Descrizione
Comando Stazione Carabinieri
Nucleo Forestale
BARBERINO DEL MUGELLO
Alla C.A. della Legione
CC Toscana – FIRENZE
(e P.C. al Comando
Interregionale CC “PODGORA”)
Oggetto: Avviso di scomparsa (num. di prot. 66263707070VR).
Il giorno 7 giugno 2020 – alle ore 06.23 circa – una coppia di escursionisti segnalava, con una chiamata al 112, un’autovettura abbandonata fra i boschi in località “Valle dell’Inferno”.
In seguito all’invio di una pattuglia, al sedicesimo chilometro della Strada Provinciale 477, veniva effettivamente rinvenuta una Fiat Panda (targata: “CR990FR”) di colore rosso amaranto scuro. Il veicolo, parcheggiato al lato della carreggiata in direzione Passo della Sambuca, aveva le portiere e il bagagliaio aperti. Lo pneumatico posteriore sinistro risultava forato. La presenza sull’asfalto del ruotino di scorta e del cric ancora inserito sotto il pianale indicava un tentativo di sostituzione dello stesso pneumatico a opera del conducente, tentativo evidentemente rimasto in sospeso o non andato a buon fine.
All’interno dell’abitacolo venivano ritrovati numerosi effetti personali appartenenti presumibilmente a una donna e a un bambino, fra cui vestiti, coperte e altri oggetti che facevano ritenere che l’auto in questione fosse attualmente l’unico domicilio dei due.
Partendo dall’esame del libretto di circolazione, è emerso che la vettura di quarta mano è stata acquistata nel 2017 da Mirbana Xhuljeta Laci detta “Mira”, nata in Albania e di anni 44.
La donna, in Italia da quasi quattro anni, in passato ha svolto l’attività di badante presso alcune famiglie della zona del Mugello, mentre di recente alternava saltuarie pulizie domestiche con l’impiego di lavapiatti in una pizzeria. La donna viveva con il figlio dodicenne di nome Nikolin detto “Nico”.
Le condizioni d’indigenza in cui versava il nucleo familiare erano già note ai servizi sociali, anche per via della ripetuta inosservanza degli obblighi scolastici del figlio.
La conferma che a bordo della vettura ci fossero proprio la donna e il ragazzo è legata all’ultimo avvistamento, avvenuto alle ore 18.00 circa del giorno prima, in una stazione di servizio TotalErg, in prossimità di Piedimonte, mentre acquistavano insieme dei panini da una macchinetta automatica.
Da allora non è stato più possibile accertare notizie di madre e figlio. In attesa di aggiornamenti, si prega di segnalare a tutte le compagnie sul territorio.
In attesa di aggiornamenti, si prega di segnalare a tutte le compagnie sul territorio
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23 febbraio 2021
Anche quel mercoledì, l’allevatrice di cavalli si svegliò nel proprio letto senza alcun preavviso, semplicemente spalancando gli occhi. E, anche quel mercoledì, per prima cosa si voltò verso la sveglia a corda sul suo comodino ed ebbe la conferma che erano le 3.47 spaccate.
Forse avrebbe dovuto indagare sulle ragioni per cui, da qualche settimana ormai, si ridestava sempre alla stessa ora precisa, senza sgarrare nemmeno di un minuto. Una parte di lei era persuasa che ci fosse un motivo se quel numero adesso ricorreva come una strana cabala nella sua vecchiaia. Un’altra parte, però, preferiva non approfondire, poiché era convinta che, specie a una certa età, si dovesse lasciare qualche domanda inevasa. Se non altro, per scaramanzia oppure per semplice precauzione. Altrimenti sarebbe stato un attimo iniziare a interrogarsi su altre cose, ben più rilevanti. Come, ad esempio, il senso della vita o cosa succeda esattamente dopo che si muore. A ottantadue anni era meglio evitare certe questioni. Anche perché i vecchi, pur non volendolo ammettere, conoscono già tutte le risposte.
Così, il mistero delle 3.47 l’avrebbe accompagnata per il tempo che le restava ed era sicura che, il giorno in cui il suo orologio interiore si fosse sbagliato anche solo di un minuto, sarebbe stato anche quello in cui lei non si sarebbe risvegliata affatto. A causa dell’insonnia, riusciva a dormire al massimo quattro o cinque ore per notte. Avrebbe voluto essere così a vent’anni. Invece adesso aveva molti più minuti a disposizione e quasi niente con cui riempirli. E ogni anziano sa che, anche se i secondi scorrono leggeri, i minuti sono pesanti come sassi. Così la vecchiaia era tutta una lotta fra il tempo che correva verso l’inesorabile e il tempo che, invece, non passava mai. Infatti, prima di arrivare a metà giornata, lei avrebbe già finito di occuparsi dei cavalli. Il resto era solo allenamento alla noia dell’eternità.
Ma non aveva scelta.
Perciò, come ogni mattina dopo essersi alzata, la donna infilò i piedi stanchi in un paio di stivali, indossò un giaccone verde, un Borsalino di feltro e si ficcò un toscano Classico nel taschino. Prima di uscire di casa, salutò con un bacio il marito nella foto di nozze in bianco e nero custodita nella vetrinetta del trumeau e accese il fuoco nella stufa di ghisa in modo da trovare un bel tepore al proprio ritorno.
Mise in moto la Lada Niva affinché il motore diesel si scaldasse, poi andò a prendere i suoi due setter dal recinto fra il maneggio e le stalle, li fece salire in macchina e si avviò con loro verso il Passo della Sambuca e la riserva naturale.
Procedeva adagio, passando dalla seconda alla terza marcia, senza forzare perché la sua Lada blu era abituata alla gentilezza. Non sentiva il bisogno di un’auto nuova, perché non era più «nuova» neanche lei e si sarebbe sentita certamente ridicola. Così come non aveva mai desiderato un altro marito, nemmeno dopo che il suo aveva deciso di precederla nel buio dell’aldilà. Certe cose erano difficili da spiegare, e il paragone tra un fuoristrada del Settantasette e l’unico uomo della sua vita era fra quelle. Si trattava pur sempre di affetto e fedeltà. Ogni volta che si metteva alla guida, ripensava con orgoglio ai complimenti dell’impiegato della Motorizzazione quando le avevano rinnovato la patente. Vista e riflessi perfetti. Che è un po’ anche il segreto di un buon matrimonio. Prestare sempre attenzione e prepararsi agli imprevisti. Perché, come le aveva insegnato la mamma, il peggio arriva per tutti, sempre.
Giunse nei pressi di uno spiazzo in mezzo a un faggeto da cui iniziavano i sentieri che portavano al torrente Rovigo e alla gola conosciuta come Valle dell’Inferno. Dopo aver parcheggiato, fece scendere i cani e lasciò che si ambientassero fiutando in giro. Intanto, recuperò dal taschino il sigaro che aveva portato con sé, lo spezzò e se ne infilò una metà in bocca. Non sarebbe stato prudente accenderlo in mezzo al bosco, ma le piaceva masticarlo.
Non sapeva perché ultimamente andasse sempre lì. Avrebbe potuto scegliere altri posti, anche più belli di quello. Ma era diventata quasi un’abitudine, insieme alla sveglia delle 3.47.
Forse preferiva quel bosco perché un tempo ci andava a caccia col marito. La caccia, insieme all’amore per i cavalli, era la cosa che li aveva uniti. L’allevatrice aveva ereditato quella passione dal suo babbo che, essendo riuscito a mettere al mondo solo figlie femmine, l’aveva cresciuta come un maschio. Nessuno immaginava che un giorno si sarebbe sposata. Eppure era successo. Dopo la morte del marito, si era ripromessa di continuare con la caccia, ma le sue doppiette ora erano piombate e riposte sotto chiave da quando i nipoti adolescenti l’avevano aggredita verbalmente perché si era presentata con due belle pernici bianche per il pranzo di Natale. Per placarli, avrebbe voluto raccontare di quando, a dodici anni, aveva preso parte a una «braccata» di cinghiali, che per lei era stato come un rito di iniziazione. Proprio con la caccia aveva imparato a rispettare la natura e gli animali. E avrebbe voluto aggiungere che loro in città amavano solo cani e gatti, però poi mangiavano la carne del supermercato. Ma alla fine quel giorno se n’era tornata a casa, umiliata e sconfortata, sapendo che quella tradizione di famiglia sarebbe scomparsa insieme a lei.
Però i setter non si potevano certo far piombare dalla questura come fucili! In qualche modo, bisognava fargli sfogare l’istinto, povere bestie. Il rischio era che si «imballassero», come accadeva spesso ai cani da riporto, che impazzivano perché non avevano più prede da cercare. Ecco perché ogni giorno l’allevatrice di cavalli si recava in quei luoghi e lasciava i setter liberi di scorrazzare, per dare almeno a loro l’illusione di avere ancora uno scopo. Anche quel mattino, spostò con la lingua il sigaro spento a un lato della bocca, quindi emise un fischio breve e deciso.
Al comando, i due setter scattarono simultaneamente e sparirono nella boscaglia.
Dopo qualche secondo, svanirono anche il suono della corsa tra le fronde e il crepitio delle foglie dei faggi. Mancava ancora un po’ al sorgere del sole, ma l’aria iniziava a riscaldarsi e si condensava già in una nebbiolina di rugiada luminescente, come se la natura presagisse il giorno. Certe accortezze, certi dettagli stupivano da sempre la donna, nella tomba le sarebbero mancate tutte le piccole perfezioni del Creato. Allora trasse un profondo respiro di resina e terra umida, mosse un passo di lato e, contemporaneamente, liberò gli intestini da una rumorosa scorreggia, perché uno dei vantaggi della vecchiaia era proprio la possibilità di dissacrare la perfezione del Creato. Si stava godendo la quiete indifferente di quel tempo immobile, incurante di quanti momenti come quello le restassero ancora, quando fu colta da una strana sensazione, mai provata prima.
Il presentimento di non essere sola.
Non era soltanto un sospetto, era una certezza. Non sapeva da dove le derivasse. Durò appena un istante e, prima che potesse spiegarsene la ragione, avvertì di nuovo i cani in lontananza e tornò con lo sguardo nella direzione in cui si erano allontanati.
Abbaiavano forsennatamente.
All’inizio, pensò che avessero scovato una lepre imprudente che aveva abbandonato la tana prima dell’alba per procurarsi del cibo. Ma, in quel caso, li avrebbe già dovuti vedere riapparire baldanzosi e con la preda fra i denti.
Invece, i due setter stranamente non tornavano.
Allora, per richiamarli, si infilò due dita in bocca e rilasciò un fischio forte e prolungato. Niente: continuavano a latrare, nervosi. Ben presto, iniziarono a ululare. La donna capì che cercavano di attirare la sua attenzione.
E comprese anche che nel bosco c’era qualcosa che li tratteneva.
Senza indugiare, tornò verso la Lada e recuperò una torcia elettrica dal vano portaoggetti, poi s’inoltrò nella fitta vegetazione.
Si faceva largo come poteva con le mani callose, un ramo le graffiò una guancia ma lei nemmeno se ne accorse perché, oltre che dal verso delle sue bestie più care, a causa della sensazione provata poco prima era guidata dall’ansia, e pregò lo stesso Dio a cui non aveva mai creduto che i suoi timori fossero infondati, un prodotto della fantasia alimentato dalle paure dell’età.
Puntando la luce davanti a sé, la donna riuscì a riconoscere nell’intrico degli arbusti le ombre dei setter che si muovevano freneticamente marcando un cerchio, come se avessero messo in trappola trappola qualcosa. Quando fu a una distanza adeguata, sollevò la torcia verso di loro.
La preda era un bambino.
La donna si arrestò di colpo, le cadde il cappello. Lo guardò meglio. Poteva avere undici o dodici anni e se ne stava impassibile. Sbuffi di vapore si formavano davanti alla sua bocca a ogni respiro. Dietro quella coltre opaca s’intravedeva un lungo caschetto di capelli biondi, con la frangia da cui spuntavano due pupille di un azzurro glaciale, distante. Aveva la pelle diafana, sottile come carta velina, che lasciava intuire le vene sottostanti. Sembrava fatto di cera. Indossava abiti invernali ma teneva le braccia strette in petto e tremava per il freddo. I suoi occhi riflettevano la luce della torcia. C’era qualcosa di strano, poi lei capì.
Non sbatteva le palpebre.
La donna non avrebbe mai più dimenticato quello sguardo. La domanda più logica da farsi era cosa ci facesse tutto solo in mezzo al bosco in piena notte. Ma poi, anche se non aveva molto senso, comprese di aver paura della risposta. Allora chiese: «Ti sei perso?»
Il bambino di cera seguitava a fissarla, muto e inespressivo.
«Come ti chiami?»
Nessuna reazione.
Intanto i cani continuavano ad abbaiargli contro. La donna fischiò energicamente per richiamarli all’ordine, ma quelli non smettevano. Ci riprovò, ma ignoravano il comando. E l’unica spiegazione che le venne in mente fu: Hanno paura. Sarebbe stato più logico il contrario, invece era una scena surreale poiché il bambino appariva assolutamente innocuo.
«Basta!» urlò allora e si avvicinò a uno dei due animali, sollevò una mano e lo colpì leggermente sul muso. Il setter si ritirò dietro le sue gambe e anche il compagno fece lo stesso. Tremavano. Per calmarli, la donna prese dalla tasca del giaccone qualche pezzo di lardo secco e glielo diede. «Ti porto al mio casale e da lì avvertiamo qualcuno, d’accordo?» suggerì, poiché lì i cellulari non prendevano e perciò era inutile portarseli appresso.
La proposta non provocò alcuna replica.
«Avrai fame» ipotizzò allora l’allevatrice di cavalli. Stavolta, senza attendere un responso, si chinò per recuperare il cappello, lo spolverò con calma dal terriccio, poi si voltò incamminandosi per tornare indietro. Sperò che lo stratagemma funzionasse, perché non aveva altre idee per risolvere la faccenda. E, onestamente, la cosa cominciava a spaventare anche lei. Poi avvertì dei passi dietro di sé e capì che il bambino la stava seguendo.
I cani, però, erano sempre agitati.
Lungo il tragitto per rientrare all’allevamento, il bambino continuò a non dire una parola. Sembrava stranamente tranquillo, imperturbabile. Come se non fosse umano. Era arrivato da un altro mondo, non c’erano dubbi. E mentre poco dopo lo guardava mangiare silenziosamente pane e latte, seduto per terra a gambe incrociate davanti alla stufa accesa, la donna ripensò a ciò che aveva provato prima del loro incontro: la certezza di non essere sola. E pensò che quel bambino era la morte.
Sì, la morte se ne andava a spasso per i boschi del Mugello e aveva preso le sembianze di un bambino. Ed era sempre lei che nelle ultime settimane l’aveva svegliata ogni giorno alle 3.47, proprio per prepararla al loro incontro.
Ed era ancora lei che la invitava a recarsi alla Valle dell’Inferno, perché quello era il luogo scelto per l’appuntamento.
La morte la stava aspettando e adesso lei se l’era portata addirittura a casa. E fra poco, terminata la merenda, avrebbe finalmente parlato, annunciandole con voce innocente ciò che nessun essere umano vorrebbe mai sentirsi dire.
Che era giunto il suo momento.
Dopo aver chiamato l’uno-uno-due, mentre era in febbrile attesa che qualcuno venisse a liberarla da quella presenza che la turbava, la donna cercò conforto nello sguardo del marito defunto nella foto di nozze del trumeau. Lui avrebbe saputo cosa fare. Fu in quel momento che ebbe una specie di epifania e si ricordò di una cosa. Non ne era sicura, ma da quelle parti se n’era parlato per un po’.
Si recò nel gabinetto esterno dove, per terra accanto alla tazza, c’era una pila di vecchi giornali locali. Si mise a rovistare fra quelle carte, finché non scovò la copia di un quotidiano che risaliva all’inizio dell’estate precedente. Si stupì di sé stessa e della propria memoria, perché fra quelle pagine c’era proprio ciò che stava cercando. Si fermò a pensare. Improvvisamente, l’idea che quel bambino avesse a che fare proprio con la morte non le sembrò poi così balzana.
C’era solo un modo per scoprire se si stava sbagliando. Tornò dal suo silenzioso ospite con il ritaglio di cronaca fra le mani.
«Nico?» lo chiamò, con tono neutro.
Il bambino smise di mangiare. Poi si voltò a fissarla.
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