rovinato. Lo psichiatra si era chiesto perché mai quel benedetto ragazzo fosse venuto fin lì, invece di rimanere a Parigi. E, come per rinviare il suo destino, l’aveva portato in un bar per offrirgli un sandwich.

Avevano mangiato in silenzio, seduti al bancone. Poi, anziché tornare direttamente alla Northumberland House, avevano camminato per le strade del centro di Londra. Pal aveva declamato una sua composizione poetica dedicata al padre, inebriato da ciò che vedeva intorno a sé: Londra era una bella città, gli inglesi erano un popolo pieno di ambizione. Allora Calland si era fermato in mezzo al viale e l’aveva preso per le spalle.

“Vattene, figliolo,” aveva detto. “Corri da tuo padre. Nessun Uomo merita ciò che sta per succederti.”

“Gli Uomini non scappano.”

“Vattene, perdio! Vattene, e non tornare mai più.”

“Non posso… Intendo accettare la sua proposta!”

“Rifletti ancora!”

“Ho già deciso. Ma deve sapere che non ho mai combattuto.”

“Te lo insegneremo noi…” Calland sospirò. “Sei consapevole di ciò che stai per fare?”

“Credo di sì, signore.”

“No, tu non ne sai niente!”

Pal aveva fissato a lungo lo psichiatra: negli occhi del ragazzo brillava la luce del coraggio: il coraggio dei figli che fanno disperare i padri.

Pal trascorreva le notti nel maniero pensando al suo inserimento nella Sezione F del SOE, avvenuto su segnalazione del dottor Calland. Sottoposto al comando inglese, lo Special Operation Executive era diviso in varie sezioni incaricate delle operazioni nei paesi occupati. La Francia ne contava diverse, in virtù dell’appartenenza politica delle differenti fazioni, e Pal era stato aggregato alla F, quella dei francesi indipendenti, che non erano legati né a De Gaulle – Sezione DF – né ai comunisti – Sezione RF –, né a Dio né a nessun altro. Come copertura aveva ricevuto un incarico e una matricola in seno all’esercito britannico: se qualcuno gli avesse chiesto qualcosa, doveva semplicemente dire che lavorava per il ministero della Difesa, il che non aveva nulla di eccezionale, soprattutto in un’epoca come quella.

Aveva passato qualche settimana in solitudine a Londra, in attesa che iniziasse il periodo di formazione come agente segreto. Chiuso nella sua stanzetta, aveva rimuginato sulla sua decisione: aveva abbandonato il padre, gli aveva preferito la guerra. ‘A chi hai voluto più bene?’ gli chiedeva la sua coscienza. ‘Alla guerra.’ Non poteva fare a meno di domandarsi se un giorno avrebbe rivisto il genitore che aveva amato tanto.

Tutto era cominciato davvero all’inizio di novembre, dalle parti di Guilford, nel Surrey. Nel maniero. Erano trascorse quasi due settimane ormai. Wanborough Manor, con la collinetta meta dei fumatori dell’alba. La prima tappa della scuola di formazione degli aspiranti agenti del SOE.

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