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Cuori di Sicilia. La saga dei Catalano

15,00

Ci sono fuochi che ardono la vita con tanta passione che non si può guardarli senza strizzare gli occhi. Non puoi spegnerli come una candela: il vento li alimenta. Non puoi soffocarli né rinchiuderli: gli ostacoli li nutrono. Certi cuori esigono un palcoscenico più grande per recitare la propria parte.
Non regala niente la Sicilia di inizio Novecento a chi niente ha. Nemmeno l’amore si può permettere Rosario, perché Rosa, la ragazza che ama, è destinata a un buon partito, non a lui. Ma Rosario ha un fuoco dentro che brucia, e un desiderio insaziabile di riscatto. Dalla sua ha la fame, la gioventù, un’incrollabile fiducia in se stesso. E la certezza che l’America sia là per lui da conquistare. Così accade. New York non è lastricata d’oro come facevano credere gli agenti delle compagnie di navigazione, ma dal momento in cui mette piede a Ellis Island nel 1908, Rosario non perde un giorno. Ben presto, con Rosa al suo fianco, e i figli che la loro passione porta, il suo sogno non avrà più limiti. Trasforma il suo passatempo, la musica, in un affare. Il suo quartetto di musica siciliana conquista prima Brooklyn, poi l’America. Arrivano i contratti con le case discografiche, i dischi, la fama. La ricchezza. La famiglia Catalano conquista il posto che merita. Rosario è un abile imprenditore, spregiudicato nel comprare a pochi dollari spartiti che ne rendono migliaia, e senza timore nel tenere testa alla Mano Nera, la mafia italoamericana delle estorsioni.
Ma la Sicilia non si cancella facilmente dal cuore, ed è lì che Rosario e Rosa tornano quando tra minacce e amici che tradiscono, hanno bisogno delle loro radici. Ed è sempre da lì che Rosa, coraggiosa e fiera come sono le donne siciliane, prenderà in mano le sorti dei Catalano.

Informazioni aggiuntive

Editore

Data di pubblicazione

7 luglio 2021

ISBN-13

979-1280229175

Lingua

Italiano

Formato

Copertina flessibile

COD: 22387 Categoria: Tag: Product ID: 22387

Descrizione

1

«Cinquantamila lire!»

Il tempo di queste parole ed eccolo che arriva, il bolide, uno dei dieci in gara. Qualcuno prima, lungo il rettilineo della partenza, ha detto che paiono casce di mortu, casse da morto. Bare con le ruote, ruote alte così, che corrono senza posa lungo strade abituate al calpestìo delle carrozze dei ricchi signori e dei carretti dei con­tadini, agli zoccoli dei cavalli e dei muli e alle scarpe di chi ha solo i piedi, per muoversi da un posto all’altro.

«Cinquantamila?»

Da dentro gli scatoloni quando passano proviene un chiasso meccanico che a tanti fa spavento. Chi ne ha mai viste tante tutte insieme? Anzi, chi ne ha mai vista anche solo una, prima di quel giorno.

Automobili.

«Ma quante sono, cinquantamila lire?»

«Tantissime sono!»

«Il premio per chi vince sono!»

«Per cinquantamila lire, pure in spalla me la porto, una di queste diavolerie!»

Ridono, questi giovani palermitani, e Saro sorride con loro. Da quello che ha sentito lui, quella somma

  • difficile da concepire – è il montepremi, al vincitore ne vanno solo trentamila, il resto è per il secondo e il terzo. Ma non vuole mettersi a questionare con questi, più ben vestiti e a loro agio di lui e pronti a babbiari
  • non gli va di farsi prendere in giro.

«Chiddu è ‘nu piemontese, Lancia si chiama!»

«Guardate come corre!»

Il sole levatosi di buon mattino martella come un fabbro sull’incudine nella fucina del dio Vulcano. Mar­tella senza posa sull’anello di strade che si snoda tra la piana a est di Palermo, oltre Termini Imerese, e i contrafforti delle Madonie, tra il mare laggiù e le montagne che incombono di su. Martella, il sole, sui fumi di scarico delle automobili e sulle nubi di polvere che si levano al loro passaggio, a onta del miscuglio di bitume e catrame fatto spruzzare sul percorso, in specie in corrispondenza delle curve, dagli organizzatori della neonata com­petizione, la gara di cui tutti parlano e che porta il loro nome.

La Targa Florio.

Che pure una targa tutta d’oro è in palio per chi taglierà per primo il traguardo – realizzata apposta da un famoso gioielliere, pare abbia un valore di ben cinquemila lire!

Quanti quattrini, mormora tra sé Saro, e per un attimo pensa con amarezza a casa … ma si ferma, non è venuto fin lì da Marsala in treno, a piedi e in carretto, sobbarcandosi una sfacchinata terribile, copren­dosi di polvere e di stanchezza, raccontando frottole e inventando scuse a mamà e a papà per giustificare quell’assenza («Vado ad accattarmi della stoffa inglese a buon mercato, è un’occasione, e intanto prendo un po’ d’aria», ha farfugliato cer-

cando di apparire convincente, «Seee, tu qualche fimmina ti vai ad accattare», ha buttato lì Pitrino, il mag­giore dei fratelli, «Ma se è a buon mercato … », ha rincarato la dose Nardo, il secondo, e a quel punto mamma Antonina ha intimato di smetterla con le sconcezze) non si è spinto fin lì per mugugnare col livore degli invidiosi sulla immensa fortuna dei signori Florio. Le ha colte, prima, le spruzzate di veleno, tra i borbottii e il cicaleccio e gli oooh e gli uuuh e gli aaah della folla, radunata soprattutto intorno al rettilineo della par­tenza, a Buonfornello. Spruzzate velenose rivolte ai signori e alle signore tutti eleganti e in ghingheri, bene in vista sulle tribune erette per loro, tra cui spiccano le famiglie più ricche di Palermo: azzimati gentiluomini in paglietta e fascinose signore in abiti à la parisienne, come diceva il maestro di Saro, con tanto di guanti e om­brelli parasole. Eccome se è piovuto il veleno …

«E pensate che facevano la fame, in Calabria … »

«Poi son capitati qui, nella nostra generosa Trinacria, e hanno trovato l’albero dei piccioli … »

«E che ci volete fare, la fortuna cieca è, bisogna pure saperci fare, pensate ai nostri baroni che per non finire a mendicare si vendono terre e palazzi, o danno le figlie in spose ai ricchi mercanti!»

«I Florio invece di piccioli se ne intendono, gli dai una lira e loro ce ne cavano cinque … »

«Ma che cinque, cento ne cavano!»

«Si fecero i milioni con le spezie, con lo zolfo, col vino, col tonno … con tutti i traffici possibili e pure impossibili, tengono le navi e tengono di che riempirle … »

«Quelli pure con la merda di mulo i milioni facevano, se avevano occasione … »

No, non è per questo che Saro oggi è qui, in questa domenica 6 maggio del 1906.

Strizza gli occhi, e per un attimo – solo per un attimo – ha nostalgia del bozzolo d’ombra e di quiete della sua botteguccia, del manichino di legno scheggiato che lo sta ad ascoltare paziente quando gli ragiona di questo e di quello mentre taglia e cuce, il manichino non gli risponde è vero, ma nemmeno gli dà contro – solo un attimo, poi torna a respirare polvere e chiacchiere e profumi e sudore, e si avvia per sgranchirsi, passando sotto gli occhi di uno dei tanti carabbineri che presidiano il circuito, un’occhiata e poi il milite lo ignora, Saro non ha una grinta da mafioso o da malvivente a quanto pare. Gli piacerebbe risalire tutto il giro, vedere pae­sini di pietra e fichi d’India abbarbicati su in alto come Castellana Sicula o Petralia Sottana, ma gli ci vorrebbe un’automobile pure a lui, e un conducente alla guida: ha letto su un volantino che il percorso studiato da Vin­cenzo Florio e dai suoi amici di alto rango, siciliani e francesi …

Vruuummm

«Un’altra automobile, guardate che bestia meccanica!»

Teuff-teuff

«Quello è francese».

Vraaammm

«Ma quale? Metà dei piloti in gara sono di Francia!»

«E io che ne so?! Ma uno che accanto tiene una fimmina coi pantaloni, invece di un meccanico, può mai essere italiano?»

Scaccia il pensiero, è già abbastanza accalorato così.

Il percorso dunque è lungo ben centoquarantotto chilometri, e le automobili se lo devono girare tutto per tre volte, il che fa – non gli serve carta e matita, di testa Saro è svelto con i numeri e i conti- la bellezza di quat­trocentoquarantaquattro chilometri, madonna quanti sono!

Però un altro tratto a piedi se lo può fare, andare verso Cerda che è solo bassa collina – si mangia pane e olive, che si è portato in un fagotto, e mentre mastica, rimastica pure quella parola che ha imparato non da molto.

Pro-gre-sso.

A insegnargliela, è stato don Miche’, il maestro a disposizione Michele Bendicò, che di tanto in tanto gli capita in bottega: non per farsi fare un vestito, magari, il maestro Bendicò ha un completo estivo grigio e uno invernale nero, sempre quelli, dalla notte dei tempi, e gli legge articoli di giornale, gli insegna verbi e parole nuove, pure qualche briciola di latino («Rosa, rosae, rosae… »), e a Saro non dispiace imparare.

«Bravo Saro, fai progressi», gli dice il maestro Bendicò.

Pure imparare è progresso. Pure il teuff e il vruummm delle automobili è progresso.

Il progresso è qualcosa che si muove, che viene avanti e accelera, e fa rumore e fumo e pure paura fa, perché il nuovo («il nuovo che avanza» ha sentenziato il maestro Bendicò) fa paura a molti, Saro questo l’ha capito a naso, il progresso che viene avanti e non si ferma e non gli puoi dire di starsi quieto e zitto e buono, il progresso è il carbone che riempie la pancia dei treni, è la luce elettrica che esce dal muro, è il telefono che da Marsala puoi parlare con i parenti che stanno a Portici, è una “diavoleria” con quattro ruote di legno e di caucciù che cammina da sola, spinta da un motore che fa baccano, fa fumo e puzza. Puzza e paura. Meglio con­tinuare a dorso di mulo, allora, lento come la fame e che fa puzza pure lui?

Sì, in questa domenica di maggio Saro si è spinto fin qui dalla sua lontana Marsala per vederlo con i suoi occhi questo progresso, e certo le diavolerie, la folla, le signore belle e i signori coi baffi impomatati lo hanno colpito, sì, ma ancora non lo ha visto davvero, questo benedetto “progresso” – gli verrebbe da chiedere in giro «Scusate ma voi lo avete visto il progresso?» ma lo guarderebbero strano, gli direbbero se per caso èfoddri, se è pazzo, ha visto e sentito gente entusiasta, uomini già maturi che strillavano come picciriddi e altri accigliati, che non capiscono a che servono queste diavolerie … non capiscono e si chie­dono se magari non sono diavoli anche quelli che le conducono, quelle casce di rnortu. Che si fatica pure a vederli in faccia, i piloti, con gli occhialoni calati e i musi sporchi che si ritrovano, che gente saranno? Ricchi che hanno tempo da perdere perché non hanno bisogno di lavorare per vivere? Avventurieri, che magari girano con un revolver sotto gli spolverini? Sono loro, il progresso?

Le ore passano, le automobili corrono, l’attesa per sapere chi è il vincitore che si porterà a casa la gloria e si metterà in tasca i soldi del premio cresce.

Saro è accovacciato accanto a un gruppetto di tizi che parlano con l’accento diverso dal suo, a lume devono essere di Girgenti. Saro ha sete. È stanco. Vorrebbe tornare a casa, e sa che ci vorrà tanto tempo.

Ed ecco che succede.

Un rombo in arrivo che si spegne all’improvviso.

Un bolide coperto di polvere che si trascina ancora per qualche metro, come una barca che va avanti per un pochino quando i rematori hanno smesso di remare.

Un bolide che da fermo, a pochi passi da dove sta Rosario, bolide non sembra più. Sembra solo uno scato­lone con quattro ruote di legno e di caucciù.

Quelli di Girgenti borbottano, commentano a bassa voce. Uno ridacchia, e Saro vorrebbe dirgli che se è venuto fin da Girgenti solo per ridere di uno di questi intrepidi poteva pure starsene a casa. Il pilota è sceso, si è tolto gli occhialoni e si è pulito la faccia con uno straccio sudicio, senza grandi risultati. Sul muso (si chiamerà così? Si chiede Saro) dell’automobile c’è dipinto un gran numero 3 e una delle ruote davanti è un po’ sbilenca e …

Saro lo guarda in faccia, il pilota, e il pilota guarda lui, entrambi ignorano uno dei girgentini – un bassetto con la panza – lì a dire che un mulo ci vorrebbe per rimorchiare l’automobile e lui a casa ce l’ avrebbe pure, peccato che non

se l’era portato, e gli altri a ridere, e il pilota ha detto secco secco qualcosa di sprezzante sotto i baffi neri all’insù, senza guardare quella manciata di perditempo, Saro non ha capito, forse è francese, forse è del Set­tentrione e non è che si capisce bene quando parlano, almeno quei pochi del Settentrione con cui ha avuto a che fare …

E poi è partito di scatto, il baffuto, lo spolverino che sbatteva come un paio d’ali afflosciate che ripigliano vita, mentre Saro ancora stava pensando se poteva aiutarlo, ma non sapeva come fare, meschino, e gli di­spiace a Saro perché gli ha visto dentro agli occhi e gli è sembrato che fosse disperato, come se non riuscisse più a guardare oltre il suo bolide ormai immobile, come se non avesse più una strada davanti, e il girgentino a dire minchiate, ma chi se ne fotte sembrava dire il pilota …

Dopo non tanto, non pochissimo, Saro non saprebbe dire quanto tempo è passato – eccolo tornare di corsa, scattante, ha il respiro grosso ma stringe i denti, e in spalla un … una cassa, qualcosa di pesante, no è una latta, fa un cenno imperioso ai girgentini che stavano a babbiari intorno all’automobile (uno ha detto che è una Itala, chissà se è vero) e ha svitato un grosso tappo di ferro, per poi inclinare la grossa latta verso il buco aperto nel motore e versarci dentro tutto un liquido che riluce sotto il sole caldo («Ma come viaggiano queste vostre automobili, don Michele?» «Per mezzo di un combustibile liquido, Saro». «Un che?» «Vanno a benzina, Saro!» «Ah!») e poi il tizio passa la latta vuota al girgentino e borbotta secco qualcosa, come se gli dicesse «Renditi utile», e il girgentino d’istinto la prende e la guarda stupito e manca poco si metta sull’attenti («Portala a un mulo, Nenè, che magari se la beve e si mette a correre pure lui!» I suoi amici sghignazzano, il girgentino avvampa, gira così, un momento prima sei tu a babbiari, un momento dopo di­venti babbiato).

Con l’aiuto del meccanico che non ha aperto bocca il pilota ha riavviato il motore del bolide numero 3, e sta per ripartire …

«Voscienza scusasse, come vi chiamate?»

Il pilota si gira, guarda Saro che ripete «Perdonatemi, qual è il vostro nome?» e glielo dice, un attimo, poi si cala di nuovo gli occhialoni sulla faccia e vrruummm, il bolide è di nuovo in corsa, il pilota saldo al volante, a testa alta. Saro pensa che uno così vincerà, per forza: avrebbe potuto gettarsi a terra a maledire Domineddio e tutti i santi, prendere a calci le ruote e andarsene come se l’automobile fosse davvero una bara e dentro ci stava un morto, che i morti li puoi solo piangere, invece ha guardato avanti, è andato fino al posto di rifor­nimento ed è tornato in fretta e furia, e Saro gli ha guardato di nuovo dentro agli occhi e si è reso conto che era sparita la disperazione ed era tornata la speranza, in quelle pupille lucide, che il senso di smarrimento era finito svelto com’era cominciato, che il pilota aveva ritrovato la strada. E chissà dove sarebbe arrivato, altro che la Targa Florio, uno che si chiamava Alessandro Magno, come il grande condottiero dell’antichità di cui gli ha parlato tempo addietro il maestro Bendicò, per fare un paragone con il generale Garibaldi …

Tra qualche giorno il maestro a disposizione Bendicò gli spiegherà che ha avuto la ventura di incontrare Alessandro Cagno, operaio torinese “promosso” pilota, vincitore della prima Targa Florio («Alla velocità media di oltre quarantasei chilometri orari!»).

Per intanto, sballottato sul carretto tirato da un mulo accanto a un contadino cui ha chiesto un passaggio per l’ultimo tratto verso Marsala, Saro ha in mente il coraggio e la determinazione del settentrionale, ha in mente quegli occhi che non hanno detto mi arrendo, forse un momento, sì, ma poi si sono ripresi e il guaio, l’impiccio è diventato solo quello, una seccatura, uno sforzo e un po’ di tempo perso, e quando è tornato gli ha pure sorriso, a Saro, con un lampo di denti, mentre gli diceva il proprio nome, un sorriso ancora sporco di polvere. E Saro ha pensato e si è detto – si è giurato – che vuole imparare quello sguardo lì, vedere con quegli occhi lì.

Perché a lui gli è sembrato un eroe, il pilota dell’automobile. Per questo quando il girgentino babbiaturi ha sputato la sua sentenza, «A mia ‘u pilota mi sembra un povero coglione», Saro si è girato e l’ha guardato male e quello ha fatto un cenno con la testa come a dire «Che hai da guardare», e Saro se n’è stato zitto pensando me­glio che vado via, e l’altro – che essere schernito è una sedia stretta, ti ci vuoi togliere appena puoi – ha detto agli amici suoi «Vedeste quanti pezzenti sono arrivati? Che si credono, che l’hanno fatta per loro ‘a gara?» E uno dei suoi compari: «Dice che hanno annunciato che ci toglievano i pidocchi gratis, ai pezzenti». Risate. Il girgentino pronto indica Rosario:

«E non vi pare che iddu ne ha bisogno di farsi spidocchiare e pure di farsi lavare, che puzza come una vacca? Se eravamo più vicini lo buttavamo a mare», e gli altri ridono ancora, e Rosario si gira di nuovo e non dice niente ma i suoi occhi parlano assai, e il girgentino fa un passo avanti e lo piglia per il bavero della giacca: «Se a tia ti scuoto quanti pidocchi cascano ah?»

E a Rosario viene la rabbia proprio, gli dà uno spintone: «Ma che vuoi da me, fituso», il girgentino sbianca poi tutto rosso in un amen caccia un coltello e mena un fendente, tira a sfregiarlo, Rosario si scansa, un bru­ciore cattivo alla spalla, ma che gli ha fatto a questi, ma che vogliono, ma che si credono, ebbasta … e con tutte le forze gli schizza un pugno che lo piglia sul naso, al girgentino, e lo schiaccia come un fico d’India, e il piccolo sarto li guarda come se fosse pronto a pigliarli a pugni in faccia a tutti … poi uno dice i carabbineri, amuninni che è meglio, fanno cerchio intorno al compare ferito e si allontanano, e uno sputa per terra davanti a Rosario, che si ripiglia, qualcuno lo guarda e una donna gli tende un cencio, per il sangue, ed è così, con uno straccio nero sul rosso della camicia bianca grigia di polvere, che Rosario si allontana, pieno ancora di rabbia, che c’è mancato poco …

Saro storce la bocca, braccio e mano gli fanno male ma passerà, è la dignità che se non la difendi te la levano e non ce l’hai più, l’ha capito in un attimo, è la testa che gli scoppierà, se non scopre dove portano que­gli occhi, che di certo arrivano lontano.

E dopo aver visto e quasi toccato uno dei marchingegni simbolo di questo progresso di cui gli ha parlato Bendicò, Rosario Catalano, che in famiglia tutti chiamano Saro, si è persuaso che il progresso non sono le automobili o la luce elettrica, ma chi le inventa, chi le costruisce, chi le fa andare. Il progresso non sono le cose, sono gli occhi che le vedono prima ancora che esistano.

Può il progresso stare a Marsala? Tra cinquant’anni, forse. Nel frattempo, tocca muoversi, cercarlo. Vederlo dov’è, anche se è lontano. Anche se è di là dal mare, che chissà quanti chilometri sono!

Stanco, sereno, Rosario Catalano lo vuole vedere, il progresso. Ma non da solo. Un uomo da solo è come un’automobile senza benzina. Lui l’ha già vista, la donna che vuole. E per fortuna non è lontana, anzi.

Abita proprio dietro l’angolo.

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