Descrizione
Prologo
«Resta qui, River. Capito?»
Accesi l’aria condizionata sul pick-up e annuii. Capito.
Mio padre si sbatté alle spalle la portiera dal lato del conducente e, insieme alla recluta, si avviò nel bosco, trascinando il sacco con dentro il cadavere del primo dei quattro messicani morti da seppellire.
Attesi che sparissero alla mia vista e saltai giù, facendo scrocchiare l’erba secca sotto i piedi.
Gettai la testa indietro e inspirai a fondo. Amavo l’aria aperta, amavo stare in sella dietro a mio padre, amavo essere ovunque purché lontano da chi si aspettava che parlassi.
Mi diressi verso il retro del pick-up, spezzai un lungo ramo di un cedro lì vicino e iniziai a colpire le canne intorno tanto per fare qualcosa. Spedire morti stecchiti al barcaiolo poteva richiedere ore tra scavo, spargimento di calce e copertura, così mi avviai tra gli alberi e mi misi in cerca di serpenti nell’erba alta.
Persi la cognizione del tempo, quindi, quando rialzai gli occhi, mi ritrovai nel bel mezzo della foresta. L’aria tutt’intorno era completamente ferma e io ormai del tutto smarrito.
Merda. Le istruzioni di mio padre erano state chiare come il sole. Resta qui, River. Capito? Diavolo, mi avrebbe ucciso, se l’avessi costretto a cercarmi. Le regole per lo scarico dei cadaveri erano semplici: scava, molla, smamma.
Guardandomi intorno, individuai una collina e decisi di raggiungerla per avere una panoramica dall’alto. La mia intenzione era di ritrovare il pick-up prima che tornasse mio padre e si incazzasse.
Sfruttando i tronchi degli alberi per sorreggermi, risalii quell’altura scoscesa e, una volta in cima, cominciai a spazzolare via fango secco e rimasugli di corteccia dai jeans. Quando furono abbastanza ripuliti, scrutai l’orizzonte e mi accigliai. A circa duecento metri da me c’era una cazzo di recinzione gigantesca. Rimasi a bocca aperta dinanzi alle sue dimensioni: era più alta e più ampia di qualsiasi altra cosa avessi mai visto prima. Mi ricordava una prigione, con tanto di rotoli di filo spinato in cima. Mi guardai intorno, ma non c’erano segni di vita, niente che si vedesse al di là della recinzione se non altra foresta. Mi chiesi cosa fosse. Eravamo in mezzo al nulla, a chilometri e chilometri dalla periferia di Austin, a chilometri e chilometri da tutto. La gente non si spingeva mai fuori città fino a qui, ci pensava due volte. Mio padre diceva sempre che qui succedevano solo cose brutte: morti, sparizioni, violenze e altri fatti inspiegabili. Era così da anni, ecco perché mio padre aveva scelto proprio questo luogo per lo scarico.
Ormai totalmente distratto dalla necessità di tornare al pick-up, mi avviai nell’erba alta verso la recinzione. Un’eccitata curiosità mi si agitava dentro. Amavo andare in giro a esplorare, ma trasalii dalla paura quando, all’improvviso, qualcosa al di là del muro attirò la mia attenzione. C’era qualcuno.
Restai impalato, concentrato sulla sagoma sottile e smunta di una persona, un’esile ragazzina con addosso una lunga tunica grigia e i capelli tirati indietro e fermati in modo bizzarro dietro la nuca. Sembrava avere circa la mia età. Forse qualche anno in meno.
Con il cuore impazzito nel petto, mi avvicinai a lei, a quel corpicino fragile, rannicchiato tra le radici di un grande albero, che navigava nella stoffa scura dell’abito. Le spalle erano scosse dal pianto, il corpo sussultava per i singhiozzi, ma lei non emetteva suono.
Mi inginocchiai e infilai le dita tra le maglie della recinzione. Avrei voluto dire qualcosa, ma non lo feci – non riuscivo a parlare con nessuno a parte Kyler e papà. E neanche tanto spesso.
Chiusi gli occhi e mi concentrai nel tentativo di distendere la gola, lottando per liberare parole che non volevano mai uscire. Una battaglia in cui mi cimentavo sempre ma che vincevo raramente.
Aprii la bocca, provando a rilassare i muscoli facciali, quando la bambina si irrigidì e mi guardò negli occhi. Le mie dita scivolarono via dalla rete e barcollai all’indietro. Aveva enormi occhi azzurri venati di rosso. Si portò una piccola mano sul viso per asciugarsi le guance bagnate; le tremava il labbro e ansimava.
Dalla mia nuova posizione, riuscii a vedere che aveva i capelli neri come il carbone e la pelle candida. Non avevo mai visto nessuna come lei prima di allora. Non che conoscessi tanti ragazzini della mia età, dopotutto; nessuno ne conosce, se cresce in un club. C’era Kyler, naturalmente, ma lui era il mio migliore amico, un fratello del club.
Di colpo, la ragazzina fu presa dal panico: il suo viso sbiancò, quindi lei scattò in piedi e si voltò verso il bosco. A quel suo movimento, mi precipitai di nuovo verso la rete, facendone cigolare il metallo al contatto. La ragazzina si bloccò, aggrappandosi a un ramo mentre mi guardava.
Chi sei?, chiesi a gesti in tutta fretta.
La ragazzina deglutì nervosa e inclinò il capo. Con cautela, avanzò in silenzio, un’evidente curiosità su tutto il visetto. Fissava le mie mani, mi guardava fare segni, le sopracciglia aggrottate.
Più si avvicinava, più avevo il fiato corto e mi sentivo accaldato. Portava i capelli color inchiostro legati stretti dietro la testa e coperti da uno strano fazzoletto bianco. Non avevo mai visto nessuno vestito così prima. Il suo aspetto era davvero strano.
Quando si fermò, a circa due metri da me, trattenni il fiato, contrassi gli addominali e mimai di nuovo: Chi sei?
Non parlò, mi fissò con occhi vuoti.
Accidenti! Non capiva la lingua dei segni. Non molti la conoscevano. Non ero sordo, ma non riuscivo a parlare. Ky e papà erano gli unici a tradurla per me, ma in quel momento ero solo. Con un altro profondo respiro, deglutii e mi sforzai al massimo per allentare la gola. A occhi chiusi, pensai a quello che volevo chiedere e, con un’espirazione lenta e controllata, provai con tutto me stesso a parlare.
«C-c-chi s-s-sei?»
Indietreggiai per lo shock, gli occhi sbarrati. Prima di allora non ero mai riuscito a comunicare con un perfetto sconosciuto. Le mie mani fremevano di eccitazione. Ero riuscito a parlare a quella ragazzina! Ero riuscito a parlare, questo faceva di lei la numero tre.
Spinta dalla curiosità, la ragazzina si avvicinò ancora. Si inginocchiò a terra a pochi passi da me oltre la recinzione, la testa inclinata da una parte, e mi fissò con una faccia buffa.
I suoi grandi occhi azzurri non mi lasciarono un attimo. La guardai mentre mi scrutava dalla testa ai piedi. Riflettei su cosa doveva vedere: capelli neri e spettinati, T-shirt nera e jeans, pesanti stivali neri e bracciali di pelle ai polsi con sopra il simbolo degli Hangmen.
Quando i suoi occhi incontrarono i miei ancora una volta, le sue labbra sembrarono curvarsi appena in una specie di piccolo sorriso. Piegai il dito a uncino, indicandole di avvicinarsi di più.
Si girò in fretta, controllando i dintorni. Assicuratasi di essere sola, si alzò – lentamente, come prima – e si avvicinò di poco, lasciando una scia nel fango con l’orlo della tunica.
Ora che me la trovavo di fronte, non potei fare a meno di notare di nuovo quanto fosse minuta. Io ero alto, quindi dovette alzare la testa per guardarmi. Mentre mi premevo premevo contro la recinzione, mi si annodò lo stomaco. Sembrava così stanca e i suoi occhi azzurri si strizzavano ai lati, mentre avanzava verso di me, come se stesse soffrendo.
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