Descrizione
Prima Parte
30 novembre 1944
Heller si sollevò con difficoltà. Col suo metro e ottantadue entrava appena nel sidecar della motocicletta BMW della Wehrmacht. Altri veicoli non erano disponibili. Heller uscì prima con la gamba destra e trasalì quando il piede toccò l’acciottolato. Si pulì dal volto la pioggerella gelida che era iniziata durante il viaggio e scosse la testa con disapprovazione. Invece di entrare nel cortile, Strampe aveva parcheggiato la motocicletta davanti al portone. Heller lo interpretò come un segno di disprezzo. Il giovane uomo delle ss non lo sopportava.
Ora Heller era in piedi davanti alla sede della Società canottieri di Dresda. Alzò il colletto e ficcò i pugni nelle tasche del suo cappotto lungo. Restò fermo in quel modo, con le spalle sollevate e senza il suo berretto di cuoio a visiera, non sapendo dove andare. L’umidità gli si raccoglieva tra i capelli corti che stavano lentamente ingrigendo.
L’Elba offriva uno spettacolo sconfortante, grigio e sbiadito in questo ultimo pomeriggio di novembre. Lungo la riva c’era qualche albero, spoglio e reso scuro dall’umidità. A monte c’erano le canne delle batterie antiaeree, che Heller sapeva essere soltanto dei falsi. Le nuvole basse avvolgevano di foschia i pendii sull’altra riva del fiume. Presto sarebbe calato il buio. Heller tirò su col naso facendo poco rumore. D’un tratto, dallo sfondo grigio-nero degli umidi muri imbiancati si staccò una figura che si diresse verso di lui.
«Signor ispettore?» chiese l’uomo in divisa e, quindi, fece rapidamente scattare in alto il braccio destro. «Heil Hitler!»
Heller si vide improvvisamente costretto a tirare fuori la mano dalla tasca e rispose svogliatamente al gesto senza dire una parola.
L’agente di pubblica sicurezza fece un passo di lato e accennò un inchino con cui diede la precedenza a Heller. «Nella vecchia sede della Società» aggiunse come spiegazione.
Non era lontano, forse cinquanta metri, ma Heller, a cui l’umidità era penetrata nelle ossa, aveva problemi col piede destro. Fece ogni passo con cautela e percepiva l’impazienza dell’agente alle sue spalle. Arrivato alla sede, Heller si fermò per lasciare passare l’altro. Ma il poliziotto non reagì. « Vada pure avanti, sempre dritto. Si trova in fondo all’officina.» Heller fissò l’uomo con distacco per un secondo e poi entrò nella sede. Era poco più che una vecchia baracca, contigua a un grande garage in cui erano riposte le imbarcazioni, i lunghi remi e altre attrezzature. C’era odore di acqua salmastra, olio e residui metallici.
«Attraverso quella porta!» spiegò l’agente.
«Se mi avesse semplicemente preceduto» osservò Heller contrariato. C’era una luce accesa nel capannone, ma la lampadina era debole e fioca. Era deprimente, come ogni cosa di quei tempi.
«Non è arrivato nessuno ancora?» chiese. «Nessun fotografo?» «Nessuno, signor ispettore, ma è stato tutto richiesto.»
Heller annuì. Le richieste erano tante. «C’è stato qualcuno sul luogo del ritrovamento? Qualcuno ha toccato il cadavere?» «No, signor … » L’agente andò a sbattere contro Heller, che si era fermato di colpo. La porta dell’officina era aperta e quello che Heller vide non se l’era aspettato.
«Chi l’ha trovata?» chiese con voce rauca.
«Due ragazzi. Sono seduti di là, nella sede della Società.»
«Quindi nessuno è entrato nella stanza?» Heller si costrinse a di stogliere lo sguardo dal cadavere ed esaminò il pavimento in cerca di tracce. Supponeva che nel miscuglio di polvere e olio dovesse essere rimasto qualcosa. Il sangue si era coagulato. Nella pozza si formavano crepe, come nel fango di una pozzanghera asciutta.
«Mi serve della luce qua dentro, molta luce e il fotografo.»
«Allora dovremo oscurare le finestre.»
«Se ne occupi!»
L’agente annuì brevemente e sparì. Heller osservò la donna che, con una corda robusta, era stata legata per i polsi al banco di lavoro in posizione seduta e con le braccia spalancate, come Gesù sulla croce. La camicia e la canottiera erano state strappate, come anche la gonna. Un pezzo della stessa corda era stato usato per legarle i piedi e la parte inferiore del corpo era completamente nuda. Le mutandine e le calze lunghe erano state abbassate fino alle caviglie.
La testa penzolava in avanti, scendendo profondamente sul seno, e Heller riusciva a vedere la nuca della donna. Si passò di nuovo la mano sul volto. Nel frattempo la pioggia si era intensificata, aveva iniziato a tambureggiare sul soffitto di lamiera e presto cominciò a gorgogliare nelle grondaie e nei tubi di scolo. Heller si accovacciò per vedere se la donna era stata imbavagliata, ma non ci riuscì; era già troppo scuro nella stanza e non poteva toccare l’interruttore. Il volto della donna era al buio.
Finalmente sentì rumore di motori. Poi voci di uomini. Si raddrizzò e infilò le mani nelle tasche del cappotto. Entrò Oldenbusch, della scientifica, con un cavalletto di legno sotto un braccio e una grande valigia marrone nell’altra mano. Dato che non lo seguiva nessuno, potevano risparmiarsi il saluto nazista. «Dia qui, Werner.»
Heller allungò la mano verso la valigia, ma Oldenbusch, di trent’anni, tarchiato e un po’ grassottello, scosse la testa. «Lei faccia le sue cose, Max, io faccio la mia.» sbuffò. «Uno spettacolo orribile … ho già sentito.»
Heller annuì. «Una vera miseria.»
«È tutto una miseria di questi tempi.»
Heller non entrò nel merito. Quel genere di discorsi era meglio evitarli. «Provi a fotografare ogni dettaglio. Anche i vestiti. Prima, però, esamini il pavimento per le tracce. Mi sembra di aver visto un’impronta laggiù. Penso che sul banco di lavoro potrebbero esserci delle impronte digitali e anche sull’interruttore della luce. Forse ci sono capelli estranei sui vestiti della vittima. Da dove proviene la corda? E, non ne sono certo, quella laggiù è una falce?» Heller indicò una mezzaluna scura per terra sotto il banco di lavoro. Oldenbusch mosse la testa con fare rassicurante. «Ho capito, so cosa c’è da fare. Prima, però, devo avere i proiettori. Anche le lampadine per il flash sono scarse.
Manca tutto. All’inizio Klepp non vedeva nemmeno un motivo perché venissi qui.» Heller guardò l’agente della scientifica con diffidenza. «Perché, se posso chiedere?»
Oldenbusch si limitò a grugnire e con quello riteneva di aver detto tutto. Stava già lasciando di nuovo la stanza. Heller lo seguì. «Mi ci vorrà qualche tempo.
Conosce il giovane Friedrich? Lo hanno arruolato la scorsa settimana.» Heller non lo conosceva. «Ora vado a parlare coi ragazzi. Se mi cerca, mi trova nella sede della Società.» Heller indicò col mento l’edificio di fronte.
I due giovani sedevano composti a un tavolo senza aver toccato il tè nelle loro tazze. Indossavano entrambi dei cappotti, sotto i quali Heller poteva riconoscere i colletti delle uniformi della Gioventù tedesca. Quando si avvicinò, entrambi saltarono in piedi e le loro braccia si bloccarono rigide in aria. «Heil Hitler!» gracchiarono in coro.
Quanti anni potranno avere, pensò Heller, nemmeno dodici. Non avevano mai conosciuto qualcosa di diverso.
Questa volta salutò come da regolamento. Bisognava stare particolarmente attenti coi bambini, perché spesso erano i delatori peggiori.
«Seduti!» ordinò. «Che ci facevate nella sede della Società?»
«Stavamo giocando, signor ispettore criminale!» risposero all’istante.
«Nome!»
«Merker, Gustav.»
«Trautmann, Alwin.»
«Siete entrati forzando la porta!»
«No, signor ispettore criminale! La porta era aperta.»
Lo sguardo di Heller si spostò sul tavolo accanto, su cui c’erano due semplici fucili di legno.
«Si dice solo ‘ispettore’. I vostri genitori sanno dove vi trovate?» Entrambi scossero la testa.
«Raccontatemi quello che avete fatto e visto. Non tralasciate nulla. Prima tu, Gustav.» Heller intravide un movimento attraverso la finestra. L’auto di Klepp era entrata nel cortile. «Abbiamo giocato. Veniamo spesso qui. Abitiamo laggiù, sulla Gneisi, la Gneisenaustrasse. La porta era aperta di un poco e noi siamo entrati, perché faceva freddo e perché forse dentro c’era una spia. Non c’è voluto molto e abbiamo visto la morta.» A Gustav non sembrava importare, ma alle sue ultime parole il suo amico era trasalito. «Avete visto qualcosa? Qualcuno è scappato? Avete sentito gridare?» Erano domande di routine … la donna era morta da ore.
«No, non c’era nessuno.»
«Non avete toccato niente? La porta, l’interruttore della luce? La morta?» «No, signor criminale, niente!» Gustav e Alwin scossero la testa con veemenza.
«Allora come hai aperto la porta?»
«L’ho spinta col fucile!»
Heller annuì. «Adesso andrete a casa per la via più breve. Non mi state mentendo coi vostri nomi, vero? Lo sapete che per quello c’è il penitenziario.»
I due scossero nuovamente la testa con forza.
«Molto bene, allora sparite!»
I due si alzarono. Ma Alwin si fermò. «È stato il Demone, vero?» Heller alzò lo sguardo. «Il Demone?
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