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Teriaca

Alla ricerca di una Teriaca che curi tutti i mali, o che almeno riesca a illuderci. In un’afosa estate all’inizio degli anni Duemila la vita di un gruppo di ragazzi di una cittadina alla periferia nord di Milano scorre lenta ma inesorabile. Nel tentativo di combattere l’ignavia e l’apatia che lo immobilizzano, un adolescente tenta di venire a capo della sua identità in un mondo animato da figure sfuggenti, indefinite. Un percorso caotico e accidentato, che si snoda attraverso il complicato rapporto con il padre e con l’amico Alessandro, una sorta di mentore con innate capacità manipolatorie. Un’inesorabile discesa nel magma interiore, un cammino obbligato dalla ricerca della verità. Come crescere sani in un mondo malato?

Informazioni aggiuntive

Editore

Data di pubblicazione

26 lug. 2022

ISBN-13

979-8839980006

Lingua

Italiano

Formato

Copertina Flessibile

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COD: 8417 Categoria: Tag: Product ID: 21207

Descrizione

1. Alessandro

 

Alessandro aveva ventinove anni, ma a me, nel pieno dell’adolescenza, sembrava molto più grande. Aveva gli occhi piccoli e vicini, uno verde e uno nero e capelli castani lunghi fino alle spalle. Novate era tutto il mio – il nostro – mondo, un paesino a nord di Milano a metà degli anni zero, dove tutto era uguale a dieci, venti, cento anni prima.

Due bar, tre chiese, un numero imprecisato di banche e assicurazioni. Un parco, delle panchine: un ammasso di legno marcio disposto in maniera casuale. Il nostro rifugio dalle cose mobili. L’unico modo per arrivarci era attraverso una minuscola porta in metallo rossa posta in una traversa della via principale del paese, da cui si poteva passare solo uno alla volta. Superata la porta si accedeva a questo piccolo giardino appartenente a un circolo di partigiani, che nelle belle giornate si affollava di anziani, vino bianco, giochi di carte, sigarette e bestemmie. Superato il giardino, procedendo sulla destra si prendeva un vicoletto in ghiaia fiancheggiato da un muro su cui troneggiava la scritta Novate Antifascista, poi la stradina si apriva in uno spiazzo verdeggiante: sulla sinistra l’area cani, accanto la zona giochi per bambini e in fondo, dietro a una schiera di alberi, le panchine, che chiamavamo la croce per via di un ciottolato che a terra formava appunto una croce.

«Margherita è un simbolo» mi disse molto serio Alessandro un pomeriggio afoso, dopo avermi passato una canna. «Non c’è nessun mondo in cui tu non avrai una Margherita. Per quelli come noi ci sarà sempre una Margherita. Sono simboli che ci aiutano a creare un’identità. Non essere legato ai simboli, i simboli vanno abbattuti, se necessario. Quello che resta sei tu con la tua identità da preservare, non puoi permettere che i simboli facciano di te quello che non vuoi essere, non dare troppo potere ai simboli, cerca solo di carpirne il significato, cerca di svuotarli di ogni senso e sfruttane ogni goccia di succo».

La sua gestualità era misurata, ogni movimento naturale, la postura impeccabile, nonostante la precarietà di quelle panchine per la maggior parte senza schienale. Tentavo di trovare una posizione comoda, poggiavo i palmi delle mani rivolti all’indietro, mi raddrizzavo, incrociavo le braccia. Diedi un lungo tiro alla canna, tossii.

«Non lo so, è sbagliato» provai a ribattere. «Mi sembra di sfruttarli e basta, è troppo egoista, e io non voglio essere questo».

«Tu cosa pensi di essere?» incalzò lui. «Non sei anche tu solo un simbolo per Marghe, per tua madre, per me? Per qualunque figura graviti intorno al tuo universo. Lo sono anche io per Margherita, fidati, io sono un simbolo. Sono il simbolo».

D’istinto alzai gli occhi al cielo e tutto si fece bianco, ovattato.

Il mio sguardo volse verso il muro coperto di tag alla nostra destra, poi ancora sugli alberi disposti a semicerchio come una fortezza intorno a noi.

«Stasera venite da me» disse prima di alzarsi e andarsene.

Appena si voltò lanciai per terra la canna. Tornai a casa con la consapevolezza tipica di quei giorni e provai a scrivere una poesia. Si chiamava Uccidi i simboli, la gettai nel cestino appena conclusa.

 

2. Risiko

 

Ale abitava in un complesso di case popolari costruiti negli anni Settanta alla periferia del paese, una periferia alla seconda. Tra quegli appartamenti si poteva trovare qualsiasi categoria umana: dallo spacciatore con l’arredamento in stile Casamonica ai professori di liceo divorziati sull’orlo del suicidio, fino alle numerose famiglie di pugliesi che occupavano intere scale, in otto in un monolocale con le grigliate sul terrazzo condominiale che iniziavano il sabato e finivano il lunedì mattina.

Il suo appartamento era al terzo piano. All’ingresso c’era un piccolo disimpegno che dava sul bagno, sulla sinistra la sala che defluiva in una minuscola cucina, a destra la sua stanza, minimale e ordinata: letto, comodino e una scrivania. Il rifugio di un latitante. La zona giorno aveva un divano, un vecchio televisore con il tubo catodico e uno stereo poggiato a terra. Sulla parete era appesa una fotografia incorniciata di Fidel Castro. Accatastate in un disordine studiato, in un angolo vicino alla porta finestra che si affacciava sul cortile interno, decine di libri. I muri erano ricoperti di vecchie armi, coltelli delle più svariate forme e dimensioni erano esposti su mensole in rigoroso ordine crescente dal basso verso l’alto, le pistole, perlopiù riproduzioni di fine Ottocento, erano fissate tramite chiodi che poggiavano sul grilletto in un equilibrio precario.

«Chi vuole farsi dieci anni di galera?» Ale accolse me e Margherita sulla soglia della porta, in mutande, con l’inno di Mameli in sottofondo e al suo fianco Livio, un vecchio amico proveniente da qualche luogo remoto nei Balcani.

Per terra scorsi una bottiglia di rum vuota e la riproduzione di una bomba a mano della Seconda guerra mondiale che il padrone di casa amava sfoggiare in queste occasioni.

«La lotta armata! Uscite dal vostro letargo, imbracciate i fucili, cazzo! Svegliate le coscienze, riprendiamoci tutto, riprendiamoci le nostre case, le nostre radici! Io prendo le armate rosse… chi vuole farsi dieci anni?»

L’intento era quello di giocare a Risiko, una delle grandi passioni di Ale, ma l’alcool e il suo entusiasmo fuori controllo ci fecero desistere di lì a poco.

Qualcosa lo turbava e dopo un quarto d’ora circa di canti partigiani alternati a classici della musica italiana, mi prese da parte.

«È finito il bere» disse. «Vieni con me, andiamo a prenderlo».

«Effettivamente, da dove cazzo veniamo?» esclamò fermo a un semaforo lampeggiante, come colto da un’epifania. La bottiglia di rum che avevamo comprato poco prima era già a metà e vagavamo per il paese alla ricerca di qualcosa. Alessandro non guardava la strada, aveva gli occhi fissi sul mio volto, anche se certamente non fissava proprio me.

«Guarda la musica, tutta la merda che vi ascoltate, cosa rimarrà? Un cazzo! È tutta roba importata, niente che sia realmente vostro, niente che abbia la vostra faccia, la vostra effige. Cosa scriverete sulle vostre tombe? Non avete identità, non avete niente di niente. Tu da dove vieni?

Lo sai da dove vieni?» Ora guardava lo specchietto retrovisore, sembrava sul punto di piangere.

«Però, sai cosa, cazzo? Tu hai la dignità, la dignità di non avere origine, di non avere antenati, sei un albero senza radici, ed è questa la grande risposta a tutto. Queste sono le cose su cui devi riflettere, perché non pensi, non pensi a un cazzo tu, non pensi a un cazzo! Tu sei un ologramma, sei un albero senza radici proiettato in un parcheggio di un supermercato. Non esisti, sei niente, ti si può passare attraverso».

Brillava nella notte come un dio. «Sei bellissimo» gli dissi.

Lui mi prese la testa e se la poggiò al petto. «Non siamo un cazzo» continuò. «Non sei e non saremo mai un cazzo e voglio che te lo ricordi ogni giorno quando ti svegli e maledici tua madre per averti partorito! Ti voglio bene».

Mi sentivo fragile, così fragile che avrebbe potuto spezzarmi in mille pezzi e ricompormi a casaccio, perdermi nelle diecimila pieghe della mia personalità e riprendere tutto da capo. Continuava a piovere, ma lui si ostinava a non far andare il tergicristallo, così eravamo immersi in questa bolla, in questo non luogo, un aeroporto verso il nulla.

Domani ci pentiremo, feci per dire, ma lui non ascoltava, stava guardando oltre. Io ero un simbolo, non potevo essere che un simbolo, mi sentivo solo un simbolo, dalle cellule morte, dagli arti stanchi. Sentivo la pioggia, sentivo la radio gracchiare un brano di musica classica. Odiavo profondamente tutto questo, sentivo di non appartenere a quel luogo né a nessun altro, mi sentivo benissimo.

«Guarda che non devi per forza avere ambizioni, eh? Non è obbligatorio, non sentirti obbligato, non ascoltare gli altri e non ascoltare me, cerca solo di accettarti, di volerti, di desiderarti. Devi masturbarti fino a stare male, devi conoscere ogni tua perversione e farla tua, e devi farne una statua, e quella statua devi sognartela la notte e scopartela, scopati la tua statua! Scopati quello che è veramente tuo e quello che veramente vuoi, e se non vuoi scopare liberissimo di non farlo, nessuno ti costringe a essere ambizioso e nessuno ti costringe a scopare!»

Mi girava la testa, prigioniero di quell’auto, di un’adolescenza programmata e di un dio che non aveva mai corrisposto il mio amore.

«Se torno a casa muoio» accennai divertito.

Aveva smesso di piovere e riuscivo a vedere fuori dal finestrino con più chiarezza. Non sapevo che ore fossero, ma stava sorgendo il sole e faceva già molto caldo. Tolsi le scarpe, cercai il cellulare senza successo, cercai di darmi una forma, una logica, e di dare un contenuto ai pensieri, mai così astratti e bellissimi, di un nero intenso, pieno di sfumature.

Quando rientrammo in casa Margherita non c’era, era rimasto Livio seduto composto sul divano a fissare il vuoto. Varcato l’ingresso ci saltò addosso agile come un gatto, nonostante la stazza, abbracciandoci e baciandoci come se fossimo tornati da una guerra.

Ale gli porse l’ultimo goccio di rum rimasto nella bottiglia.

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