Descrizione
Capitolo 1
Mi sono sempre chiesto come mai, quando si è di cattivo umore, il tempo sia sempre uno schifo.
Piove, ed è così da tre giorni, ormai. E sono, ormai, tre giorni che non esco. Sono arrivato al punto da odiare la mia casa, eppure, non trovo la forza di mettere il naso fuori. Non saprei dove andare. Comincio a essere stufo di percorrere all’infinito sempre le stesse strade nella speranza che accada qualcosa che cambi la mia vita, nella speranza di incontrare qualcuno che, sia pur temporaneamente, riesca a sottrarmi alla solitudine che mi attanaglia.
Sposto la tenda della grande vetrata della camera da letto e guardo di sotto. A dispetto dell’acqua che viene giù abbondante, la strada è affollata come sempre, e il Vomero è la solita caotica, multicolore, viva e pulsante marea di ombrelli. Dal mio attico tutto mi appare lontano, come se non mi appartenesse. I rumori giungono soffocati, e i colori scuri e tetri di un cielo scarsamente propenso al compromesso sono resi ancora più foschi dallo spesso vetro vagamente azzurrato che prende interamente due lati della camera, creando un’atmosfera che non aiuta il mio umore.
Questa mattina mi sono alzato piuttosto tardi. Alle undici. La sveglia ha suonato, come sempre, alle nove, ma abbandonare il letto si è rivelato uno sforzo decisamente al di sopra delle mie possibilità. Ieri sera ho tirato fino a tardi avanti a un film, e oggi proprio non ce la facevo. Fortuna per me che non sono un lavoratore dipendente e posso permettermi il lusso di ignorare la sveglia per rimanere a poltrire finché ne abbia voglia. Ma non è sempre stato così. Quando ancora non mi guadagnavo da vivere scrivendo romanzi, mi svegliavo all’alba, e fuori spesso era ancora buio e faceva un freddo cane. Non avevo il tempo di rendermi conto che avevo smesso di sognare che già dovevo essere in pista. Mezzo morto di sonno, uscivo di casa maledicendo in tutte le lingue morte il tipo di lavoro che mi ero andato a trovare.
Quella dell’impiegato non era vita per me, e soprattutto negli ultimi tempi della mia carriera impiegatizia il solo pensiero che ogni mattina iniziava immancabilmente e subitaneamente ad affacciarsi alla mia lucida consapevolezza era che dovevo assolutamente trovare il coraggio di mollare tutto e tentare la mia strada.
Qualcuno obietterà che avrei dovuto ringraziare il padreterno per il solo fatto di avere un lavoro, che in tanti avrebbero voluto essere al posto mio, e che in pratica stavo sputando nel piatto in cui mangiavo, ma io sentivo di voler fare altro. Il desiderio di guadagnarmi di che vivere mettendo a frutto il mio piccolo talento era diventato grande e ineludibile, e avvertivo dentro di me che la scrittura poteva rappresentare l’unica strada giusta. Sentivo che mettere nero su bianco i miei pensieri e le mie idee fosse qualcosa di cui non avrei mai potuto fare a meno, e sapevo che era ciò che meglio mi riusciva, ma desideravo farlo senza l’assillo di un lavoro che mi costringesse ad andare a dormire a un orario ragionevole per non risvegliarmi, il giorno seguente, come un morto vivente. Insomma, volevo poter scrivere tirando fino a tardi, fino a sentirmi esausto. Ma avevo una famiglia. Senza un lavoro come avrei fatto a tirare avanti?
Rassegnati e torna con i piedi per terra, mi diceva stizzita Alison.
C’è gente che il lavoro non ce l’ha e tu che fai?, ti lamenti del superfluo!
Era questa la solita canzone, e lei sapeva cantarla anche molto bene. Aveva ragione, sì, ma sembrava quasi ci provasse gusto nel dire quelle cose e nel tentare di farmi sentire in colpa. Lei è una di quelle ligie al proprio dovere, di quelle che non saltano un giorno di lavoro neanche se le paghi. E pensare che è la titolare di uno studio legale. La padrona del vapore, per intenderci. Una che non ha, ora come allora, direttori di sorta cui rendere conto. Ma mai che mi sia riuscito di farle fare una follia in un bel giorno di sole. Quanto senso della responsabilità… Eh sì… proprio quello che è sempre mancato a me. Quando il padreterno distribuì il senso della responsabilità io ero assente, impegnato probabilmente nei miei giochi infantili, e lei che era subito dietro di me prese anche la mia razione. Alison è sempre stata convinta che questa mia leggerezza fosse dovuta alla sindrome di Peter Pan che governava la mia vita, e al fatto che, probabilmente, mai compirò la maggiore età.
Vivevamo, insomma, su due pianeti diversi, e quali rappresentanti di due specie diverse ci nutrivamo di sostanze diverse. Lei era molto razionale, tanto razionale da essere incapace persino di lasciarsi andare, almeno con me, a un orgasmo pieno e appagante. Suppongo avesse un modo tutto suo di amare, ma non ho mai scoperto in cosa consistesse. Anche nel suo vivere la coppia non riuscivo a rilevare alcuna affinità con il mio intendimento. Il mio desiderio di sentirmi importante per lei, di godere della sua attenzione, di essere coccolato, veniva quotidianamente frustrato. Ma allora non comprendevo che, dal suo punto di vista, non potevo meritarlo. Tutto qui. Per Alison non ero altro che uno spensierato e irresponsabile ragazzino.
Quante volte mi sono sentito un elemento coreografico della sua vita, un essere vivente da sfoggiare a una festa o da tenere sul divano quando si ricevevano amici, qualcuno di cui lamentarsi, qualcuno che la accompagnasse a fare la spesa e andasse a pagare le bollette. Una via di mezzo, in pratica, tra un addetto alla riproduzione e un galoppino factotum. Quando, poi, reclamavo un minimo di attenzione per me, inutile dire quanto venissi considerato fastidioso e inopportunamente assillante.
Purtroppo per me, Alison era venuta su con lo stacanovistico esempio lavorativo del padre. Lui, uomo fortemente pragmatico e dedito esclusivamente al lavoro, le aveva innestato, sin da piccola, il seme del dovere verso tutto ma non verso il marito quale ventricolo e atrio del cuore pulsante della vita matrimoniale. Per lui solo i soldi da portare a casa contavano. Il resto era relativo. Era questa la personalissima teoria della relatività elaborata da mio suocero, e la figlia l’aveva così bene assimilata e fatta sua da divenire la copia conforme del padre e mettere, forse, a tacere quelle che avrebbero potuto essere le sue vere aspirazioni.
Ecco il metro di paragone secondo il quale veniva valutata – e considerata irresponsabile – la mia diversa visione della vita. Sindrome di Peter Pan a parte.
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