Descrizione
CAPITOLO 1
La casa era immersa nel buio e avvolta da un silenzio profondo, che amplificava il suo respiro. Appiattita contro una delle pareti del soffocante sottoscala, Kate Scott era in allerta come un animale braccato, attenta a percepire qualsiasi movimento dalle altre stanze, angosciata all’idea che lui la trovasse.
Dio, ti prego, fa’ che non venga qui… Fa’ che non capisca dove sono nascosta…
Per quanto ancora sarebbe riuscita a sottrarsi al suo aggressore?
Non sapeva nemmeno più da quanto tempo fosse lì, terrorizzata, e sgomenta di fronte alla consapevolezza che nessuno avrebbe potuto salvarla.
Sentì una goccia di sudore che dalla tempia le scivolava lungo il viso, e poi giù, sul collo, ma non si mosse, temendo di fare rumore. Le gambe erano indolenzite, a causa dell’immobilità forzata, e un’oppressione al petto rendeva affannosa la sua ricerca d’aria.
Lasciò passare qualche istante e poi fece ancora appello a quello stesso coraggio che poco prima l’aveva tradita, lasciandola in preda al terrore. Sapeva che non poteva rimanere lì per sempre, così si impose di provare a staccarsi dal muro di appena un paio di passi. Era solo un inizio, ma doveva fare qualcosa per cercare aiuto.
Sembrava che fosse trascorso un tempo infinito da quando aveva sentito l’aggressore aggirarsi sicuro in casa, nel suo spazio, tra le sue cose. La voce dell’uomo era bassa, rude, rabbiosa. Pronunciava parole orribili e crudeli contro di lei. Godeva nel terrorizzarla, diceva che – ovunque si trovasse – l’avrebbe stanata e scuoiata come un coniglio.
Però era da un po’ che non percepiva più la sua presenza.
Forse per qualche motivo aveva deciso di andarsene e di risparmiarla, cercò di convincersi Kate, per trovare la forza di fare un altro piccolo passo. Forse qualcosa l’aveva distolto dai suoi propositi omicidi.
Ma non finì di formulare quel pensiero che due mani grandi, dalla presa vigorosa, l’afferrarono alla gola.
«Brutta puttana! Adesso la smetterai di fare tanto l’altezzosa!»
Inveiva contro di lei, e stringeva, stringeva sempre di più, in una morsa crudele che le impediva di respirare. Perché la odiava così tanto?
I polmoni sembravano volerle esplodere nel petto e inutilmente Kate scalciava per cercare di liberarsi. Se non fosse riuscita a sottrarsi alla violenza del suo aguzzino, sarebbe morta.
Sto già morendo…
Era così che ci si staccava dalla vita? Era così che tutto all’improvviso smetteva di rivestire qualsiasi importanza? Anche i pensieri non erano più niente. A guardarla da lì, da quell’istante, l’esistenza non era che un inutile rincorrersi di cose senza senso.
Doveva solo accettare che fosse finita…
Poi, inaspettatamente, l’aria tornò a riempirle i polmoni, quasi stordendola. E Kate la inspirò con tanta avidità che il suono gutturale che emise la impressionò. La stretta intorno al collo si era allentata e la forzata apnea era finita.
Era viva. Per quanto avesse temuto di non farcela, era ancora viva.
Lentamente aprì gli occhi e guardandosi intorno si rese conto che non c’era alcun aggressore. E non era nemmeno chiusa nel piccolo sottoscala per sottrarsi a quella rabbia cieca. Nessuno la minacciava, in realtà. Era nel suo letto, madida di sudore, e mettendosi a sedere, Kate comprese che si era trattato solo di un incubo. Dello stesso terribile incubo che la perseguitava da anni. Quell’uomo, nascosto in casa, che la braccava per ucciderla.
Conosceva ormai infinite varianti di quell’orribile sogno, ma questo non lo rendeva meno spaventoso. Kate strofinò le mani sul viso per cacciarne via il ricordo. Si portava ancora dietro la sensazione del soffocamento, come se davvero qualcuno avesse cercato di strangolarla.
Doveva smettere di pensarci e lasciare andare via la paura.
Respira, ora… Pensa solo al respiro…
Poi un rumore inaspettato, una specie di fruscio, la fece irrigidire di nuovo. Sembrava provenire dal piano di sotto.
Kate rimase immobile, i sensi tesi a cogliere qualsiasi movimento. Era di nuovo un animale acquattato nell’oscurità che doveva lottare per la sua sopravvivenza. Ma questa volta era sicura che non si trattava di un sogno. Con studiata lentezza, spostò le gambe fino a toccare il pavimento con i piedi.
Il buio della stanza era appena rischiarato dal display luminoso dell’orologio, e quel leggero chiarore la aiutò a orientarsi. I suoi occhi piano piano si abituarono all’assenza di luce e cominciò a distinguere i contorni delle cose.
Cagliostro, come sempre, stava dormendo sul bordo del letto e questo le confermò che non era stato il gatto la causa di quel fruscio.
Con circospezione, Kate allungò la mano verso il comodino. Il legno non fece rumore mentre apriva il cassetto e afferrava la pistola che ci teneva dentro. Quel contatto con il freddo metallico dell’arma la fece sentire un po’ più sicura. Strinse forte la piccola Beretta semiautomatica e sperò di non dover essere costretta a usarla.
Forse si era sbagliata, provò a convincersi. I suoi incubi le lasciavano addosso una strisciante sensazione di vulnerabilità, e poteva essersi suggestionata.
E se invece quel rumore non fosse stato frutto solo della sua fantasia?
Questa volta dovrai lottare per non essere una preda troppo facile… La casa continuava a essere avvolta dal silenzio e Kate comprese che non poteva rimanere così per sempre. Con la pistola stretta in pugno scese dal letto, raggiunse il corridoio e lo percorse silenziosamente, in allerta.
Non prestò ascolto al respiro affannoso, al sudore freddo che le imperlava la fronte, alle gambe che sembravano di pietra. Sapeva che se si fosse soffermata su quelle sensazioni, avrebbe permesso al panico di dilagare e non sarebbe più riuscita a controllarlo.
Scese i gradini a piccoli passi, la schiena rasente il muro, le mani strette intorno alla pistola, attenta a evitare che il legno scricchiolasse sotto i suoi piedi nudi.
Impiegò un tempo che le sembrò infinito per raggiungere il piano terra, e una volta arrivata in fondo alle scale, si fermò ancora. Per controllare che tutto fosse a posto, doveva attraversare l’ingresso e raggiungere il pannello dell’allarme. Ma in quei pochi passi c’era una minaccia infinita. Era possibile che qualcuno fosse acquattato dietro una delle porte che si affacciavano sul corridoio, aspettando solo di poterla aggredire alle spalle?
Per quanto fosse stata attenta a cogliere qualsiasi movimento, non aveva percepito altri segni che ci fosse qualcuno in casa. Il cuore le batteva all’impazzata, ma non c’era molto altro che potesse fare se non trovare il coraggio che le serviva.
Nonostante ogni centimetro del suo corpo facesse resistenza, un piccolo passo dopo l’altro, Kate riuscì a raggiungere la porta d’ingresso e quando finalmente controllò il display dell’allarme in parte si tranquillizzò. Il complesso impianto di sicurezza di Villa Mimosa stava funzionando alla perfezione. Non c’era traccia di alcuna anomalia, e questo significava che in casa non poteva esserci nessuno, oltre a lei.
Non è lui. Non è qui per ucciderti.
È stato, ma non sarà più.
Un attimo dopo, Kate raggiunse il suo studio e si soffermò davanti ai monitor della videosorveglianza. Le immagini delle telecamere piazzate in ogni angolo della casa, in giardino e anche nella piccola darsena sul lago le confermarono che non c’era niente di insolito di cui preoccuparsi.
Il nodo che aveva in gola piano piano cominciò a sciogliersi, e solo allora Kate si accorse del tremore che le scuoteva le mani, serrate intorno alla pistola.
Doveva continuare a concentrarsi sulla respirazione. Inspirare lentamente, e altrettanto lentamente espirare. Era così che la dottoressa Brandi le aveva consigliato di fare ogni volta che si trovava di fronte a un attacco di panico, per distogliere il pensiero dalle sensazioni fisiche che le segnalavano un pericolo che non c’era.
Kate lo fece una volta, due, e altre ancora. E cominciò a sentirsi un po’ meglio.
Riuscì persino ad accennare un sorriso mentre pensava che – se si fosse trovata lì – la sua analista ne avrebbe approfittato per ribadirle che era stato un azzardo abbandonare le loro sedute dopo soli tre anni. Ma a lei tutto quel tempo passato a rimestare un dolore che non voleva saperne di passare era sembrato infinito. Non aveva l’ottimismo della dottoressa Brandi, né la pazienza che le sarebbe servita per continuare la psicoterapia. Se era così che doveva vivere, tanto valeva organizzarsi per farlo al meglio.
Cagliostro la raggiunse e le si strofinò contro le gambe. Dopo aver preso in braccio il gattone nero, desideroso di coccole, Kate diede un’ultima occhiata ai monitor per convincersi che nessuno era entrato in casa mentre lei dormiva e si confermò che tutto andava bene.
«Non c’è nessun pericolo. Puoi stare tranquilla.»
Pronunciò quelle parole ad alta voce, perché il sentirle le avrebbe rese più vere. Si era solo suggestionata per colpa del nuovo incubo, ma così com’era arrivata, tutta quell’ansia sarebbe andata via.
Anche se erano appena le quattro, e fuori era ancora buio, comprese che ormai non sarebbe riuscita a riprendere sonno. Indossò il kimono che usava come vestaglia e, dopo aver acceso tutte le luci della casa, raggiunse la cucina.
Voleva soltanto sentirsi al sicuro. Era quello il più grande regalo che chiedeva alla vita.
Forse, però, quel brutto risveglio non era venuto per nuocere, si disse qualche minuto più tardi, mentre sorseggiava il caffè. Aveva un’idea ancora troppo vaga della trama del nuovo romanzo, e per quanto il suo editore fosse sempre attento a non farle pressioni, non amava ritrovarsi con l’acqua alla gola quando c’erano delle scadenze da rispettare. L’ispirazione non era roba per chi avesse troppa fretta.
Quindi, rianimata dai buoni propositi, si versò dell’altro caffè, riempì di croccantini la ciotola di Cagliostro e si diresse al computer.
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