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1977 – Quella provvisoria giovinezza: L’amicizia, l’amore, la politica, la musica, la morte. Nel 1977, a Verona.

14,50

1977 – Quella provvisoria giovinezza. Un giallo. Anzi un giallo storico, perché racconta eventi avvenuti mezzo secolo fa, nell’anno di grazia – anzi di disgrazia, perché c’è di mezzo l’omicidio di un ragazzo giovanissimo – 1977.

Un romanzo della memoria, che narra l’amicizia, l’amore, la musica, la politica e la morte. Nel 1977, a Verona, mentre correva… quella provvisoria giovinezza.

Informazioni aggiuntive

Autore

Editore

Data di pubblicazione

1 dicembre 2022

ISBN-13

979-8366654654

Lingua

COD: 8410 Categoria: Tag: , Product ID: 21206

Descrizione

Capitolo 1

Io vi racconto…

 

Ti dico la malinconia

di vivere in periferia,

del tempo grigio che ci porta via.

Io ti racconto la mia vita

il mio passato il mio presente,

 anche se a te, lo so, non importa niente.

(Io ti racconto, Claudio Lolli)

 

Mi chiamo Alessio Zagori. Sono un quasi anziano ferroviere che aspira alla pensione. Scapolone o, come si dice oggi, single. Mai sposato e senza figli.

Ho nostalgie e rimpianti, come tutti gli ultrasessantenni. Tante malinconie, ma poche depressioni. Anche perché ho molti interessi: la musica, il cinema, i romanzi, i saggi di storia, i fumetti, lo sport, i francobolli. Eccetera eccetera eccetera. 

Tutto sommato non me la passo poi male. Ho il difetto di stare bene anche da solo. Tra le mie collezioni, le mie fantasie e i miei libri. Anche se non disdegno saltuarie frequentazioni e antiche amicizie. Ma, tranquilli, non ho nessuna intenzione di parlarvi di me, di come sono adesso, almeno. Anche perché vi annoierei. Non perché sono particolarmente noioso. È che in questo periodo mi sto molto annoiando e non ho cose divertenti o interessanti da raccontare.

A causa di questo maledetto coronavirus e delle disposizioni governative, mi trovo infatti in lockdown, recluso nel mio appartamentino da scapolo solitario, con le gambe sempre stese sul divano e i pensieri sempre tesi nella testa bianca e un po’ pelata. 

Passo il tempo guardando la televisione, ascoltando musica, leggendo libri e fumetti, scorrendo svogliatamente Facebook e i siti web dei giornali. Un dolce far niente che alla fine stufa. 

Per questo, dopo aver visto un programma televisivo sugli anni Settanta – per me più mitici dei pur mitici anni Sessanta – mi sto avventurando a scrivere qualcosa su quel periodo, che ho vissuto da adolescente che aspirava alla rivoluzione, invece che alla pensione adesso agognata. 

Ora che i ricordi sono più importanti delle aspettative, la mia memoria è tornata a fatti avvenuti oltre quaranta anni fa, quando ero ancora lontano dall’essere un uomo definitivamente quasi anziano, temporaneamente recluso e intermittentemente frustrato. Sto parlando del 1977. 

Il primo gennaio di quell’anno venne trasmessa l’ultima puntata di Carosello. Non c’era più bisogno di tante parole e troppe sceneggiate per vendere la merce. Aumentava la produzione industriale e aumentava lo smog. Di giorno il cielo era un po’ meno limpido. E di notte le lucciole non luccicavano più.  Insomma, era l’anno in cui sparirono sia Carosello che le lucciole. La pubblicità si trasformò in “consigli per gli acquisti”. E le lucciole pullulavano sui marciapiedi di cemento invece che nei campi in fiore. Non eravamo più contestatori, ma consumatori. Meno bucolici e più puttanieri. 

1977. L’innocenza degli anni Sessanta era oramai lontana. L’anno prima era morto Mao Tse-Tung. E pure Elvis Presley e Charlot decisero di abbandonare la nostra valle di lacrime e lazzi. 

I fuochi del ’68 e dei primi anni Settanta cominciavano a crepitare in maniera meno violenta. I cortei, gli scioperi, le occupazioni delle scuole e i tafferugli per motivi politici si ripetevano ancora. Ma qualcuno cominciava a pensare che la rivoluzione non fosse esattamente dietro l’angolo. I più esotici iniziarono a cercarla molto distante da qui: in India. I più pigri cominciarono a rivalutare il salotto di casa e la vita privata. 

Le nostre idee e la nostra gioventù stavano per essere sconfitte dall’avanzare dell’età adulta e dalla vittoria definitiva dei politici di professione, che non sventolavano bandiere, bensì portafogli. Ma il «contro ordine, compagni, la rivoluzione è annullata» non era ancora arrivato. E noi continuavamo a fare i ragazzi della via Paal. Continuavamo a lottare, con scarsissimi risultati, contro i mulini a vento del Potere. E – per dirla col poeta Luigi, che poi vi farò conoscere – cercavamo ancora di abbattere, con le nostre dure crape, non ancora pelate, i portoni massicci del Capitale.

Nel 1977 avevo diciotto anni e frequentavo il quinto anno del Liceo Scientifico Galilei di Verona. Dopo un paio d’anni da primo della classe, avevo iniziato a fare politica. Il tempo dedicato allo studio era diminuito sempre di più, come i miei voti. Mentre la mia vita sentimentale restava meno vivace di quella di un curato di campagna. 

Questa storia inizia il 17 aprile di quell’anno. Dopo più di quarant’anni ricordo perfettamente quella data, in quanto scritta sulla tomba di Pablo, un ragazzo ucciso prima che la sua giovinezza avesse fine. Quella giovinezza, che per tutti è provvisoria, per lui era divenuta definitiva. La vita non gli aveva concesso neppure di raggiungere gli “anta” e il traguardo del disincanto politico ed esistenziale. 

I suoi sogni adolescenziali erano rimasti appesi a quella tomba del cimitero di Verona, la città in cui abito e nella quale vissi i ricordi che vado a raccontarvi.

Per parecchi anni su quella lapide non mancarono mai una rosa o un garofano rosso.

Ora, a distanza di un quarantennio, non saprei dire, perché ho perso l’abitudine di passarci. Il tempo purtroppo affievolisce il sentimento di certi obblighi, il bisogno di certe pietose e consolatorie consuetudini. Affievolisce anche i ricordi. E forse è per non perderli che ora scrivo. 

***

Capitolo 2

Pizza e poesia

 

Giovane e ingenuo

Io ho perso la testa

Sian stati i libri

O il mio provincialismo…

(L’avvelenata, Francesco Guccini)

 

Domenica sera. 

Ero seduto al tavolo della Pizzeria Da Esposito, con alcuni amici – allora si diceva “compagni” – della Cooperativa Ombre Rosse. Il nome della Cooperativa richiamava il noto film western ma era anche un preciso riferimento cromatico alle nostre idee politiche. L’avevamo fondata per rilevare la gestione del Bar Giardinetto, centro delle nostre iniziative politiche e culturali. 

Passavamo le serate ad organizzare cortei, mostre, concerti, proiezioni di film, volantinaggi e pallosissimi dibattiti internazionalisti.

Quella sera, dopo l’ennesima riunione, avevamo deciso di cambiare luogo di ritrovo e di concederci il lusso di una pizza. 

Marco Toso, un ragazzone moro con le mani grosse e la testa, altrettanto grande, contornata da troppi capelli divenuti bianchi anzitempo, sbottò in un per lui inconsueto tono pieno di rabbia.

“Insomma, non possiamo andare avanti così. Non abbiamo preso il Bar Giardinetto perché diventasse un mercato della droga”.

“Siamo tutti d’accordo”, ribattei. “Ne abbiamo parlato e riparlato. Il problema è come fare per bloccare lo spaccio. Abbiamo già minacciato gli spacciatori, soprattutto quel delinquente di Walter Modena. Pablo l’ha più volte cacciato dal bar. E poi… abbiamo anche intimato ai tossici di andare da un’altra parte a rifornirsi”.

“Alessio, io non ce l’ho con tossici e fricchettoni”, mi interruppe Marco. “Abbiamo anche fatto una riunione con loro, chiedendo di collaborare per tenere lontani gli spacciatori. Ma hai visto… avete visto tutti che bel risultato!”

“Beh, ce lo hanno anche detto chiaramente che a loro non interessa un bel niente di collaborare con noi. Perché non fanno i poliziotti. Hanno persino invocato la libertà di ognuno di entrare nel bar che vuole”.

“E allora… se questo è il loro atteggiamento”, ribatté Marco, “perché dobbiamo farci tanti scrupoli a rivolgerci ai carabinieri? Dobbiamo avvisarli”.

“E se poi quelli prendono a pretesto la droga per chiuderci il bar?”

“Beh, io non voglio insistere sulla questione”, intervenne Andrea Rama. “Ho già detto come la penso e mi sono sentito rinfacciare d’essere figlio di un commissario di polizia. Io non credo che corriamo il rischio di vederci chiudere il bar per motivi politici. Non siamo mica in Cile!”

Roberto Zucconi intervenne con il suo solito tono scocciato: “Possibile che dobbiamo parlare tutta la sera di politica! Non possiamo parlare di altro, una volta tanto?”

“Non stiamo parlando di politica. Stiamo parlando di spaccio. Che si fa nel nostro Bar. Contro i nostri scopi culturali e politici”, gli risposi a muso duro.

“Comunque sia, ne possiamo parlare alla prossima riunione”, ribatté Roberto, che, spegnendo una sigaretta nel posacenere e accendendo un ghigno con le labbra, estrasse un piccolo quaderno con la copertina nera dall’eskimo della vittima predestinata che gli stava seduta a fianco. Era l’eskimo grigio di Luigi.

Luigi Parete, detto il Poeta, aveva 21 anni, tre in più della maggioranza dei suoi commensali. Girava sempre con in tasca un quadernetto sul quale scriveva in bella copia le sue poesie. Immancabilmente Roberto Zucconi glielo sfilava di tasca, leggeva alcuni versi e rideva a crepapelle assieme agli altri. Luigi sembrava sempre contrariato, come se gli desse fastidio. Ma portava sempre il solito quaderno nella tasca del solito eskimo. E lo faceva per lasciarselo leggere. Era un suo modo di comunicare con noi, di farci conoscere le sue poesie.

Comunque, la lettura semi autorizzata delle liriche di Luigi era ormai diventata una sorta di rito collettivo. Del quale quello zuccone di Roberto Zucconi era il ridanciano officiante e cerimoniere.

Stamattina mi sono guardato allo specchio.

Ho tentato di sputarmi in faccia 

ma sono riuscito a schizzare solo 

il mio muto interlocutore di vetro.

Allora ho espettorato su nel cielo

E quel catarro rancoroso in fine

Ha trafitto il mio occhio derelitto.

Finito di leggere, Roberto abbandonò il tono ironicamente declamante e si mise a sghignazzare sguaiatamente come suo solito. Sembrava sul punto di pisciarsi addosso e di rotolare sotto il tavolo.

“Sputo, catarro… Ma che schifo! Luigi, se proprio devi sputarti addosso, non farlo da solo. Possiamo sempre darti una mano. Chiamaci”, disse Andrea, che oltre ad essere socio della Cooperativa era anche un mio compagno di classe.

“Dopo questa poesia”, osservai, “visto l’occhio trafitto, potremmo soprannominarlo il Poeta Orbo e Derelitto.”

Mentre Luigi borbottava il solito “non capite niente”, Anna Di Francia, un’altra compagna di classe, per la quale spasimavo senza speranza da troppo tempo, intervenne per difenderlo: “A me non dispiace. Questa poesia, in poche parole, descrive bene una crisi esistenziale.”

Dopo aver così sentito e sentenziato il suo sentimento, riprese a conversare con la ragazza che le sedeva accanto.   

Il Poeta la guardò con un sorriso di gratitudine. Anch’io la guardai. Ma con altri sentimenti. Nel conversare con la sua vicina, aveva cambiato posizione e le gambe, liberate dalla copertura della tovaglia, risplendevano ora in tutto il loro incarnato dorato. Dorato quasi come i suoi capelli, che eccitavano meno i miei ormoni ma splendevano di più nei miei occhi e nella mia anima da liceale.  Anna accavallò le gambe, come era solita fare quando stava seduta su una sedia alla ricerca di un po’ di relax. Lo fece – come sempre – con una naturalezza disarmante. Ignara dello scompiglio che quel gesto provocava nella patta dei miei pantaloni. Indifferente al bailamme interiore e di interiora che stava provocando. 

Mi sforzai di mostrare noncuranza, ma non riuscivo a trattenere delle occhiate di malcelato desiderio. Perché Anna era bella, di una bellezza che non ti lasciava uguale a com’eri prima di averla guardata. Anche la maglietta, incolpevole delle forme, generose nel posto giusto, che rivestiva, non era troppo scollata. Ma riusciva ogni volta a farmi restare a corto di fiato.

Il mio sguardo – chissà perché – cascò sui suoi piedi, che apparivano bellissimi in quei sandali fatti solo di fini legacci di pelle nera. Poi, mi sforzai di distogliere lo sguardo dalle scollature e dalle gambe. E lo rivolsi verso il suo viso. Non ebbi pace nemmeno lì perché il fascino di Anna, quando parlava, mi sconvolgeva. I lunghi capelli biondi parevano fluttuare lievemente. I suoi occhi verdi, con inconscia crudeltà, si piantarono per qualche attimo nei miei. Distolsi lo sguardo per un istante. Poi ripresi a fissare la sua bocca in movimento, che assumeva ad intermittenza graziose espressioni di stupore, di allegria, di tenerezza. Quando sorrideva, in quel viso si creava un vortice di seduzione nel quale poteva essere bello – ma anche terribile – perdersi. E per me lo era sicuramente. Per l’ennesima volta mi sentii fragile, in balia dei fuocherelli d’artificio della bellezza femminile. Per questo fui grato a Roberto Zucconi, che, richiamando l’attenzione di tutti i commensali, interruppe anche la mia tormentata estasi.

“Lasciamo stare la politica, lo spaccio e le poesie di Luigi. Fra poco arrivano le pizze. E noi dobbiamo agire.”

“Ma siamo proprio sicuri?”, chiese Andrea.

“Eravamo d’accordo, no?”

“Ma è un reato!”

“Reato, reato… È reato anche fare scritte, preparare molotov, occupare le scuole. Noi questi reati li abbiamo già commessi. Tu no, perché il papà non vuole.”

“La vogliamo smettere di tirare in ballo mio padre e il suo lavoro?”, sbottò Andrea con rabbia.

“Ha ragione”, intervenni io. “Dovete finirla di punzecchiarlo perché suo padre è un commissario. Del resto, è vero che stiamo parlando di un reato. E magari è anche un reato più grave di quelli che hai nominato prima. Anche perché non c’è neppure l’attenuante dell’impegno politico.”

“Sono attorniato da legalisti, non da compagni”, sbottò Roberto.” Io e Marco l’abbiamo già commesso… questo reato. E non ci è successo niente. Comunque, se volete mandare a monte tutto, ditelo. E non se ne parla più.”

“Va bene”, disse Marco”. “Io ho detto che ci stavo. E confermo. Mettiamo ai voti. Chi è contrario alzi la mano.”

Nessuno alzò la mano. Io ero tentato di farlo. E anche Andrea, che mi stava guardando, forse sperando in una mia presa di posizione. Ma non potevo fare la figura del coniglio davanti ad Anna.

“Potremmo fare così”, proseguì Marco, con fare accomodante. “Diamo la precedenza alle ragazze ed a quelli che non lo hanno mai fatto, così rischiano meno.”

Prima che Roberto facesse commenti sarcastici su quella proposta, pensai bene di intervenire con risolutezza: “Eh, no! Vabbè, sulla precedenza alle ragazze sono d’accordo. Io, però, non voglio essere favorito.”

Mentre Andrea, deluso dalla mia uscita, mi guardava con una espressione che sembrava parente stretta dell’odio, Roberto iniziò a organizzare la cosa. Nessuno dissentì. Qualcuno fece un silenzioso cenno di assenso. Altri si guardarono attorno preoccupati.

L’arrivo delle pizze fece cessare ogni discussione. Non potevamo farci sentire dai camerieri.

***

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