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Oro

19,00

Le gare non sono mai state una passeggiata per me, ma quella lotta all’ultimo respiro io la cercavo. Se capivo di dover entrare in acqua e combattere alla morte, l’adrenalina mi scorreva ed ero felice.
La condizione ideale per gareggiare era sentirmi un animale braccato. La sera prima di una gara quasi non mangiavo. Era la tensione, certo, ma anche un modo di prepararsi all’assalto, come il lupo che prima di andare a caccia per affrontare la lotta digiuna, dimagrisce. La fame o l’inappetenza non erano solo forme nervose, ma manifestazioni di un atavico istinto al combattimento. All’inizio, quando ero solo una ragazzina, mi sentivo un vuoto dentro che riempivo con le vittorie, ma dopo un po’ non era più quello. Da un certo punto in poi l’ho fatto solo per me stessa. Mi chiedevano a chi volessi dedicare le mie vittorie. Le più difficili, quelle che arrivavano dopo periodi duri, quelle delle rinascite le ho dedicate tutte a me stessa. Perché io ero l’unica a sapere che sacrifici avessi fatto per ottenere quei risultati. Io ero il lupo. Cosa ne sapevano gli altri, chi aveva vissuto anche solo la metà di quello che avevo vissuto io?
Questo fa di me una stronza?

Informazioni aggiuntive

Editore

Data di pubblicazione

16 maggio 2023

ISBN-13

978-8834613498

Lingua

Italiano

Formato

Copertina Flessibile

COD: 9159 Categoria: Tag: Product ID: 20708

Descrizione


L’acqua, la insegna la sete.

La terra – gli oceani trascorsi.

Lo slancio – l’angoscia –

La pace – la raccontano le battaglie –

L’amore, i tumuli della memoria –

Gli uccelli, la neve.

Emily Dickinson

 

Cosa pensano i nuotatori quando nuotano?

Nelle interminabili ore trascorse ruotando le braccia, respirando a tempo, pinnando con le gambe. Cosa pensano mentre ai lati scorrono come un rosario i galleggianti che dividono le corsie, mentre a terra luccicano immobili e sempre identiche le piastrelle? Se lo chiedono tutti, alla fine ce lo chiediamo anche noi. Cosa ho pensato in tutti questi anni passati ad allenarmi nel silenzio dell’acqua?

Ho smesso di nuotare il 30 novembre 2021. Fino ad allora gran parte della mia giornata si svolgeva in assenza di gravità. Galleggiavo, come un’astronauta ma in posizione orizzontale. Ho forzato la mia schiena perché collaborasse con le gambe e le braccia a spingermi più avanti, più veloce, sulla superficie dell’acqua. È una posizione innaturale per noi esseri umani che ci siamo evoluti per camminare su due gambe. Gli animali quando nuotano si muovono come fuori dall’acqua. Agitano le zampe e si spostano. Se sollevi un cane che sta nuotando continuerà a muovere le zampe, tranquillo, come se stesse ancora galleggiando. Noi esseri divenuti eretti ci sdraiamo invece sull’acqua come tavole, gambe, braccia e testa allineate. È strano. Tutti i miei sforzi fisici avevano come obiettivo non quello di mantenere un equilibrio perfetto tra alto e basso, ma di trasformarmi in una freccia. Un corpo scoccato in orizzontale verso il bersaglio.

Lo sport agonistico è fatto di torsioni anomale, inversioni di senso dei muscoli che si gonfiano o si sgonfiano a seconda di quello che serve. Non per vivere, ma per vincere. Ogni sport è un tentativo di spostare in avanti il limite del possibile, forzando la natura. Ma solo nel nuoto questo avviene in una condizione, in un elemento, diversi da quelli in cui normalmente viviamo.

Il nuoto ha bisogno dell’acqua. Puoi correre, saltare, rincorrere una palla, tirare di scherma in qualsiasi luogo del mondo. Ma senza l’acqua non puoi nuotare. E questo lo rende speciale rispetto a qualsiasi altro sport. Per essere nuotatori non basta allenare i muscoli e il corpo, serve trasformarsi in creature anfibie. Serve venire a patti con l’acqua. Persino il peso che ci portiamo dietro non è il nostro, ma un’equazione complicata tra quello che siamo e quello che l’acqua fa di noi. Dobbiamo essere leggeri e acquatici per galleggiare, ma anche avere muscoli abbastanza pesanti per riuscire a fenderla, quell’acqua.

Galleggiare è un termine buffo, deriva da galla, una malattia delle piante, una minuscola (e leggerissima) infezione che certi insetti procurano agli alberi, soprattutto alle querce. Le noci di galla sono microscopiche formazioni ripiene di un liquido scuro, il tannino, quello con cui un tempo si facevano gli inchiostri. Galleggiare vuol dire dunque prendere l’aspetto della cosa più leggera che si riesca a immaginare, una cosa minuscola e piena di liquido: una bolla.

Ogni sport è un’ossessione, la nostra è l’acqua. L’acqua azzurra corretta dal cloro, un odore che non ci togliamo mai di dosso. Non troppo calda e non troppo fredda, non meno di 26 gradi e non più di 28. L’acqua della piscina è il mio liquido amniotico, la mia culla. Io amo il mare, certo, ma il mare è infido, pericoloso. Non mi sento tranquilla a nuotare nell’acqua scura dove non vedo il fondo. Ho paura degli squali, come tutti noi traumatizzati dal film di Spielberg. Poco importa che per incontrare uno squalo nel Mediterraneo tu debba essere veramente sfortunato. Può sempre succedere, no? Potrebbe spuntare proprio mentre sto nuotando io, potrebbe venir su da quelle acque scure sotto di me.

Nelle piscine non ci sono gli squali. D’estate, quando sono scoperte, vediamo sotto di noi le strisce che segnano i percorsi e i riflessi del sole nell’acqua. Una vasca dopo l’altra. Quando nuotiamo a dorso vediamo invece il cielo che luccica attraverso le lenti degli occhialini. Lo sguardo di chi nuota è sempre rivolto verso l’alto o verso il basso, non è mai dritto come quando ci spostiamo sulle nostre gambe fuori dall’acqua. Non vediamo mai davanti a noi, vediamo di lato quando ci giriamo per prendere fiato, vediamo il cielo o le piastrelle della piscina. Io poi sono miope e sotto gli occhialini devo indossare le lenti graduate. Quello che vedo nuotando è sottoposto a un doppio filtro. È capitato che non mi sia accorta dello sprint di un’avversaria in una corsia lontana dalla mia e di essermela poi ritrovata sul podio, davanti a me per qualche centesimo di secondo.

Quando nuoto penso quindi ad andare più veloce di tutti ma anche alla temperatura dell’acqua, a quello che dovrò fare dopo l’allenamento, alla cosa che mi ha fatto incazzare la mattina appena sveglia. Mi distraggo, sbaglio la virata e mi dico cazzo, Fede, stai attenta alla prossima. Ho passato tante di quelle ore a nuotare che alla fine è come se mi chiedessero cosa penso quando vivo: vivo, semplicemente.

Non ricordo di avere imparato a nuotare. È buffo. Ho passato tutta la vita a perfezionare un gesto che non ricordo di avere imparato. Nella mia testa non esiste un’immagine di me prima dell’acqua. Così come non ho memoria del tempo prima di imparare a dormire, o a mangiare. In una foto alla quale sono molto affezionata galleggio felice in una piscina. Avrò avuto due anni. Devo avere imparato prima a nuotare che a camminare.

Il mio primo ricordo in piscina risale a un paio d’anni dopo. Sono nella vasca dei bambini, quella con l’acqua bassa, insieme alla mia prima insegnante, Sonia. Era severissima, mi rimproverava perché non ero capace di fare le bolle buttando fuori l’aria. Diceva a mia madre che mi ostinavo a non mettere la testa sott’acqua. Forse avevo paura. Quel respiro, molti giorni più avanti, sarebbe diventato una questione seria per me.

All’epoca, più che una nuotatrice pensavo che avrei voluto diventare una ballerina. Mi piacevano le scarpette, il tutù, mi piaceva il modo aggraziato in cui si muovevano le bambine della scuola di danza. Avrei voluto essere come loro e per cominciare mi iscrissi a ginnastica artistica. Alla quinta lezione scappai e tornai in acqua.

Nuotare non era la cosa che mi piaceva di più al mondo. Però avevo un dono: galleggiavo perfettamente. Galleggiavo più di chiunque altro. Non era tanto il nuoto all’inizio, era l’acqua, l’armonia tra noi. L’acqua è sempre stata il mio elemento, anche quando non ero sicura che nuotare mi piacesse così tanto. Questo non significa che sia sempre stato facile o che non abbia litigato con il nuoto qualche volta. Ma sono sempre tornata lì. Anche adesso che ho smesso di gareggiare e di allenarmi, se ho bisogno di pace so che la troverò in acqua.

Mia madre mi portava alla piscina dello Sporting club di Noale, dove i bambini nuotavano accanto ai campioni olimpici. Facevamo la nostra lezione mentre nelle corsie vicine vedevamo questi fenomeni che filavano come delfini, veloci ed eleganti, una vasca dopo l’altra. Mi emozionava, mi veniva voglia di imitarli. Sarebbe poi successo anche con me, anche io mi sarei allenata accanto a bambini e bambine che imparavano. Mi è sempre sembrata una cosa bella del nuoto questa promiscuità tra chi inizia e chi si allena per le gare.

Ho moltissime foto di quel periodo in piscina, tutte nella stessa posizione: seduta a bordo vasca, con le gambe strette accavallate una sopra l’altra. La ragione è che per paura di perdere le gare non andavo mai a fare pipì. Mia madre mi gridava vai in bagno prima che cominci! Ma io rimanevo lì, ferma immobile e con le gambe strette, ad aspettare che mi chiamassero. Prima venivano le gare, poi la pipì.

Il nuoto non è uno sport di squadra. È uno sport cerebrale, servono cervello e una mostruosa determinazione per nuotare più forte degli altri. Nessuno può darti indicazioni mentre sei in gara, non puoi neanche guardare il tuo allenatore per avere conforto. Puoi contare solo su te stesso. Ed è uno sport silenzioso. Nell’acqua i rumori scompaiono, sono echi coperti dal rumore delle tue bracciate, delle gambate. Anche il tifo sugli spalti è lontano. Quando prima di una gara chiamano il tuo nome, si aprono le porte ed entri in piscina, la gente applaude. Quando stai per salire sul blocco di partenza senti il sostegno del pubblico. Poi tutto scompare. Ti tuffi e sei solo. Tu contro il tempo. Non ci sono giurie, punteggi, acrobazie. Conta solo arrivare prima degli altri, sia pure di un centesimo di secondo.

Il nuoto è uno sport meritocratico. Può sembrare così per tutti gli sport, ma il nuoto ha un vantaggio, non valgono i giudizi esterni, vale solo il risultato. Non esiste contestazione: c’è un cronometro, fine del discorso.

Non abbiamo attrezzatura, scarpe, cappelli, palle da rincorrere. Siamo nudi, quando gareggiamo. La nostra divisa è fatta di quasi niente, la cuffia, gli occhialini e il costume. Sui primi due c’è poco da sperimentare. Le cuffie possono essere preformate, in silicone, oppure ci sono quelle tradizionali in tessuto. Quelle tradizionali, con le cuciture, si riconoscono dal fatto che formano delle pieghe sopra la testa. Nel tentativo di rubare centesimi al tempo indossiamo quasi tutti quelle preformate. Lisce, sembrano offrire minore resistenza all’acqua. Io addirittura ne indossavo due, una sull’altra. La prima sui capelli, poi mettevo gli occhialini, e la seconda sulla prima e sull’elastico degli occhialini, per evitare che si spostassero con il tuffo.

Gli occhialini hanno il bordo di silicone oppure sono minuscoli e scontornati. In base alla forma del viso sono più comodi gli uni o gli altri. Quelli che usavo io si chiamano svedesi e sono quelli che si montano. Li preparavo la sera prima della gara, scegliendo il colore del laccetto a seconda del mio umore e dell’impressione che volevo dare. Ne avevo una serie di colori diversi. Piccoli vezzi con quel pochissimo a nostra disposizione.

Sui costumi si sono sbizzarriti di più. Alle Olimpiadi di Sydney del 2000, il nuotatore australiano Ian Thorpe si presentò ai blocchi con quello che sarebbe passato alla storia come il costumone. Era una tuta integrale, copriva per intero le braccia e le gambe lasciando scoperti solo mani e piedi. In quelle Olimpiadi Thorpe vinse tre medaglie d’oro e due d’argento. Il costumone ebbe parte del merito? Senza dubbio rendeva gli atleti più idrodinamici, ma soprattutto, a differenza degli slip maschili e dei tradizionali costumi interi, collaborava con la biomeccanica muscolare. Metteva cioè in collegamento, tramite fasce di tessuto, i muscoli che lavorano in gruppo. Concepito come una specie di sistema muscolare ulteriore, il costumone indirizzava e rendeva più efficiente lo sforzo.

Nel 2008 è stato commercializzato lo Speedo LZR Racer. Progettato insieme alla NASA, testato nella galleria del vento più tecnologica del mondo, frutto di ingegnerie avveniristiche e investimenti miliardari, il costumone di seconda generazione era fatto di un tessuto ultraleggero, a basso attrito, idrorepellente e ad asciugatura rapida. Totalmente privo di cuciture: i singoli componenti venivano assemblati attraverso un processo a ultrasuoni. Sui fianchi, pannelli di materiale poliuretanico comprimevano il corpo del nuotatore dandogli una forma più snella e idrodinamica. Le placche poliuretaniche permettevano inoltre ai nuotatori non solo di nuotare, ma anche di galleggiare meglio. Quando venne omologato a livello globale, si scatenò il panico.

Alberto Castagnetti, direttore tecnico della Nazionale, tornò dai Trials americani con questo costume mezzo gommato. Lo tirò fuori dallo zaino con circospezione, quasi si trattasse di merce proibita. Noi lo guardammo con un misto di ammirazione e paura. Alberto mi disse provalo, facciamo un test gara. Era un oggetto strano, difficile da indossare perché più che a un costume somigliava a una corazza. Era parecchio rigido, e presto avremmo imparato che per farlo scorrere sulla pelle occorreva che lo pinzassimo con le dita, procurandoci delle vesciche sulle mani. Mi sono rimaste le cicatrici, a testimonianza del periodo dei costumoni. All’inizio il risultato non ci sembrò eccezionale, ma prendendoci confidenza scoprimmo che invece funzionava. Le aziende europee si misero subito a fare ricerca e in pochi mesi Jaked, il marchio con cui gareggiavo io, brevettò un costume con prestazioni molto simili. La faccenda andò avanti per un annetto, fin quando nel gennaio 2010 i bodysuit furono banditi definitivamente. Sostituiti dai jammer da uomo, che coprono le gambe fino al ginocchio, e per le donne da un costume intero a mezza coscia.

Da allora i materiali con cui si fabbricano i costumi da competizione sono l’elastan, il nylon e altre poliammidi che conferiscono elasticità. Una piccolissima percentuale di carbonio (dall’1 per cento al 3 per cento, in media) dà una certa rigidità, che consente il perfetto adattamento del tessuto al corpo. Sopra il tessuto viene applicata una sostanza che serve a farlo impregnare d’acqua il meno possibile.

C’è un gran lavoro dietro un costume da competizione. Passiamo tutto l’anno a prendere le misure del nostro corpo e a capire i punti di pressione, dove lo vogliamo più stretto, dove lo vogliamo più largo, facciamo prove su prove. Francesco e Nadia erano i miei angeli custodi: negli ultimi quindici anni sono stati loro a fare tutti i miei costumi su misura, cercando di darmi l’assetto migliore in ogni competizione, la teflonatura più efficace.

I costumoni aiutavano gli atleti, è vero. Ma erano soprattutto utili agli atleti dal fisico più pesante, perché il poliuretano favoriva la galleggiabilità. Per un fisico come il mio la differenza non era così evidente. Tant’è che, per esempio, a Eindhoven 2008 ho fatto il record del mondo nei 400 stile libero con 4’01”53 senza costumone, gareggiando contro avversarie che lo indossavano. Ci fu una polemica sui record battuti con i costumoni, ma era infondata. Come se contestassimo il vantaggio ottenuto ora dai nuotatori grazie allo scalino sul quale poggiare i piedi montato sul blocco di partenza. Ai blocchi noi avevamo una lastra piatta, inclinata, e basta. Chiaro che lo scalino aumenta la spinta, ma nessuno si pone il problema della differenza tra i risultati ottenuti prima e dopo lo scalino.

Alcuni record, come il mio nei 200 stile libero del 2009, sono stati ottenuti all’epoca dei costumoni. Ma quasi tutti quei record, considerati imbattibili, nel tempo sono stati battuti. Mentre il mio, a distanza di quasi quattordici anni, è ancora lì.

Da allora, dopo aver provato invano a battere il mio record del mondo, alcune ragazze uscivano dall’acqua e la prima cosa che dicevano ai cronisti era vabbè, ma quel record la Pellegrini l’ha fatto con il gommato. Perché non si permettono di dire la stessa cosa di Michael Phelps? Avevo ventun anni, ero nel pieno del mio picco prestativo (che per una donna va dai venti ai ventiquattro anni), quel costume non l’avevo inventato io. Era partito dall’America, neanche dall’Italia. Ho vinto e rivinto con quei costumi, prima di quei costumi e dopo quei costumi, direi che la scusa del gommato non funziona più.

Primo o poi lo batteranno quel record, forse addirittura quando questo libro uscirà sarà già stato battuto. Vorrei soltanto che la ragazza a cui toccherà si ricordi quanto quel record sia stato importante e longevo. Che ne abbia rispetto.

Sono sempre stata una dormigliona, fin da piccola. I miei genitori raccontano che dove mi mettevano dormivo. Il sonno è la mia salvezza e la mia arma segreta. Qualche volta quando uscivo dall’acqua ed ero così stanca che non riuscivo neanche a parlare, quando i muscoli avevano dato tutto e sapevo che dopo poche ore avrei dovuto ricominciare, un nuovo allenamento o un’altra gara, allora semplicemente dormivo. Mi mettevo addosso tutto quello che avevo, tuta, calzini, una felpa con il cappuccio tirato sulla testa, e bardata in quel modo mi infilavo sotto le coperte. Mi addormentavo subito, protetta, calda.

Dormivo anche due o tre ore e nel sonno sentivo il mio corpo che pian piano recuperava l’energia. Sprofondati in quel buio silenzioso e caldo i miei muscoli si rigeneravano. Era come attaccare la spina alla presa della corrente. Una sensazione bellissima. Non mi svegliavo fin quando il mio corpo non mi diceva che era pronto. A volte aprivo gli occhi e sentivo che mi suggeriva aspetta, ancora un altro pochino. E io lo accontentavo. Quando mi svegliavo ero di nuovo forte. Dormivo anche dopo le batterie delle gare. Di solito la mattina si gareggiava alle dieci o alle undici. In quel caso verso mezzogiorno pranzavo, e se avevo la fortuna che le semifinali erano alle sei di sera dall’una alle tre e mezzo dormivo.

Ma anche adesso che non sono neanche lontanamente così stanca sento la necessità di dormire tanto. Sette, otto ore per notte. Se non metto la sveglia o se non viene uno dei miei cani a leccarmi la faccia sono in grado di dormire fino a tardi la mattina. Non è una debolezza, o una resa. Al contrario il sonno è una parte importante della mia vita. Non ho mai considerato dormire una perdita di tempo. Dormire bene mi serve per vivere bene e nuotare bene.

Penso che galleggiare e dormire abbiano qualcosa in comune. Forse sono una brava dormitrice perché sono bravissima a galleggiare. L’acqua e il sonno sono due dimensioni che si somigliano. Mi piace essere sospesa, cullata, galleggiante. Mi piace che la mia determinazione, il coraggio, la testardaggine siano contenuti in una forza buona, qualcosa in cui crogiolarmi, di cui mi fido. Avvolta in una coperta o protetta dall’acqua, sento la mia energia in pace, nel posto giusto. In quell’abbraccio, del sonno o dell’acqua, sviluppo una frequenza emotiva lenta, una riflessione silenziosa.

Nel tempo del sonno, scardinato dal tempo che scorre, in questo tempo rubato e felice, io sogno. Quasi tutti sogni scemi, frutto dell’ansia prima delle gare. Sogno che mi si rompa il costume davanti a tutti, di scivolare sul blocco, di partire prima dello starter. Sciocchezze. Una volta però ho fatto un sogno che mi ha salvato la vita. In un periodo in cui non riuscivo a superare un problema enorme, è stato quel sogno a tirarmi fuori dai guai. Ma ci arriviamo.

Non sono stata una bambina prodigio. Nuotavo nella piscina dell’associazione sportiva Serenissima, alla Gazzera, un sobborgo di Venezia. Vicino a Spinea, dove abitavo. Nelle gare di nuoto le categorie giovanili sono divise in Ragazzi primo anno, Ragazzi secondo anno, Juniores primo anno, Juniores secondo anno, Cadetti primo anno, Cadetti secondo anno e categoria Assoluta. Quando sono passata all’Assoluta non ero la più forte del mio gruppo, c’erano due ragazze che mi stavano davanti, le rincorrevo sempre. Non ero sicura delle mie potenzialità, nessuno intorno a me lo era.

A dodici anni ho cambiato allenatore. Massimiliano Di Mito ha preso il posto di Elena Piatto. Il primo anno con Max alla Serenissima abbiamo fatto tutti quanti un grosso salto di qualità, ma ci sono voluti due anni prima che mi facessi davvero notare, prima che io stessa capissi che quello avrebbe potuto essere il mio destino. È successo in pochi mesi, quei mesi nei quali di colpo smetti di essere una bambina e diventi una donna. A quattordici anni, dopo essermi allungata, arrotondata, dopo che muscoli e carne si erano spostati così in fretta che mi era sembrato fosse accaduto in una sola notte, sono diventata più o meno come sono adesso.

Sono alta 1 metro e 79 e ho il 41 di piede (il 40 se si tratta di scarpe con il tacco). Niente di spropositato per una nuotatrice. Ho una muscolatura lunga. Pur avendo fatto moltissima palestra, con i pesi e fin da piccola, non sono mai riuscita a ottenere le forme definite di certi muscoli, gli addominali scolpiti. Mi dispiaceva, mi impegnavo così tanto. E adesso, a distanza di poco più di un anno dal mio ritiro dall’agonismo, sono praticamente senza muscoli. Ma è una questione fisiologica, sono fatta in questo modo. E il bozzolone da culturista che colpisce l’immaginazione di tutti non è necessariamente più potente di un muscolo lungo. Nel nuoto poi non conta molto la forza netta, è soprattutto una questione di leve. Un rapporto tra peso e potenza, tra quanto galleggi e quanta spinta riesci a imprimere all’acqua. Puoi essere fortissima fuori dall’acqua, ma se nuoti nel modo sbagliato la tua forza non serve a niente. È il solito paradosso del nuoto. Dal momento che hai a che fare con un elemento diverso dall’aria cambiano le regole.

Non ho mai contato sulla forza, come le nuotatrici di adesso. Ma sulla leggerezza, la trazione anteriore, le braccia. Le nuotatrici oggi si allenano per fare più affidamento sulla spinta delle gambe e quindi i corpi sono più robusti, muscolosi. Adesso anche le duecentiste come me sono più massicce, squadrate. Io appartengo alla generazione precedente, quella dei corpi affusolati.

Non sono mostruosamente forte a livello fisico, ma ho due superpoteri e il primo l’ho già detto: il mio corpo è naturalmente giusto per il nuoto, perché ho un’ottima galleggiabilità. È una strana dote, difficile da definire. È quello che accade a un tappo di sughero se cerchi di spingerlo sul fondo di un contenitore pieno d’acqua. Malgrado tutti gli sforzi torna sempre in superficie. Sono una specie di turacciolo, ho le ossa leggere e i muscoli adatti a scivolare sull’acqua. Ma non basta, ovviamente. Il nuoto è uno sport bastardo, ci vuole pochissimo per perdere l’allenamento. Per nuotare bene e andare veloce devi sempre rimanere in acqua. Prendere la residenza in quell’elemento, farlo diventare la tua casa. Tra acqua e nuotatore esiste un equilibrio instabile che va continuamente ricontrattato.

Quell’anno, mentre il mio corpo di quattordicenne si allungava e i muscoli si rafforzavano, ho iniziato a rendermi conto di avere un altro superpotere: una sovrumana capacità di sostenere allenamenti durissimi. Incomparabilmente più alta rispetto a quella delle mie compagne. Sono resistente alla fatica e non mi fermo mai. La fatica mi esalta e questo mi è stato chiaro fin dall’inizio. Per avere una carriera lunga, per ottenere risultati bisogna non solo reggere la fatica ma amarla, abbracciarla. Sentirsi vivi quando i muscoli bruciano, godere nel sopportare un po’ più di quanto sia sopportabile per gli altri. È difficile spiegarlo ma per me il sacrificio è un modo di provare piacere. Mi piace proprio. Con la stessa intensità con cui detesto tutto quello che non capisco, quello che si trasforma davanti ai miei occhi, che ha una consistenza instabile. Le ambiguità, i trasformismi mi innervosiscono e mi spaventano. Mi spaventa quello che non riesco ad affrontare perché sguscia e cambia pelle davanti ai miei occhi. Non sono per niente brava a fronteggiare le faccende che hanno bisogno di astuzia, mi faccio sempre fregare da chi non segue le regole. Non ho mai sviluppato la capacità di adattarmi all’incoerenza, di smascherare le bugie. Ma datemi fatica fisica, sudore, muscoli che crepitano per lo sforzo e io non mi tirerò indietro mai. Datemi un avversario, datemi una sfida e per superarla io darò tutto quello che ho e anche un po’ di più. Qualsiasi sfida, contro chiunque. In palestra, nelle ripetute, io gioco sempre contro qualcuno.

Max, il mio allenatore alla Serenissima, se ne è accorto subito. Che reggevo i carichi di lavoro e avevo questa fame di sfide. È così che ho cambiato passo e ho iniziato a pensare che il nuoto potesse essere la mia vita. Max aveva una ventina d’anni più di me, mi fidavo molto di lui. È stato il mio primo vero allenatore. Con lui ho cominciato anche ad allenarmi due volte a settimana prima di andare a scuola. Quei giorni mi svegliavo alle cinque. Mia mamma mi preparava la colazione, le fette biscottate con la marmellata già spalmata così guadagnavo tempo. Me le ficcavo in bocca, poi lei mi accompagnava in piscina. Se c’è una cosa che non rimpiango è quella sensazione di buttarsi in acqua mentre hai ancora addosso il tepore del sonno. Mi tuffavo senza indugi, per non soffrire. D’inverno iniziavo a nuotare che fuori era ancora buio. Vasca dopo vasca vedevo attraverso le vetrate la notte ritirarsi e arrivare l’alba. Quando la luce arancione indicava che il sole era sorto allora sapevo che la tortura stava per finire.

Perché quelle mattine con il freddo e la fatica di alzarsi con il buio erano una vera tortura. Una tortura riservata solo a me. Ero l’unica ad avere quei due turni di allenamento in più. Non sono neanche sicura che fossero così cruciali. Forse lo stress era maggiore del risultato che portavano. Arrivavo al fine settimana piangendo, ma non mollavo.

Fra le cose introdotte da Max due invece mi hanno sicuramente cambiato: la palestra e l’allenamento tecnico della domenica mattina. In palestra andavamo la sera, dopo il nuoto. Tra i due allenamenti tornavamo a casa. Mia mamma mi preparava dei panini con la bresaola e il grana che mangiavo sopra i libri di scuola aperti. Alle sette e mezzo ci ritrovavamo tutti in palestra. Facevamo anche pesi, nonostante fossimo piccoli. Mi piaceva un sacco. Petto, gambe, dorsali. Puoi imparare molto dagli altri mentre si allenano. Allenarsi con una persona più forte ti spinge a superare i tuoi limiti. Allenarmi con gli uomini, sia in piscina che in palestra, mi è sempre piaciuto tanto.

La domenica mattina avevamo l’allenamento tecnico. Max aveva costruito uno strumento, un carrellino che si muoveva su e giù lungo il bordo della vasca. Con un braccio che si immergeva nell’acqua al quale era attaccata una telecamera che riprendeva la nostra nuotata. Erano i primi anni novanta, non esisteva la tecnologia di adesso, le telecamere subacquee, le GoPro. Ma l’attrezzo che aveva inventato Max funzionava benissimo. Quando uscivo dalla vasca potevo vedere le riprese sul computer e analizzare ogni gesto. Virate, partenze, ingresso. Grazie a quelle riprese ho impostato la mia nuotata nel modo giusto, soprattutto quella sott’acqua.

Vedo tanti ragazzi oggi nuotare male, e se nuoti male consumi molta più energia e spingi poco. Per nuotare bene a stile libero è necessario prima di tutto controllare alla perfezione la passata del braccio. Il braccio va allungato il più possibile in avanti, la mano supera gli occhi e scivola sull’acqua. Bisogna poi cercare un rollio di spalla il più ampio possibile. Per rollio si intende il movimento di rotazione del busto sull’asse longitudinale, quello che manda avanti la spalla, come scodinzolando. Poi devi trazionare, muovendo solo l’avambraccio per formare una L sott’acqua con il braccio piegato. È un movimento difficile perché innaturale, quando passi il braccio davanti alla testa verrebbe spontaneo buttare il gomito verso il basso. Invece deve rimanere in alto. Per ultimo bisogna spingere fino in fondo il braccio sott’acqua, dritto accanto al fianco, per darsi la spinta. Quando il braccio spinge sott’acqua la spalla affonda, per poi risalire quando il braccio recupera. Però il rollio, come dicevo, non parte dalla spalla, ma dal busto. È un elemento importante della nuotata, perché un buon rollio evita lo sforzo della spalla e ti aiuta a girarti di lato per respirare, oltre ad aumentare la potenza della bracciata.

Max ci ha fatto patire le pene dell’inferno perché imparassimo questa trazione a L sott’acqua. Ci montava sulle mani dei palettoni enormi che arrivavano fino a metà avambraccio, accrescendo la resistenza dell’acqua perché la sentissimo meglio. Io li odiavo con tutta me stessa.

Per le gambe invece non esiste un allenamento specifico, una tecnica da imparare. Tranne che alla partenza, all’ingresso in acqua, e nelle virate, dove le gambe devono mantenere un angolo preciso. Le gambe, a differenza delle braccia, le metti dentro nuotando. Seguono il movimento, non lo determinano. Io per esempio ho una specie di tic nella gambata. Da sempre, perché mi dà equilibrio. Faccio due colpi e poi incrocio le gambe, due colpi e poi incrocio. Uno, due, tic. Uno, due, tic. Nelle riprese delle gare si vede benissimo. Non hanno mai cercato di correggermi perché era il modo grazie al quale ottenevo stabilità.


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