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Cujo

10,35

A Castle Rock, una sonnolenta cittadina del Maine, la vita scorre sui soliti binari. Cujo, il docile San Bernardo del meccanico, scorrazza libero per la campagna… finché una notte il suo padroncino, aprendo la porta del ripostiglio, non vede emergere dalle tenebre due occhi infuocati. Chi è la creatura diabolica che da quel momento comincia a seminare ovunque terrore e desolazione? È forse Cujo che, diventato idrofobo, si è trasformato nell’incarnazione stessa del male?

Informazioni aggiuntive

Autore

Editore

Data di pubblicazione

29 aprile 2014

ISBN

978-8868362041

Lingua

Formato

Copertina flessibile

COD: 3343 Categoria: Tag: Product ID: 20740

Descrizione

C’era una volta,

ma non molto tempo fa, un mostro che arrivò a Castle Rock, nel Maine. Uccise una cameriera di nome Alma Frechette nel 1970; una donna di nome Pauline Toothaker e una studentessa delle medie superiori di nome Cheryl Moody nel 1971; una graziosa ragazza di nome Carol Dunbarger nel 1974; un’insegnante di nome Etta Ringgold nell’autunno del 1975; e un’alunna delle elementari di nome Mary Kate Hendrasen nell’inverno dello stesso anno.

Non era un lupo mannaro o un vampiro o un mangiacadaveri o qualche innominabile creatura di una foresta incantata o delle nevi eterne. Era solo un agente di polizia che si chiamava Frank Dodd e aveva dei disturbi mentali e sessuali. Un uomo buono, di nome John Smith, scoprì la sua identità con una magia, ma prima d’essere catturato Frank Dodd si uccise e forse fu meglio così.

Ci fu scalpore, naturalmente, ma soprattutto si fece festa nella cittadina, perché il mostro che aveva tormentato tanti sogni era morto, finalmente morto. Gli incubi della popolazione erano sepolti nella tomba di Frank Dodd.

Tuttavia anche in quest’era illuminata, quando tanti genitori conoscono i danni psicologici che si possono arrecare ai propri figli, c’era certamente qualche padre o madre a Castle Rock, o forse qualche nonno, che zittiva i bambini dicendo loro che se non avessero fatto i bravi sarebbe venuto Frank Dodd a prenderli. E sicuramente si faceva subito un grande silenzio, i bambini guardavano le finestre scure e pensavano a Frank Dodd nel suo lucido impermeabile di plastica nera, Frank Dodd, lo strangolatore…

«È là fuori», mi pare di sentire la nonna bisbigliare nel sibilo del vento giù per il camino e attorno al vecchio coperchio ficcato nel tubo della stufa. «È là fuori e se non fate i bravi vedrete la sua faccia alla finestra della vostra camera quando tutti gli altri in casa staranno già dormendo, vedrete la sua faccia sorridente che vi guarda da dentro l’armadio nel cuore della notte, la paletta che alzava per fare attraversare i bambini in una mano, il rasoio con cui si uccise nell’altra… perciò sss, bambini… sss… sss.»

Ma in generale si tirò un sospiro di sollievo perché era finita. C’erano ancora degli incubi, questo sì, bambini che di notte non riuscivano a dormire e la casa Dodd rimasta vuota perché la madre era morta di infarto poco dopo, una casa che fu subito giudicata stregata e prudentemente evitata. Ma quelli erano fenomeni passeggeri, forse inevitabili corollari di una catena di delitti insensati.

E il tempo passò. Cinque anni.

Il mostro non c’era più, il mostro era morto. Frank Dodd diventava polvere nella sua bara.

Solo che il mostro non muore mai. Lupo mannaro, vampiro, mangiacadaveri, innominabile creatura di boschi o ghiacciai, il mostro non muore mai.

Tornò a Castle Rock nell’estate del 1980.

Tad Trenton, quattro anni, si svegliò una notte poco dopo la mezzanotte, nel maggio di quell’anno. Aveva bisogno di andare in bagno. Scese dal letto e mezzo addormentato andò verso la luce bianca che si incuneava nello spiraglio della porta rimasta aperta, mentre già si calava i calzoni del pigiama. Fece pipì per un’eternità, tirò l’acqua e tornò a letto. Tirò su le coperte e fu allora che vide la creatura nel suo armadio a muro.

Stava accovacciata, con le spalle imponenti curvate sopra la testa abbassata, occhi che sembravano tizzoni ardenti: una cosa a metà fra un essere umano e un lupo. Gli occhi si mossero per seguirlo quando Tad si drizzò a sedere con lo scroto accapponato, i capelli dritti, il respiro ridotto a un sottile sibilo invernale nella gola: occhi folli che ridevano, occhi che promettevano una morte orribile e una musica di urla che nessuno avrebbe udito. Qualcosa nell’armadio.

Sentì il suo brontolio sommesso. Sentì il suo alito dolciastro e fetido.

Tad Trenton si coprì gli occhi con le mani, si riempì d’aria e urlò.

Un’esclamazione soffocata in un’altra camera: suo padre.

Un grido spaventato proveniente dalla stessa camera: «Che cos’è?» Sua madre.

Passi in corsa. Mentre entravano, Tad sbirciò fra le dita e lo vide nell’armadio, che ringhiava e gli diceva che stavano per arrivare, sì, ma che poi se ne sarebbero di certo andati e appena se ne fossero andati…

Si accese la luce. Vic e Donna Trenton si avvicinarono al suo letto e si scambiarono un’occhiata ansiosa vedendo la sua faccia di gesso e i suoi occhi spalancati. Allora sua madre disse, anzi, sbottò: «Te l’avevo detto che tre salsicce erano troppe, Vic!»

Il padre si sedette sul letto, lo cinse con un braccio intorno alla schiena e gli chiese che cosa fosse successo.

Tad non aveva più il coraggio di guardare verso il riquadro dell’armadio a muro.

Il mostro non c’era più. Al posto della bestiaccia affamata che aveva visto c’erano due pile irregolari di coperte invernali che Donna non aveva ancora avuto il tempo di riporre al secondo piano. Le coperte erano state accatastate sulla seggiola che Tad usava quando aveva bisogno di prendere qualcosa dal ripiano più alto del ripostiglio. Al posto di quel muso triangolare ricoperto di pelo, chinato un po’ sul fianco, in un atteggiamento fra il predatorio e l’incuriosito, vide il suo orsacchiotto in cima alla più alta delle due pile di coperte. Al posto di quel malvagio paio d’occhi rossi e infossati c’erano le care e miti palline di vetro dalle quali il suo orsacchiotto guardava il mondo.

«Che cosa c’è, Tadder?» gli chiese di nuovo suo padre.

«C’era un mostro!» gemette Tad. «Nel mio armadio!» E scoppiò a piangere.

Anche la mamma si sedette. Padre e madre cercarono di confortarlo come meglio potevano. Fecero quello che fanno normalmente tutti i genitori. Gli spiegarono che i mostri non esistevano. Che era stato solo un brutto sogno. La mamma gli spiegò come a volte le ombre somiglino alle cose brutte che capita di vedere in televisione o sui giornalini a fumetti e il papà gli disse che andava tutto bene, che non doveva avere paura, che nella loro bella casa non c’era niente che potesse fargli del male. Tad fece segno di sì con la testa e diede ragione a suo padre, anche se sapeva che non era così.

Suo padre gli spiegò come, al buio, quelle due pile irregolari di coperte fossero sembrate spalle ingobbite, il suo orsacchiotto una testa d’animale protesa e come la luce del bagno, riflettendosi negli occhietti di vetro dell’orsacchiotto, li avesse animati facendoli sembrare gli occhi di un animale vero.

«Adesso guarda», gli disse. «Guardami bene, Tadder.»

Tad guardò.


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