Descrizione
Capitolo 1
I due mezzi arrancavano lungo una pista dissestata, i fari oscurati facevano una lama di luce giallastra che ballonzolava sul terreno quasi a casaccio. Gli uomini nel primo mezzo erano silenziosi, gli occhi attenti, i nervi tesi. Un paio d’ore prima si erano imbattuti in un accampamento di ribelli e ne erano usciti a stento, ricevendo colpi feroci che avevano portato quasi via il parabrezza, così che adesso chi guidava doveva stare con la testa spostata e il collo tirato per poter vedere qualcosa. Per fortuna erano riusciti a dileguarsi nel buio, prima di essere identificati e colpiti duramente. Lupo, alla mitragliatrice, fece un verso con la bocca.
– Piove, maledizione!
Nessuno gli rispose, vedevano benissimo la pioggia rabbiosa che aveva cominciato a cadere, assieme a raffiche di vento gelido che facevano volare cespugli, ramoscelli, sabbia.
Pat disse stancamente.
– Fermiamoci per la notte.
Nessuno rispose, tutti sapevano cosa fare, come farlo.
Uscirono dalla pista, raggiunsero un gruppetto di rocce, cumuli di sabbia compatta e nel giro di mezz’ora erano pronti a passare il resto della notte. I mezzi mimetizzati, i teli tirati, le razioni distribuite, la guardia stabilita.
Non erano uomini che parlavano molto. Si capivano con uno sguardo, un gesto, un cenno del capo. Facevano parte di una Task Force interforze che ufficialmente non esisteva da nessuna parte e operavano in posti dove nessun Governo avrebbe mai ammesso di avere delle truppe, dei militari. Erano italiani, francesi, americani, i migliori di già forze d’elite, la créme de la créme, addestrati e letali, veloci e silenziosi. Quando rientravano nelle loro caserme, i giovani se li indicavano quasi con timore e sussurravano alle loro spalle chiamandoli “Gli Immortali” perché sapevano che erano davvero come dei della guerra, passavano attraverso battaglie, pallottole e sembravano non morire mai. I nemici li chiamavano con altri nomi: uno era “i fantasmi”, perché colpivano in genere di notte, vestiti di nero, i volti coperti, nel silenzio più assoluto, senza scambiare fra di loro nemmeno una parola. Arrivavano, facevano quello che dovevano fare, fosse far saltare un deposito di armi nemiche o uccidere un capo ribelle o liberare un ostaggio e se ne andavano, talmente veloci che quasi non se ne erano accorti. Li chiamavano anche “I mostri”, perché di giorno avevano delle tute mimetiche strane, marezzate di bianco e verde e grigio e i capi avvolti in kefiah bianche e nere, i visi nascosti, i guanti che nascondevano fino all’ultimo centimetro di pelle e quei movimenti veloci, sincroni, silenziosi e spaventosi, mostri all’attacco, senza esitazioni, senza apparente pietà. “La morte che cammina” era un altro dei loro nomi, erano pochi i vivi che potevano dire di averli visti, di averli incontrati.
Mentre quattro degli uomini si accalcarono nel primo mezzo cercando di riposare, uno degli uomini sedette accanto a Pat e chiese sottovoce.
– Capitano….
Lui lo guardò appena.
– Niente gradi, Gorilla. Lo sai bene.
L’uomo scosse il capo, era alto e massiccio come un lottatore, il viso ora scoperto abbronzato e segnato di barba.
– Sì, lo so, ma….zio Sam vuole sapere chi comanda.
Pat girò appena il capo a guardare l’americano, zio Sam appunto, che stava ingollando voracemente una barretta di razione. Niente nomi né gradi, tra di loro, solo soprannomi, nomi di battaglia che al di fuori della loro cerchia non conosceva quasi nessuno, confidare a qualcuno il proprio nome di battaglia era sintomo di assoluta fiducia e quegli uomini non ne avevano molta per chi non faceva parte della loro vita. Pat conosceva bene l’americano, aveva già fatto delle operazioni con lui, gran tiratore, sangue freddo e coraggio da vendere, lungo e allampanato con due baffi poderosi. Fece una piccola smorfia divertita.
– Io.
Gorilla annuì, soddisfatto.
– Ok, capo, era tanto per mettere in chiaro….
Pat tornò a controllare la cartina che aveva in mano, la pila a stilo che seguiva il tracciato. Non era una vera carta, erano foto prese da droni, nessuno era mai stato davvero in quella zona e quindi ogni momento potevano capitare in mezzo ad un accampamento, ad un villaggio. Non era una missione facile, anche se, come al solito, al Comando l’avevano fatta apparire di una facilità estrema.
Erano stati presi in ostaggio dodici monaci in un convento copto e i ribelli minacciavano di ucciderli uno alla volta se non avessero ricevuto in cambio armi e munizioni. Naturalmente nessun governo voleva dare armi ai ribelli, anche se in realtà, c’era chi forniva in segreto sia loro che i soldati regolari, così avevano mandato una Task Forze. Li avevano paracadutati a due chilometri dal confine siriano, in territorio turco e lì avevano trovato i mezzi pronti. Dovevano entrare in territorio siriano, raggiungere il luogo dove i dodici monaci erano tenuti prigionieri, liberarli, riportarli oltre il confine dove un elicottero li avrebbe raccolti e rimpatriati. Semplicissimo. E’ tutto deserto, aveva detto il Colonnello Formenti, mentre spiegava l’operazione a Pat, indicando la mappa. Non troverete nulla e nessuno. Una scarrozzata in mezzo al nulla. E gli ostaggi devono essere tenuti da una banda di contadini, hanno assalito il convento perché credevano di trovare chissà quali tesori e si sono infuriati quando hanno scoperto che i monaci erano quasi più poveri di loro. Ma sono cristiani e quindi li vogliono uccidere. Toglieteglieli dalle mani, prima che si mettano a fare cazzate. Pat non aveva detto nulla, lui aveva visto cosa sono le “cazzate” che fanno i ribelli ai cristiani. Le aveva viste dal vero, non per sentito dire. Aveva visto i bambini cristiani tagliati a fette con spade affilate o decapitati come bambole dai ribelli che cantavano intorno. Aveva visto uomini cristiani ai quali i ribelli avevano strappato il cuore ancora vivi e lo avevano mangiato, passandoselo di mano in mano. E, dato che la tecnologia aveva raggiunto ormai anche le più remote regioni del mondo, quelle scene erano filmate, documentate, non era più il “sentito dire” di una volta. Ora i ribelli si esibivano in diretta, davanti a telecamere o a telefonini e poi mandavano dappertutto i loro filmati, così che il brivido di paura che serpeggiava intorno a loro li rendeva forti, capaci di attirare nelle loro file anche i più riluttanti.
Ora, dopo due giorni dall’inizio dell’operazione, Pat si rendeva conto che di facile non c’era proprio nulla. Nessuno sapeva dove esattamente fossero tenuti gli ostaggi, avevano mandato in avanscoperta Simbad, un Incursore italiano che parlava perfettamente il dialetto locale e che si era fatto un pomeriggio seduto di fianco ad un pozzo chiacchierando con tutti quelli che si erano fermati ad abbeverare i cammelli, le capre. Voci ce n’erano tante, ma di preciso nessuno sapeva nulla. Cristiani? Sì, forse verso nord. Forse li avevano già ammazzati tutti, forse non era vero. Alla fine era stata una donna anziana che gli aveva mormorato che un suo nipote era stato in un villaggio e che aveva sentito che lì tenevano rinchiusi dei monaci cristiani e sulla base di quell’informazione si stavano dirigendo a nord, addentrandosi sempre di più nel paese ed allontanandosi di fatto ogni momento di più dal confine turco e quindi dalla salvezza per loro e per per gli ostaggi, se fossero riusciti a trovarli, a liberarli, a riportarli indietro.
Pat richiuse la cartina e se la infilò nel taschino della mimetica, dicendo sottovoce ai suoi uomini.
– Dormiamo qualche ora. Dovrebbe esserci un villaggio un po’ più avanti, se è vero siamo nella direzione giusta. Da lì poi manca poco.
Il vento che sibilava tra le pieghe del telo tirato sul mezzo dove stavano accasciati era come un lamento. Il mezzo dietro a loro se ne stava un po’ discosto, quasi invisibile nel buio. Era il loro appoggio logistico, portava armi, munizioni, acqua, viveri e avrebbe riportato indietro i dodici monaci. A Dio piacendo, come dicevano da quelle parti…
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