Descrizione
1.
Certi lunedì di fine novembre, o di inizio dicembre, soprattutto se sei scapolo, hai la sensazione di essere nel braccio della morte. Le vacanze estive non sono che un ricordo sbiadito, l’anno nuovo è ancora lontano; la prossimità del nulla è insolita.
Lunedì 23 novembre, Bastien Doutremont decise di andare al lavoro in metropolitana. Quando scese alla stazione di Porte de Clichy, si ritrovò davanti la scritta di cui diversi colleghi gli avevano parlato nei giorni precedenti. Erano da poco passate le dieci del mattino; il binario era deserto.
Fin da adolescente, si interessava ai graffiti del métro parigino. Spesso li fotografava col suo iPhone desueto – ormai dovevano essere arrivati alla ventitreesima generazione, lui si era fermato all’undicesima. Classificava le foto per stazione e per linea, destinando alla loro archiviazione numerose cartelle del suo computer. Era un hobby, se si vuole, ma lui preferiva l’espressione teoricamente più dolce, ma tutto considerato più brutale, di passatempo. Uno dei graffiti che preferiva, d’altronde, era una scritta a lettere inclinate e precise che aveva scoperto al centro di un lungo corridoio bianco della stazione di Place d’Italie, e che proclamava risolutamente: “Il tempo non passerà!”
I manifesti dell’operazione “Poesia RATP”, con il loro sfoggio di languide scempiaggini che avevano sommerso per un po’ tutte le stazioni di Parigi, fino a diffondersi per capillarità in alcuni convogli, avevano suscitato tra i passeggeri dissennate e molteplici reazioni di rabbia. Aveva così potuto notare, alla stazione Victor Hugo: “Rivendico il titolo onorifico di re d’Israele. Non posso fare diversamente.” Alla stazione Voltaire, il graffito era più brutale e angosciato: “Messaggio definitivo a tutti i telepatici, a tutti gli Stéphane che hanno voluto sconvolgere la mia vita: NO!”
La scritta alla stazione di Porte de Clichy, a dire il vero, non era un graffito: tracciata a vernice nera, in lettere enormi e spesse alte due metri, correva lungo l’intero binario della linea in direzione Gabriel Péri-Asnières-Gennevilliers. Anche quando era passato dal binario opposto gli era stato impossibile inquadrarla tutta, ma era riuscito a cogliere il testo nella sua interezza: “Vestigia dei monopoli / Nel cuore della metropoli.” Non aveva nulla di particolarmente preoccupante, o di particolarmente esplicito; ma era il genere di cosa che poteva suscitare l’interesse della DGSI, la Direzione generale per la sicurezza interna, come tutte le comunicazioni misteriose, oscuramente minacciose, che da alcuni anni invadevano lo spazio pubblico e non si potevano attribuire a nessun gruppuscolo politico chiaramente schedato; i messaggi su Internet sui quali lo avevano incaricato di fare chiarezza in quel momento ne erano l’esempio più spettacolare e più allarmante.
Sulla sua scrivania trovò il rapporto del laboratorio di lessicologia; era arrivato con la prima distribuzione del mattino. L’esame dei messaggi attestati eseguito dal laboratorio aveva permesso di isolare cinquantatré lettere – caratteri alfabetici, e non ideogrammi; la spaziatura aveva permesso di ripartire le lettere in parole. Si erano poi dati da fare per stabilire una biiezione con un alfabeto esistente, e avevano fatto il primo tentativo con il francese. Inaspettatamente, la corrispondenza sembrava possibile: se alle ventisei lettere di base si aggiungevano i caratteri accentati e quelli uniti in una legatura o dotati di cediglia, si ottenevano quarantadue segni. In più, si contavano convenzionalmente undici segni di punteggiatura, per un totale complessivo di cinquantatré segni. Erano dunque alle prese con un problema di decodifica classica, che consisteva nello stabilire una corrispondenza biunivoca tra i caratteri dei messaggi e quelli dell’alfabeto francese in senso lato. Purtroppo, dopo due settimane di sforzi, si erano ritrovati di fronte a un vicolo cieco: non era stato possibile stabilire una corrispondenza con nessuno dei sistemi di crittografia conosciuti; era la prima volta che succedeva da quando il laboratorio era stato creato. Diffondere su Internet dei messaggi che nessuno sarebbe riuscito a leggere era un approccio palesemente assurdo, dovevano per forza esserci dei destinatari; ma chi erano?
Si alzò, si preparò un espresso e, con la tazza in mano, si avvicinò alla vetrata. Una luce accecante si riverberava dalle mura del tribunale di grande istanza. Non aveva mai scorto alcun particolare pregio estetico in quella giustapposizione destrutturata di giganteschi parallelepipedi in vetro e acciaio, che dominava un paesaggio fangoso e tetro. A ogni modo, lo scopo che si erano posti quelli che l’avevano progettato non era la bellezza, né un aspetto piacevole, ma l’ostentazione di un certo know-how tecnico – come se si trattasse anzitutto di lasciare a bocca aperta eventuali visitatori alieni. Bastien non aveva conosciuto gli edifici storici al quai des Orfèvres 36, quindi, a differenza dei suoi colleghi più anziani, non ne aveva nessuna nostalgia; ma bisognava ammettere che il quartiere della “nuova Clichy” evolveva giorno dopo giorno verso il puro e semplice disastro urbano; il centro commerciale, i caffè e i ristoranti previsti nel piano regolatore iniziale non avevano mai visto la luce e concedersi un po’ di relax durante la giornata al di fuori degli orari lavorativi era diventato, nei nuovi locali, quasi impossibile; in compenso, non c’erano difficoltà di parcheggio.
Una cinquantina di metri più in là, una Aston Martin DB11 entrò nel parcheggio dei visitatori; era arrivato Fred, quindi. Per un geek come Fred, che a rigor di logica avrebbe dovuto comprare una Tesla, era una cosa strana, quella fedeltà al fascino desueto del motore a scoppio – a volte rimaneva incantato per minuti interi, estasiandosi al ronzio del suo V12. Alla fine scese, sbattendo la portiera dietro di sé. Tenuto conto delle procedure di sicurezza all’ingresso, sarebbe stato lì nel giro di dieci minuti. Sperava che Fred avesse delle novità; anzi, a dirla tutta, quella era la sua ultima speranza di poter riferire qualche progresso alla prossima riunione.
Quando sette anni prima erano stati assunti a contratto nella DGSI – con uno stipendio più che cospicuo per essere dei giovani senza uno straccio di diploma o di esperienza professionale – il colloquio di lavoro si era ridotto a una dimostrazione delle loro capacità di introdursi in vari siti Internet. Davanti alla quindicina di agenti riuniti per l’occasione, appartenenti alla BEFTI, il nucleo speciale contro le frodi tecnologiche, e ad altri dipartimenti tecnici del ministero degli Interni, avevano spiegato come, una volta entrati nel RNIPP, il Registro nazionale di identificazione delle persone fisiche, potevano, con un semplice clic, disattivare o riattivare una tessera sanitaria; in che modo procedevano per penetrare nel sito dell’agenzia delle entrate e poi modificare, con tutta facilità, l’ammontare dei redditi dichiarati. Avevano persino mostrato – la procedura era più macchinosa, perché i codici venivano cambiati periodicamente – come riuscivano, una volta introdottisi nel FNAEG, l’archivio nazionale automatizzato delle impronte genetiche, a modificare o a distruggere un profilo genetico, anche nel caso di un individuo già condannato. L’unica cosa che avevano ritenuto fosse meglio tacere era stata la loro incursione sul sito della centrale nucleare di Chooz. Per quarantott’ore avevano assunto il controllo del sistema, e avrebbero potuto attivare una procedura di arresto d’emergenza del reattore, lasciando senza elettricità parecchi dipartimenti francesi. D’altra parte, non avrebbero potuto innescare un grave incidente nucleare – per penetrare nel nocciolo del reattore ci voleva una chiave di crittografia a 4096 bit, che non avevano ancora decifrato. Fred aveva un nuovo software di hacking, che era stato tentato di lanciare; ma quel giorno avevano deciso, di comune accordo, che forse si erano spinti troppo oltre; erano usciti dal sito, cancellando ogni traccia della loro intrusione, e non ne avevano parlato mai più – a nessuno, e nemmeno tra loro. Quella notte, Bastien aveva avuto un incubo in cui era inseguito da chimere mostruose costituite da assemblaggi di neonati in decomposizione; alla fine del sogno, gli era apparso il nucleo del reattore. Avevano lasciato passare diversi giorni prima di rivedersi, non si erano nemmeno telefonati, e probabilmente era stato a partire da quel momento che avevano pensato, per la prima volta, di mettersi al servizio dello stato. Gli eroi della loro giovinezza erano stati Julian Assange e Edward Snowden, per cui collaborare con le autorità non era affatto scontato per loro, ma il contesto all’epoca – verso la metà degli anni dieci del nuovo millennio – era particolare: in seguito alle morti causate da vari attentati islamici, la popolazione francese aveva iniziato ad appoggiare, e persino a provare un certo affetto per la polizia e l’esercito.
Fred, però, non aveva rinnovato il suo contratto con la DGSI al termine del primo anno; se n’era andato per creare la Distorted Visions, una società specializzata in effetti speciali digitali e computer grafica. In fondo Fred, a differenza di lui, non era mai stato un vero hacker; non aveva mai provato sul serio il piacere, per certi versi analogo a quello dello slalom speciale, che provava lui nell’aggirare una serie di firewall, né l’esaltazione megalomane che lo prendeva quando sferrava un attacco a forza bruta, mobilitando migliaia di computer zombie per decifrare una chiave particolarmente subdola. Fred, come il suo maestro Julian Assange, era prima di tutto un programmatore nato, capace di padroneggiare in pochi giorni i linguaggi più sofisticati che appaiono di continuo sul mercato – e aveva messo a frutto il suo talento scrivendo algoritmi per la generazione di forme e texture assolutamente innovativi. Si parla spesso dell’eccellenza francese nei settori aeronautico o spaziale, più di rado invece si pensa agli effetti speciali digitali. La società di Fred lavorava regolarmente per le più grandi produzioni hollywoodiane; a cinque anni dalla sua creazione, era già terza al mondo nel suo campo.
Quando Fred entrò nel suo ufficio e si lasciò cadere di peso sul divano, Doutremont capì immediatamente che erano in arrivo cattive notizie.
“In effetti, non ho nulla di molto rincuorante da annunciarti, Bastien,” confermò subito Fred. “Dunque, cominciamo dal primo messaggio. So che non è quello che vi interessa, ma il video è comunque curioso.”
Il primo pop-up era passato inosservato alla DGSI; aveva interferito principalmente con siti per l’acquisto di biglietti aerei e le prenotazioni alberghiere online. Come i due successivi, consisteva in una giustapposizione di pentagoni, cerchi e righe di testo in un alfabeto indecifrabile. Cliccando in un punto qualsiasi all’interno della finestra, partiva il filmato. La ripresa era stata effettuata da uno strapiombo, o da una mongolfiera in volo stazionario; era una scena a inquadratura fissa di circa dieci minuti. Un’immensa prateria di erba alta si estendeva fino all’orizzonte, il cielo era perfettamente limpido – il paesaggio evocava certi stati occidentali degli USA. Per effetto del vento, enormi linee rette si disegnavano sulla superficie erbosa; poi si incrociavano, formando triangoli e poligoni. Dopodiché tutto si calmava e la superficie tornava immobile, a perdita d’occhio; poi il vento riprendeva a soffiare e i poligoni riapparivano, quadrettando lentamente la pianura, fino all’infinito. Era bellissimo, ma non destava nessuna preoccupazione particolare; il rumore del vento non era stato registrato, la geometria dell’insieme si sviluppava in totale silenzio.
“Negli ultimi tempi abbiamo realizzato parecchie scene di mare in tempesta per dei film di guerra,” disse Fred. “Una distesa d’erba di queste dimensioni viene modellata più o meno come uno specchio d’acqua di grandezza equivalente… non l’oceano, ma diciamo un grande lago. E quel che posso dirti con certezza è che le figure geometriche che si formano in questo video sono impossibili. Bisognerebbe supporre che il vento soffi contemporaneamente da tre direzioni diverse, e in certi momenti da quattro. Quindi non c’è dubbio alcuno: si tratta di computer grafica. Quello che però mi lascia interdetto è che puoi ingrandire l’immagine quanto vuoi, ma i fili d’erba sembrano sempre veri, il che di norma non è fattibile. Non esistono due fili d’erba identici in natura; hanno tutti delle irregolarità, dei piccoli difetti, una firma genetica specifica. Ne abbiamo ingranditi un migliaio, scegliendoli a caso nell’immagine: non ce n’è uno uguale all’altro.
Sono pronto a scommettere che i milioni di fili d’erba del video sono tutti diversi; è allucinante, è un lavoro pazzesco; forse potremmo anche farlo, alla Distorted, ma per una sequenza di questa lunghezza ci vorrebbero mesi di calcolo.”
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