Descrizione
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Guidando verso nord da Minneapolis, cercavo di non guardare nello specchietto retrovisore ciò che mi stavo lasciando alle spalle. Concentrati su quello verso cui stai andando,mi dicevo. Ero diretta a Wharton, una cittadina turistica sulle rive del lago Superiore. Sarebbe stata la mia casa per l’estate mentre resettavo la mia vita. Se avessi saputo a cosa andavo incontro, sarei tornata indietro? Mi faccio spesso questa domanda.
All’epoca, però, sapevo soltanto che avrei dedicato i tre mesi successivi a fare kayak fra le isole di uno splendido arcipelago, lasciando che la grande distesa d’acqua mi trasmettesse il tipo di pace che solo lei riesce a darmi. Le popolazioni native di questa zona consideravano il lago una divinità e, a mio parere, non avevano tutti i torti. Il lago Superiore aveva il potere di calmarmi mentre ascoltavo le onde lambire senza sosta la sponda rocciosa. Ne avevo bisogno, dopo i tre anni da incubo che avevo appena passato. Fui attraversata da un brivido, ma scacciai quei pensieri e mi focalizzai su quanto mi si presentò davanti quando girai l’angolo e iniziai a scendere verso la città.
A Wharton, a parte i discreti cartelli del wi-fi nella maggior parte dei locali pubblici, nulla indicava che la città fosse entrata nell’era moderna. Al contrario, ti imbattevi in un isolato dopo l’altro di dimore vittoriane con balconi e piattaforme di osservazione affacciati sul più capriccioso dei Grandi Laghi, il cui umore poteva passare in un istante da calmo a micidiale. Niente grandi magazzini o catene alberghiere, niente fast-food, niente edifici alti più di tre piani, niente vita notturna. Solo minimarket a conduzione familiare, ristoranti gestiti da residenti, piccole banche, negozi con esposte opere di artigiani locali, boutique di abbigliamento e farmacie. Quella era Wharton. Era come tornare indietro nella storia, ma con tutte le comodità moderne. Le persone affluivano laggiù, soprattutto in estate e in autunno, solo per farsi un’idea di cosa significasse viaggiare nel tempo.
Ero là su pressante richiesta della mia amica Kate, la cui famiglia viveva a Wharton da generazioni. La loro casa era uno degli alberghi più belli della città, Harrison’s House, uno splendido capolavoro vittoriano situato sulla collina che dominava il lago.
Avevo intenzione di passare del tempo con lei durante il mio soggiorno, ma non avrei alloggiato in quella stupenda dimora che gestiva insieme al cugino Simon e a suo marito Jonathan. Nonostante lo sconto che erano disposti a concedermi, sistemarmi da loro per tutta l’estate andava comunque oltre le mie possibilità economiche. E, d’altra parte, non volevo privarli dei guadagni dell’alta stagione che stava per cominciare. Così mi avevano trovato un posto al LuAnn’s, un ristorante centenario che in passato era stato una pensione, con camere al piano di sopra che venivano affittate a settimana, al mese o per tutta l’estate, a prezzi che parevano risalire a un’epoca più modesta.
Erano questi i pensieri che mi frullavano per la testa mentre scendevo la collina, osservando la città e il lago che si stendevano davanti a me. Le barche con le vele spiegate costellavano l’acqua, e i traghetti entravano e uscivano dal porto, diretti verso le isole che punteggiavano quella zona del lago. Solo una di loro, l’Ile de Colette, era abitata; le altre erano selvagge. Vedevo le persone che lavoravano sulle imbarcazioni ormeggiate ai pontili, per prepararle all’imminente stagione.
Era la settimana prima del Memorial Day, perciò i turisti non erano ancora arrivati in massa, ma alcuni passeggiavano lungo le strade e si avventuravano nei negozi e nei ristoranti, che erano tutti aperti. Superai Harrison’s House e mi ripromisi di chiamare Kate quando mi fossi sistemata, poi mi diressi verso il LuAnn’s. Era una costruzione a tre piani con un rivestimento di legno rosso intenso e finestre a quattro vetri che parevano vecchie come il mondo. Sopra la porta d’ingresso era appesa un’insegna al neon con la scritta aperto. Entrai nel parcheggio.
Una donna che doveva essere LuAnn uscì ad accogliermi, con tanto di leggings leopardati, occhiali oversize, collane vistose e tutto il resto. Poteva avere settantacinque anni circa, forse di più.
«Tu devi essere Brynn». Mi guardò strizzando gli occhi mentre scendevo dall’auto.
«Sì. Tu sei LuAnn?»
Sfoderò un gran sorriso. «La sola e unica. Benvenuta, tesoro». Mi prese sotto braccio. «Ti faccio fare un giro. Alle valigie penseremo dopo».
Varcammo la soglia e fui assalita da una strana sensazione. L’edificio aveva un’aria molto più antica, come se al suo interno gli avvenimenti del secolo precedente fossero ancora sospesi nell’aria. Eppure mi ritrovai in quello che assomigliava a un ristorante degli anni Cinquanta.
Diversi sgabelli rotondi di similpelle rossa erano capovolti su un lungo bancone dal ripiano di linoleum, con dietro quello che chiaramente era un distributore di bibite riconvertito per servire birre alla spina. In un angolo c’era un jukebox. Tavoli circondati da sedie spaiate erano sparsi in due stanze rivestite di pannelli di quercia. Anche i tavoli erano un’accozzaglia caotica: legno, linoleum, piastrelle, rotondi, quadrati e così via.
Le pareti erano tappezzate da ritagli di giornale incorniciati con titoli cubitali sullo sbarco in Normandia, sul primo allunaggio, l’assassinio di Kennedy, il Watergate, l’elezione di Barack Obama e altri eventi che hanno segnato la storia del Paese, raccontando un secolo di vita americana. Esaminai meglio una delle immagini, la foto di un bel giovane davanti alla porta d’ingresso del LuAnn’s.
«Quello è John F. Kennedy junior?», chiesi.
«Un ragazzo adorabile. Era venuto con un gruppo di amici per fare kayak intorno alle isole. Che sfortuna quello che è successo».
Già, una vera sfortuna.
«Questo posto è stato costruito nell’Ottocento e inizialmente era una pensione». Fece un gesto che abbracciò tutta la stanza. «Da allora è stato ristrutturato più volte, ovviamente. Siamo aperti tutto il giorno. Colazione, pranzo e cena. Il soggiorno comprende un pasto al giorno e, se scegli di consumare qui anche gli altri, hai diritto a uno sconto del cinquanta per cento. Gli alcolici sono esclusi, ma puoi aprire un conto e pagarli alla fine del mese insieme all’affitto».
Annuii, guardandomi intorno.
«L’happy hour è alle tre, tutti i giorni tranne nel fine settimana», proseguì. «È un buon modo per conoscere persone in città, se è questo che vuoi. Vengono tutti qui».
«Okay», dissi, memorizzando le informazioni.
Sporgendosi oltre il bancone, staccò un vecchio passe-partout da un gancio. «Andiamo di sopra. Ti mostro la camera. Ti piacerà. È una delle mie preferite».
La seguii attraverso la sala da pranzo verso una porta angusta che, una volta aperta, rivelò una scala lunga e stretta. Salimmo i gradini sconnessi e imboccammo un corridoio con nicchie su entrambi i lati. Non c’erano molte stanze. La mia era in fondo, nell’angolo, accanto a un’enorme portafinestra che dava su una terrazza comune.
Mentre percorrevamo il corridoio, rabbrividii.
LuAnn spinse la porta, mostrandomi una camera spaziosa con pareti giallo chiaro e grandi finestre a ghigliottina su due lati, ciascuna con tende bianche trasparenti che si gonfiavano nella brezza. L’antichità della stanza mi pervase fin nelle ossa. Un secolo di anime che abitano un luogo lascia un’impronta tenace anche molto tempo dopo la loro scomparsa, e là dentro aleggiava ancora. Non in modo negativo, però. Si respirava un’atmosfera serena.
Addossato a una parete c’era un letto matrimoniale con un piumino bianco e la testiera di legno. Il comò, con tanto di specchio curvo e sgabello, sembrava risalire allo stesso periodo. Intravidi il mio riflesso e mi domandai quante donne, in quante epoche, avessero fatto la stessa cosa. Una sedia a dondolo con un largo sedile di cuoio era appollaiata vicino a una finestra, mentre due comode poltrone erano collocate ai lati di un tavolino su cui era posata una lampada d’antiquariato con un paralume di vetro satinato rosa.
Fuori dal bagno c’era un piccolo frigorifero e accanto una graziosa credenza d’epoca, dove una caffettiera a stantuffo aspettava il mattino successivo insieme a due tazze. Il televisore a schermo piatto appeso alla parete riportava la camera nel presente.
«Non ti conviene mangiare sempre fuori», riprese LuAnn. «Ti costerebbe un occhio della testa. C’è un negozio di alimentari a un isolato da qui, lungo la collina. La maggior parte degli ospiti fa scorta di cose come yogurt, formaggio e frutta. Non farti problemi a prendere dalla cucina piatti, posate, bicchieri e tutto il necessario. Basta che tu li restituisca quando hai finito. Vedrai i cestelli dove mettiamo i piatti sporchi del ristorante prima di caricarli nella lavastoviglie. Se ne occupano Gary o Aaron».
«Buono a sapersi».
Sbirciai nel bagno. Solo un water e un lavabo.
«Qui ci sono due docce e una vasca da bagno». Mi guidò lungo il corridoio e aprì prima una porta e poi un’altra, rivelando due bagni piastrellati dotati di docce. Un terzo ospitava una profonda vasca con piedini a zampa di leone.
«Le condividerai solo con un altro residente estivo. Ci sono sei camere in totale e la suite dispone di un bagno completo, quindi la coppia che la occupa per tutta l’estate è indipendente. Restano due stanze per i turisti di passaggio».
Annuii.
«Scoprirai che le persone sono molto educate», continuò. «Nessuno fa docce lunghe. Shampoo, balsamo e docciaschiuma sono disponibili nei contenitori appesi alla parete di ogni doccia. I bagni sono un’altra storia. Le persone amano stare a mollo, cosa vuoi farci? Ho notato che la vasca non viene usata troppo spesso, perciò se ti piace fare il bagno, portati un bicchiere di vino e un buon libro e non preoccuparti della fila».
«Capito». Sicuramente avrei seguito il consiglio.
«Abbiamo anche gli asciugamani, ma non c’è garanzia di trovarne uno quando serve, perciò Mickey’s, in fondo all’isolato, ha tutto l’occorrente: teli, morbidi accappatoi, infradito, piumini. Se preferisci usare prodotti e altri accessori da bagno tuoi, puoi trovare lì anche quelli. La maggior parte è di produzione locale».
Passammo davanti a un’altra scala che saliva verso il terzo livello della casa. «Puoi andare lassù, se vuoi». LuAnn agitò il braccio in quella direzione. «È la nostra camera a castello. Un tempo era una sala da ballo. Ogni tanto il personale si ferma a bere qualche drink dopo l’orario di chiusura. Certe volte più di qualcuno. Lassù ho cinque letti a castello, dove possono dormire per evitare di mettersi al volante ubriachi. La sicurezza prima di tutto, senza essere giudicati dalla sottoscritta».
D’un tratto qualcosa non quadrava. «Aspetta». Feci i conti. «Hai detto che condivido le docce con un altro residente estivo e che la coppia ha un bagno privato. Sono tre camere. Più due per i turisti di passaggio, fanno cinque. Credevo che fossero sei».
Si fece seria. «Esatto. Per ora ne ho fatta chiudere una».
Stavo per chiedere perché, ma non ne ebbi l’occasione. Qualcuno la chiamò dal ristorante e lei si scusò e si allontanò.
Pensando che fosse un buon momento per disfare le valigie, tornai alla macchina, portai i bagagli al piano di sopra e cominciai a mettere in ordine le mie cose.
Una volta finito… E adesso?, mi domandai. Sprofondai in una poltrona e guardai fuori dalla finestra. Era passato così tanto tempo dall’ultima volta in cui e non avevo avuto nulla di cui occuparmi, niente commissioni da sbrigare, niente telefonate da fare, nessuno che dipendesse da me per qualunque cosa, che non sapevo come comportarmi.
Un vago senso di colpa mi fece formicolare la pelle mentre guardavo fuori, verso la strada. Avevo dimenticato qualcosa? Un compito importante da portare a termine? Ragionai freneticamente per un attimo, ma poi me ne resi conto. No. Era davvero finita. Avrei voluto con tutta l’anima che non fosse così, ma lo era.
Presi un fazzoletto dalla scatola sul comodino, mi tamponai gli occhi e mi alzai. Recuperai la borsa, ricordando di prendere il vecchio passe-partout che LuAnn aveva posato sul comò, e uscii chiudendo la porta.
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