Descrizione
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Vade retro glutine
L’idea della pasta al glutine era venuta a Giovanni Buitoni nel 1847. L’azienda cercava un prodotto innovativo che fosse in grado di guadagnarsi una nicchia di mercato importante, quella degli alimenti per diete particolari. Poco meno di quarant’anni dopo, la «pastina glutinata» entrava nelle case degli italiani come «il miglior alimento per bambini, ammalati e convalescenti, prodotto di regime per obesi, gottosi, uricemici e diabetici». Si trattava semplicemente di pasta alla quale era stato aggiunto il 15% in peso di glutine secco. In seguito furono messe in commercio pastine «poliglutinate» e «iperglutinate» con concentrazioni di glutine crescenti, che arrivavano fino al 30% del totale. Le pubblicità dell’epoca insistevano molto sul contenuto energetico della pastina, consigliandone l’uso a bambini – «Il latte materno non basta più, ora ci vuole la pastina glutinata!» –, studenti – «Il profitto a scuola dipende dalla buona salute. La buona salute si difende con la pastina glutinata» –, lavoratori e anziani – «Pasto serale leggero e al mattino freschi e riposati».
A rivederle oggi, quelle pubblicità fanno sorridere. Ma fanno anche pensare a come il marketing continui a cambiare rotta, inseguendo sempre le nuove possibilità di profitto che si profilano all’orizzonte. Sugli scaffali dei nostri supermercati nessuna azienda alimentare oserebbe oggi mettere in orgogliosa evidenza il contenuto di glutine. Anzi, gli scaffali sono ormai pieni zeppi di prodotti gluten-free e non è difficile trovare paste «dietetiche prive di glutine». Da Gwyneth Paltrow a Victoria Beckham a Russell Crowe, il numero delle star che scelgono di seguire un’alimentazione gluten-free è in aumento e i libri che insegnano a dimagrire eliminando il glutine spopolano. Complice la moda, il mercato globale del gluten-free è in continua crescita. Nel 2013 si è assestato a 3,7 miliardi di dollari con una proiezione per il 2018 di 6,2 miliardi di dollari. Nel 2012 si è registrato il più consistente aumento del numero di alimenti gluten-free messi sul mercato: una ventina di brevetti depositati e una cinquantina tra nuovi prodotti da forno e snack in vendita. Cifre decisamente più importanti di quelle della pastina glutinata di oltre un secolo fa e che fanno pensare. Addirittura ormai si vedono indicazioni che un alimento non contiene glutine anche in prodotti, come il cioccolato fondente, che non lo hanno mai contenuto e non vi è motivo che lo contengano.
Insomma, scrivere «con aggiunta di glutine» in un prodotto moderno sarebbe, dal punto di vista del marketing, quasi come scrivere «con veleno aggiunto».
In che modo si è passati quindi dall’esaltazione del glutine come alimento energetico alla sua demonizzazione, con il conseguente sfruttamento commerciale indifferenziato di questo nuovo nemico pubblico? Intanto andiamo a conoscerlo.
«Che cos’è il glutine?»
Pane, pasta, brioches, pizza, dolci e la quasi totalità dei prodotti alimentari a base di farina di grano tenero o di grano duro devono la loro struttura alla presenza del glutine. È un termine ormai entrato nel linguaggio comune, ma che cosa sia davvero in pochi lo sanno. Nella popolare trasmissione americana Jimmy Kimmel Live, del network ABC, hanno fatto la prova intervistando persone che facevano jogging al parco. «Segue una dieta gluten-free?» Quasi tutti gli intervistati sostenevano di sì: «Certamente!», «Ci provo», «Ovvio!». Ma le risposte alla domanda «Che cos’è il glutine?» erano molto meno chiare e certe. Le facce dubbiose si sprecavano, alcuni dicevano che è qualcosa che fa male che è contenuto nei cereali come il grano, il mais o il riso, altri più onesti ammettevano che no, proprio non lo sapevano cosa fosse il glutine. Il servizio era costruito ad arte e non aveva ovviamente nessuna valenza scientifica, ma provate anche voi a fare l’esperimento con un vostro amico che segue una dieta senza glutine: è probabile che riceviate delle risposte vaghe e poco accurate (a meno che l’amico sia celiaco e allora sarà ferratissimo in materia, ma ci arriveremo).
E allora vediamo di rispondere qui una volta per tutte alla domanda «Che cos’è il glutine?».
Le farine di frumento sono composte per la maggior parte da amido, un carboidrato, e proteine, principalmente glutenina e gliadina. Queste due proteine, a contatto con l’acqua e per azione meccanica, si legano fra loro e formano un complesso proteico chiamato glutine, creando una specie di maglia elastica. Potete pensarlo come una sorta di supermolecola gigante che si estende per tutto l’impasto. Durante la lavorazione il glutine assorbe e immobilizza una grande quantità di acqua, senza la quale non si potrebbe formare. Nei prodotti da forno, come il pane o la pizza, il glutine della farina di grano tenero trattiene l’anidride carbonica sviluppata dal lievito durante la lievitazione. Nella pasta secca invece è il glutine della farina di grano duro a donare la caratteristica struttura rigida di spaghetti e fusilli. La percentuale relativa di gliadine e glutenine determina le proprietà dell’impasto e definisce quella che viene chiamata «forza» (W) della farina. La forza non è altro che l’energia necessaria per rompere l’impasto. Si misura gonfiandolo con una macchina come fosse un palloncino sino a farlo scoppiare. Se l’impasto si rompe presto la farina è «debole», se invece resiste si parla di farina «forte». Le farine forti, con W superiore a 400, si usano per impasti che necessitano di lunghe lavorazioni e lievitazioni (come il pane o il panettone), mentre le farine «deboli», con W inferiore a 200, sono da prediligere per biscotti, torte e altri prodotti da forno friabili.
Una patologia che forse esiste, ma forse no
Il glutine è da sempre il peggior nemico dei celiaci, ma la stragrande maggioranza delle persone che seguono una dieta gluten-free non soffre di questa malattia. La celiachia, come vedremo meglio più avanti, ha una base genetica e sintomi inequivocabili, mentre esiste una pletora di disturbi raggruppati sotto al cappello delle «intolleranze al glutine» che sembrano affliggere una sempre crescente fetta della popolazione. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza. Oltre alla celiachia esistono almeno altre due condizioni che si collegano all’assunzione di frumento, riconosciute dalla medicina: l’allergia al frumento e la sindrome del colon irritabile. Il frumento è un alimento complesso. Solo in prima approssimazione lo possiamo considerare composto da amido e glutine. In realtà contiene migliaia di molecole diverse che possono interagire con il nostro corpo.
Oltre a gliadina e glutenina, nel frumento sono presenti molte altre proteine che, insieme al glutine, possono causare reazioni allergiche in alcuni soggetti. Quella al frumento è una classica allergia alimentare e può provocare asma, rinite, orticaria e altri sintomi, e può interessare la pelle, l’apparato respiratorio oppure quello gastrointestinale. Il suo meccanismo d’azione, con il classico rilascio di istamina, è completamente diverso da quello della celiachia, anche se nel linguaggio comune si fa un sacco di confusione tra allergie e intolleranze.
Esiste poi la sindrome del colon irritabile, che colpisce 10 persone su 100, con intensità variabile, ed è caratterizzata da dolori addominali, gonfiore e produzione di gas. In Italia è chiamata colloquialmente «colite». Sebbene la sua origine sia ancora piuttosto oscura, è ormai assodato che chi ne soffre trae giovamento da una dieta priva di una gamma di molecole che è raggruppata sotto l’acronimo FODMAP, che sta per «Oligosaccaridi, Disaccaridi, Monosaccaridi e Polioli Fermentabili». Insomma, carboidrati difficili da digerire presenti nei cereali, ma anche in alimenti come il
latte, le mele, le cipolle e molti altri. Questi carboidrati diventano il banchetto per la flora intestinale, con conseguente fermentazione, produzione di gas e di acidi grassi. Una dieta che escluda questi carboidrati, sviluppata per la prima volta4 nel 2008, riesce ad alleviare i sintomi di chi soffre di sindrome del colon irritabile, cosa che invece non può fare totalmente una dieta senza glutine perché non elimina altre possibili fonti che scatenano la reazione.
Negli ultimi anni, però, sono aumentate sempre più le persone che lamentano sintomi simili a quelli della celiachia, senza però averne la predisposizione genetica e nonostante siano risultate negative ai test classici. Di questa sfuggente e misteriosa condizione, gli addetti ai lavori discutono da tempo e solo nel 2011 si sono messi d’accordo per coniare un nome condiviso e i criteri per fare una diagnosi. È stata chiamata Non-Celiac Gluten Sensitivity (NCGS) o «sensibilità al glutine». A parte il nome, però, la confusione regna sovrana. Abbiamo chiesto a Gino Roberto Corazza, gastroenterologo dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Matteo di Pavia e tra i massimi esperti italiani di celiachia, di spiegarci le differenze: «La celiachia è definita dalla presenza di lesioni intestinali provocate dall’attacco autoimmune dell’organismo in risposta all’assunzione di glutine e, quindi, dalla presenza di determinati anticorpi nel sangue. I sintomi possono anche non esserci o essere molto lievi, ma se ci sono le lesioni e gli anticorpi siamo sicuri di essere di fronte a un soggetto celiaco. Nelle sensibilità al glutine, invece, è tutto il contrario: la definizione la si fa solo sulla base dei sintomi, mentre non c’è predisposizione genetica, né sono presenti le lesioni intestinali tipiche della celiachia».
Quindi, se non siete celiaci ma avete sintomi simili e vi sentite molto meglio seguendo una dieta senza glutine, allora potreste essere etichettati come «sensibili al glutine». Tuttavia, a parte un nuovo nome nel vocabolario medico, siamo ancora al palo. Questo è il campo minato delle intolleranze alimentari che, a fianco di quelle scientificamente confermate, come l’intolleranza al lattosio, sembrano avere avuto un’esplosione in anni recenti, spesso in base ad autodiagnosi o a test senza validazione scientifica. Continua Corazza: «I pazienti molte volte si autoconvincono di essere intolleranti a una determinata tipologia di alimenti, ma non sempre hanno ragione. Il glutine, per esempio, è una molecola difficile da digerire, fermentando produce gas nell’intestino e quindi, in soggetti particolarmente sensibili, potrebbe dar problemi di tipo funzionale, come il gonfiore».
Quindi è tutta una bufala? Esiste davvero una patologia chiamata «sensibilità al glutine»? Non è chiaro. Per alcuni scienziati sembrerebbe di sì, anche se i dati a disposizione sono ancora troppo pochi per avere risposte certe. Uno dei problemi è che se un paziente ha un miglioramento, anche parziale, a seguito di una dieta senza glutine, non è necessariamente detto che il problema sia proprio il glutine, dato che nel frumento sono presenti molte altre sostanze. Concentrarsi troppo sul glutine e accusarlo definitivamente in questa fase ancora esplorativa potrebbe essere controproducente. Ma se la ricerca scientifica ha i suoi tempi, in questo regno di incertezza il marketing alimentare è invece entrato a gamba tesa, grazie agli enormi interessi economici in gioco.
Nel 2011, un gruppo di ricercatori guidato da Peter Gibson, della Monash University di Melbourne in Australia – gli stessi che hanno sviluppato la dieta senza FODMAP pensata per chi soffre di colon irritabile –, ha sottoposto a un esperimento 34 pazienti che presentavano sintomi ascrivibili alla sensibilità al glutine. I soggetti, che seguivano autonomamente una dieta senza glutine, sono stati divisi in due gruppi omogenei ed è stata data loro l’indicazione di mangiare ogni giorno un muffin e due fette di pane forniti dai ricercatori. A un gruppo sono stati consegnati muffin e pane contenenti in totale 16 grammi di glutine, all’altro invece sono stati dati muffin e pane gluten-free. Lo scopo era misurare eventuali differenze tra i due gruppi e, per essere sicuri di eliminare ogni inganno possibile, l’esperimento è stato condotto in «doppio cieco», cioè né i pazienti né i ricercatori erano in grado di sapere fino alla fine dell’esperimento quali alimenti somministrati contenessero glutine e quali no. Questa è la metodologia standard utilizzata nelle ricerche biomediche: lo scopo è evitare che la persona sottoposta al test e quella che la esamina possano essere influenzate. Sapendo di assumere glutine, alcune persone convinte di essere sensibili potrebbero infatti avere una reazione di origine puramente psicosomatica che andrebbe a invalidare le conclusioni della ricerca.
Prima di allora nessuno aveva mai effettuato uno studio in doppio cieco per indagare questa presunta patologia. L’esperimento è durato sei settimane, durante le quali pazienti, statisticamente distribuiti tra i due gruppi, hanno abbandonato per il manifestarsi di sintomi troppo gravi. Nei rimanenti 25, i ricercatori hanno visto una differenza fra gli appartenenti ai due gruppi. Chi aveva assunto glutine stava peggio di chi non l’aveva assunto e questo è bastato all’équipe australiana per affermare che la sensibilità al glutine esisteva senza ombra di dubbio.
In realtà i dubbi c’erano, perché i pazienti inclusi nell’esperimento di Gibson e colleghi erano troppo pochi, soprattutto avendo a che fare con un disturbo che può essere in buona parte psicologico o che potrebbe essere provocato da altre sostanze presenti nei prodotti contenenti glutine. Infatti, una delle critiche principali a questo lavoro è proprio quella di aver scelto di somministrare prodotti complessi, come i muffin o il pane. In più la dieta dei pazienti non è stata controllata, per cui non è stato possibile verificare che i sintomi non fossero invece causati da qualche altro alimento.
Due anni dopo, il gruppo di Peter Gibson è tornato sullo stesso problema correggendo un po’ il tiro. Altri 37 pazienti con sintomi da sensibilità al glutine sono stati sottoposti a una dieta priva di glutine, questa volta controllata dai ricercatori e, a differenza dello studio precedente, anche priva dei FODMAP, che ormai sappiamo essere tra i presunti responsabili della sindrome del colon irritabile.
In questa nuova indagine i gruppi erano tre: dopo una settimana di dieta uguale per tutti, ai pazienti sono state somministrate per due settimane quantità differenti di glutine: molto, poco o un placebo. Tutti i partecipanti hanno tratto vantaggio dalla dieta priva di glutine e FODMAP, ma solo 3 di loro, l’8%, ha mostrato sintomi specifici in seguito all’assunzione di glutine. La posizione finale di Gibson è chiara: le conclusioni dello studio precedente erano affrettate e, molto probabilmente, chiamiamo «sensibilità al glutine» qualcosa che, ammesso che esista davvero, col glutine ha poco a che fare. In questo studio è emerso che molte persone che sostengono di essere sensibili al glutine soffrono di effetto «nocebo»: chi è convinto di mangiare qualcosa di dannoso per il suo organismo sta male davvero, anche se nell’esperimento gli è stato somministrato solo il placebo.
Insomma, in soli due anni la sensibilità al glutine è stata declassata ed è rientrata nel limbo? Secondo il gruppo del professor Gibson, sì. O, per lo meno, i loro esperimenti sembrano scagionare il glutine, anche se lasciano la porta aperta ad altre sostanze che potrebbero scatenare una risposta:
La riluttanza nell’accettare altre componenti del frumento, come i fruttosani, altre proteine oltre a quelle del glutine, e le agglutinine del germe di grano, come potenziali fattori patogenici ha spesso impedito la corretta interpretazione delle osservazioni cliniche.
E ancora:
L’assunzione che una risposta a una dieta senza glutine, oppure una esacerbazione dei sintomi dovuti a cibi contenenti glutine, rifletta effetti specifici del glutine dovrebbe essere abbandonata, e lasciare spazio a considerazioni sugli altri componenti dei cibi a base di frumento che possono causare sintomi gastrointestinali.
Secondo Gibson, l’effetto nocebo è talmente forte che maschera, casomai ci fosse, la sensibilità al glutine di quella piccola percentuale di persone che potrebbe esserne affetta. Gibson suggerisce quindi agli esperimenti futuri di considerare solo soggetti che, pur soffrendo di quei sintomi, non abbiano mai sperimentato una dieta senza glutine.
L’ultimo studio, in ordine cronologico, che cerca di indagare questa patologia è proprio di Corazza e collaboratori, uscito nei primi mesi del 2015. «Abbiamo ripetuto lo studio in doppio cieco anche noi,» ci anticipa il professor Corazza «ma abbiamo scelto di liberare il campo da ogni possibile dubbio, somministrando ai nostri due gruppi pillole contenenti glutine o placebo. Vedendo così se quei dati si possono confermare.»
Analizzando i dati relativi ai 59 soggetti che hanno portato a termine lo studio, gli autori concludono che «l’assunzione di glutine aumenta in modo significativo tutti i sintomi, confrontati con quelli del placebo». Quindi sembrerebbe confermare l’esistenza della sensibilità al glutine. Tuttavia i ricercatori notano che i risultati sono stati fortemente influenzati dalle reazioni al glutine di soli 3 pazienti, il 5%. È sempre bene ricordare che le risposte della statistica si prestano a essere male interpretate se non si fa più che attenzione. Come il famoso pollo di Trilussa: se siamo in due e mangiamo in media un pollo a testa, se tu ne mangi due, però, io non ne mangio neanche uno.
In altre parole, forse la sensibilità al glutine esiste, ma riguarda una piccola percentuale di persone, mentre il 95% dei soggetti che sostengono di essere sensibili sono probabilmente vittime dell’effetto nocebo. La maggior parte dei pazienti, infatti, mostra gli stessi sintomi sia assumendo il glutine sia il placebo, che nel caso specifico era amido di riso.
Insomma, nessuno per ora ha dimostrato senza ombra di dubbio che la sensibilità al glutine esista veramente. D’altra parte nessuno ha però neanche escluso che possa esistere, almeno per una parte di chi soffre di quei sintomi, come sembra mostrare lo studio di Corazza e dei suoi collaboratori. Quello che è certo è che molte delle persone che sostengono di avere problemi con il glutine e di trarre sollievo dalle diete gluten-free – che se fatte in modo casereccio e senza una guida medica possono portare a carenze nutrizionali – non hanno alcun problema reale con il glutine: gli esperimenti in doppio cieco non mentono. Questo ovviamente non esclude che possano avere problemi dovuti ad altre componenti, ma non lo scopriranno mai solo seguendo i consigli delle star. Purtroppo, le dichiarazioni di Gwyneth Paltrow raggiungono il grande pubblico più di quelle di Corazza o di Gibson ed è paradossale che, mentre la maggior parte dei celiaci non ancora diagnosticati rischia di riportare danni da osteoporosi, anemia, e persino alcuni tipi di cancro, là fuori ci sono milioni di persone che aderiscono a diete gluten-free senza averne alcun motivo. E Corazza rincara la dose: «La dieta gluten-free indiscriminata è proprio una cavolata. Il glutine è difficile da digerire, magari può dare qualche disturbo, come per esempio la produzione di gas, ma è niente in confronto all’infiammazione intestinale che hanno i celiaci. Anche nelle persone sensibili al glutine l’infiammazione nell’intestino non c’è, quindi figuriamoci nella popolazione generale. Non solo, ci sono risvolti molto importanti e pericolosi. Se una persona con sintomi da celiachia viene a farsi visitare, noi siamo in grado di andare a trovare i segni del passaggio del glutine. Ma se questa stessa persona si autoprescrive una dieta senza glutine prima di venire a farsi visitare, noi non saremo più in grado di trovare i segni dell’infiammazione. Capite che questo è molto pericoloso? Perché là fuori ci sono dei celiaci che non sanno di esserlo e che si autocurano alla buona rischiando conseguenze anche molto gravi».
Quello dei prodotti senza glutine è un mercato in crescita e non si ferma al cibo. C’è chi propone cosmetici, dentifrici, shampoo, detergenti e così via. Tanto che l’Associazione Italiana Celiachia è intervenuta chiarendo che:
Tutti i detergenti (inclusi i dentifrici, i collutori e le paste per dentiera), i cosmetici (inclusi rossetto e burro di cacao) e i prodotti per uso esterno non comportano rischi per il celiaco e possono essere utilizzati in tranquillità.
È quindi inutile buttare via soldi acquistando questi prodotti, visto che per un celiaco il glutine è pericoloso solo se arriva nell’intestino e in quantità in ogni caso molto superiori a quelle che potrebbero essere accidentalmente ingerite usando un rossetto che ne contiene tracce.
C’è poi chi cavalca l’onda. Ha iniziato Loren Cordain nel 2002 con la formulazione della Dieta Paleolitica che prevede l’eliminazione di quegli alimenti, come il grano, che sono stati introdotti con l’avvento dell’agricoltura diecimila anni fa. Un tempo troppo breve, per Cordain, per far sì che il nostro organismo «evolva» nella direzione dell’adattamento a questi «nuovi» cibi.
Ma la Dieta Paleolitica non è la sola a condannare i cereali. C’è chi, come Pierre Dukan, per ragioni diverse e molto più terra terra, i carboidrati non li vuole nemmeno vedere. Wheat Belly del cardiologo statunitense William Davis è l’ultimo dei best seller pubblicati sull’argomento: è stato per molto tempo ai primi posti della classifica del «New York Times» dei libri più venduti. Nei suoi incontri pubblici, sempre affollatissimi e seguiti come si segue un predicatore, Davis accusa il glutine di una lista enorme di patologie: dall’autismo all’obesità, dal diabete al cancro. Inutile dire che accuse tanto straordinarie richiedono prove altrettanto straordinarie che, invece, leggendo la letteratura scientifica non si trovano. Questi «movimenti» mescolano affermazioni pseudoscientifiche a nozioni di buon senso e pescano nel bacino dell’ossessione per il naturale alimentato dai tanti rivoli delle paure per la «manipolazione» del cibo.
Cordain mette l’asticella a diecimila anni fa, quando i nostri antenati hanno iniziato a domesticare piante e animali; molti altri, come vedremo in seguito, la spostano all’inizio dell’agricoltura industriale con la Rivoluzione Verde, e tantissimi altri, oggi, quell’asticella la usano per dividere il cibo in naturale e OGM. Mentre gli scienziati, come abbiamo visto, devono ancora mettersi d’accordo sull’esistenza stessa della sensibilità al glutine, i tanti «laureati alla Google University» il loro colpevole l’hanno già trovato.
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