Descrizione
Prologo a Sandringham
NESSUNO che non ami la caccia sopra ogni altra cosa spenderebbe troppo tempo sulle coste inospitali del Norfolk, spazzate dal vento gelido del Mare del Nord. Tanto meno penserebbe di comprarci una tenuta e costruirci sopra un castello. Ma Albert Edward, principe del Galles e futuro Edoardo VII, semplicemente Bertie per i famigliari, era una doppietta appassionata e un implacabile cecchino della sventurata selvaggina di passo che nidifica sulle dune dell’East Anglia. Per questa ragione, e forse anche per sentirsi finalmente libero dall’occhiuto controllo di mamma Vittoria, nel 1862 decise di spendere 220.000 sterline per acquistare 8.000 acri di terreno sabbioso destinati, nell’epoca delle comunicazioni di massa, a notorietà planetaria. Sandringham.
L’arrivo del Natale 2019 non lasciava presagire particolari scosse nella placida routine della famiglia reale riunita come ogni anno, secondo una tradizione più che secolare, nella vasta magione al centro della tenuta. In verità, quell’anno la famiglia di Elisabetta non era al completo. Attorno a lei e Filippo c’erano come sempre figli e nipoti, a cominciare da Carlo con la sua Camilla, e poi naturalmente William e Kate con i loro tre magnifici e gioiosamente rumorosi bambini, ma non c’era l’altro nipote, Harry, il prediletto stando alle chiacchiere di Corte, o almeno di sicuro quello che dopo la tragica fine della madre si era guadagnato un posto speciale nella tenerezza e nelle attenzioni della reale Granny. Erano ormai mesi, dalla nascita del loro primogenito Archie, che Harry e la moglie Meghan erano impegnati in una specie di sotterranea guerra d’attrito con il resto della famiglia, particolarmente con la coppia dei duchi di Cambridge. Finiti da un pezzo i fasti dei «Fab Four» inventati da giornalisti compiacenti, era chiaro a tutti che i duchi di Sussex non erano disposti a suonare da secondo violino rispetto a fratello e cognata destinati al trono. Perciò non era certo arrivato come una sorpresa, a fine novembre, l’annuncio che Harry e la sua nuova famiglia avrebbero trascorso le vacanze natalizie in Canada, a Vancouver, con la suocera Doria Ragland.
In trentacinque anni di vita, Harry aveva infranto solo due volte la tradizione del Natale a Sandringham: nel 2007 e nel 2012, in entrambi i casi per forza maggiore, dal momento che era di servizio in Afghanistan come ufficiale dell’esercito britannico. I duchi di Sussex si erano invece doverosamente uniti alla famiglia nei due Natali precedenti, e anzi l’invito esteso a Meghan nel 2017, quando era ancora soltanto una fidanzata, era stato considerato un particolare segno di favore della sovrana verso la nuova arrivata americana. La novantatreenne Elisabetta sembrava in realtà molto più a suo agio con usi e costumi dei tempi moderni che non i famigerati tabloid del suo regno. La stampa popolare, già in guerra coi Sussex, decise che la loro permanenza natalizia in Canada era un doppio affronto, alla regina e alla Gran Bretagna, di conseguenza li mise alla berlina. Sua Maestà, invece, era all’apparenza molto più rilassata e comprensiva. Non si era forse già rassegnata due volte a un’analoga breccia nella tradizione? Nel 2012 e nel 2016, William e Kate avevano passato le vacanze, anziché con lei, con i Middleton nella loro casa del Berkshire. È vero che Queen and Country vengono sempre prima, ma in fondo anche i plebei hanno diritto a un certo grado di affettuosità parentale.
Naturalmente, così come il resto del mondo, tutti a Sandringham sapevano benissimo che l’assenza dei Sussex non nasceva solo dal desiderio di Meghan di una vacanza con mammà. Era piuttosto la conferma delle ormai note difficoltà della neoduchessa a adattarsi alla complessità della nuova esistenza reale. E il matrimonio, che aveva iniettato un’inattesa e benvenuta dose di stabilità nella zigzagante vita di Harry, lo aveva però anche rafforzato nell’intenzione di liberarsi della golden cage in cui era cresciuto. Nei pochi mesi precedenti, dopo la nascita del primogenito Archie, il principe aveva a più riprese delineato i propri piani col padre, con la regina e anche coi loro principali consiglieri (spesso i cortigiani di grado più alto sono più decisivi dello stesso sovrano). Personaggi come lord Stamfordham, eminenza grigia di Giorgio V, o Alan «Tommy» Lascelles, l’ombra dietro la crisi dell’abdicazione di Edoardo VIII, sono diventati leggendari per la loro devozione alla Corona e le mille risorse – non sempre lecite – impiegate per salvarla.
I Sussex avevano cercato di rassicurare parenti e collaboratori: desideravano continuare a fare il loro dovere di reali ma ritagliandosi un ruolo nuovo e largamente indipendente. Questo li avrebbe portati a rimanere per lunghi periodi fuori dal Regno Unito. L’idea era di dividersi tra le due rive del pond, lo stagno, come gli anglosassoni chiamano con spirito proprietario l’Oceano Atlantico. Passare più tempo in America del Nord avrebbe assicurato alla nuova famigliola qualcosa di più simile a una vita tranquilla, quasi normale. È vero che la villa da 16 milioni di dollari, sull’isola di Vancouver, che quel Natale li ospitava assieme al loro bambino, non è esattamente sinonimo di normalità. Ma è indiscutibile che la lontananza da Londra avrebbe quanto meno garantito un’esistenza non assillata dall’aggressiva invadenza dei tabloid, odiati con pari intensità da Harry e da sua moglie.
Nel torpore indotto dalla festività, tanto per i Windsor radunati a Sandringham quanto per il «ramo» trapiantato in America sembrava che la maggior fonte di eccitazione dovesse derivare dalla rituale apertura dei regali. Nella reggia del Norfolk la faccenda si sbriga da sempre la vigilia di Natale. Alla mattina la famiglia di Sua Maestà si ritrova nel Salotto Bianco per completare insieme gli ultimi addobbi al gigantesco abete di oltre sette metri tagliato nel bosco della tenuta. Nel pomeriggio si torna tutti nella vasta sala per scartare i doni, ammonticchiati sui tavoli a cavalletto disposti per l’occasione. Non sono mai regali di grande valore pecuniario ma piuttosto oggetti che compilano una sorta di «lessico famigliare» e puntano soprattutto a strappare un sorriso: per esempio, un pettine al calvo William… Va meglio ai bambini, di solito premiati con qualcosa di più sostanzioso prima di essere messi a letto. I «grandi», invece, indossano l’abito da sera – signori in dinner jacket, signore in lungo – per presentarsi al cocktail e, a seguire, alla cena di Natale. Il menù è invariabile da decenni: tacchino arrosto con ripieno di salvia e cipolla oppure castagne, contorno di patate arrosto o purè, cavolini di Bruxelles e pastinaca, per dolce Christmas pudding. Alle dieci in punto la regina depone le posate e il pasto è finito. Si passa alle sciarade.
Il grande appuntamento del giorno seguente è alle 15, nell’enorme e cavernoso salone della Long Library. Come gran parte dei sudditi, anche la famiglia reale si raccoglie attorno alla tv per l’evento rituale del Natale dacché esiste la televisione (prima era affidato alla radio): è il momento di «Her Majesty’s Most Gracious Speech», il messaggio natalizio della sovrana ai sudditi. Elisabetta ha cominciato a tenerlo nel 1957 e da allora ha mancato l’appuntamento solo una volta, nel 1969 (quell’anno sentiva di aver già saturato il suo spazio televisivo con la diretta dell’investitura del principe del Galles e il documentario The Royal Family). Naturalmente la regina registra il discorso qualche giorno prima, e il pomeriggio di Natale si rivede – e si giudica – in compagnia dei parenti. Anche quel 25 dicembre 2019, alle tre in punto, sullo schermo comparve prima lo stendardo reale, poi la banda della Household Division che eseguiva God Save the Queen nell’atrio di Windsor Castle, infine le telecamere inquadrarono Sua Maestà vestita in blu reale, le solite perle al collo e sull’abito la spilla di diamanti e zaffiri della regina Vittoria, seduta allo scrittoio nello sfarzoso Salotto Verde del castello. Prima ancora che la nonna aprisse bocca, il cuore di William, seduto accanto a lei di fronte alla tv, ebbe un tuffo.
Sul piano della scrivania, collocate in modo da risultare ben visibili agli spettatori, c’erano quattro fotografie incorniciate. Subito alla destra della regina spiccava un ritratto in bianco e nero del padre Giorgio VI, seguito da due istantanee molto più piccole, una di Carlo e Camilla, l’altra di Filippo. Due volte più grande di tutte le altre, piazzata frontalmente al centro, brillante nei suoi colori vivaci, era una quarta foto a dominare l’inquadratura: i Cambridge che sorridevano allegri con i loro tre bellissimi bambini. Il posto d’onore, per quanto giustificato dalla precedenza dinastica, rendeva tanto più cospicua l’assenza di immagini di Harry e Meghan e del loro neonato. Nei Natali precedenti uno scatto del secondogenito di Diana non era mai mancato su quella scrivania, e l’anno prima si era aggiunta anche Meghan. Adesso erano spariti entrambi, per non parlare di baby Archie, e proprio nell’anno in cui i Sussex avevano pubblicamente lamentato di essere maltrattati tanto dalla stampa quanto da Buckingham Palace. Non c’era bisogno di essere un royal watcher per tirare le conseguenze.
Continua….
PARTE PRIMA
Fratellanza
1
Oddio, i capelli rossi…
CONFESSO che per questa parte iniziale della storia, che ora coincide col principio della vita di uno dei nostri due eroi, mi era entrata irresistibilmente in testa una delle battute più esilaranti di quel capolavoro di comicità napoletana che è Miseria e nobiltà. Ricordate il bimbetto che essendo figlio di Totò deve invece fingere di essere il rampollo del maggiordomo? «Vincenzo m’è pate a me…» continua a ripetere a chiunque, anche quando non glielo chiedono. Avete già capito che stiamo per occuparci dell’elefante nella stanza: che Harry fosse il figlio adorato di Diana è indubbio, ma chi è veramente il papà?
L’imbarazzante domanda accompagna da sempre la vita del principe. E nell’impossibilità di accedere alle relazioni di psicologi e psichiatri che lo hanno avuto in cura dopo la morte della madre, nessuno è in grado di dire quanto i dubbi sulla sua paternità abbiano contribuito a formarne il carattere. Si può stare certi che qualcuno gli avrà riferito il commento del principe Carlo quando lo vide subito dopo il parto, poi ripetuto di fronte a un pubblico famigliare più vasto al momento del battesimo. «Another boy», sbottò profondamente deluso perché non era femmina, e aggiunse con evidente disgusto: «E ha pure i capelli rossi».
La mamma di Diana, Frances Shand Kydd, lo rimproverò perché si lamentava invece di ringraziare Iddio, e soprattutto non lasciò scivolare l’implicazione del biasimo cromatico: «Molti Spencer hanno i capelli rossi, compresi i tre fratelli di Diana», gli ribatté puntuta, e in effetti la capigliatura di suo figlio Charles, l’erede del titolo e della tenuta di Althorp, è di un bel rosso rame, un po’ più brillante di quello delle due sorelle maggiori. Ma il principe e la suocera sapevano bene qual era il soggetto del loro scambio di battute cifrato. Il resto del mondo l’avrebbe scoperto quando, crescendo, Harry avrebbe mostrato una somiglianza impressionante con il rossocrinito James Hewitt, valoroso ufficiale dell’esercito britannico, cavallerizzo e Casanova impareggiabile, istruttore della principessa Diana in entrambe le funzioni, e nella seconda per ben cinque anni amante appassionato di Lady Di. Già, da quando a quando, per la precisione?
L’interrogativo appare giustificato ben oltre un’indecente curiosità. Alla sua nascita, Harry del Galles era terzo in linea di successione al trono. Com’è evidente, la questione del suo concepimento non era soltanto un volgare affare di corna ma un delicatissimo segreto di Stato che toccava direttamente la legittimità dinastica. Oddio, i troni d’Europa, e quello d’Inghilterra non fa eccezione, hanno una certa esperienza di uova di cuculi. Per dire, lo stesso marito della regina Vittoria, il principe consorte Albert, pare che fosse il frutto di una relazione adulterina della madre. I dubbi su Harry furono a lungo sussurrati tra cortigiani e giornalisti, ma difficilmente giunsero all’orecchio del principino e del fratello maggiore (nonché del grande pubblico) prima di una data in un certo modo fatidica: il 3 ottobre 1994, giorno della pubblicazione del libro di Anna Pasternak dal titolo Princess in Love. Si trattava del resoconto, un mix di sciropposo e scandalistico, del lungo love affair tra Diana e James Hewitt, che aveva vuotato il sacco con l’autrice. Lo stesso uomo che i due ragazzini, per molti anni della loro infanzia, avevano imparato a chiamare affettuosamente «zio James».
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