Descrizione
CAPITOLO 1
AMELIA
«Oggi come ti senti, Amelia?»
Osservai la penna della dottoressa Gordon picchiettare contro il legno della scrivania. Quel ticchettio mi mandava fuori di testa e sospettavo che lei lo sapesse. Nonostante ciò, continuava imperterrita, quasi sfidandomi. Io avrei solo voluto prendere la penna e ficcargliela in un occhio.
Anche in quel momento era così. Mi prudevano le mani dalla tentazione di farlo, ma dubitavo che la cosa avrebbe giocato a mio favore. Intendiamoci, le ero grata per tutto ciò che aveva fatto per me negli ultimi mesi. Senza di lei non ce l’avrei mai fatta, lo sapevo. Però quella cavolo di penna…
«Amelia?»
Sollevai lo sguardo dalla scrivania e incrociai gli occhi chiari della dottoressa.
«Bene… Mi sento bene.»
*
Caricai l’ultima valigia in auto e chiusi il bagagliaio, sudata come un maiale.
«Hai preso tutto?» domandò mia madre con espressione ansiosa.
«Credo di sì. Ma non sto partendo per la luna, mamma. Puoi sempre spedirmi le cose che mi mancano.»
Scosse la testa, regalandomi un’occhiataccia.
Ora sì che la riconosco!
Mi avvicinai e la strinsi in un abbraccio.
«Andrà bene, ma’. C’è Ceci con me, non sarò sola.»
Sospirò, scuotendo il capo. «È proprio questo che mi preoccupa…»
«Mamma!»
Mia sorella Cecilia sbucò fuori dalla porta di casa con una busta piena di cibo. «Guarda che ti ho sentita!»
Nostra madre fece spallucce e assunse un’aria severa. «Prenditi cura di Amy, sai che è appena uscita da…»
«Per prima cosa», la interruppi, «non sono ‘appena uscita’… ne sono uscita a giugno», puntualizzai. «E poi dobbiamo parlarne ancora?» Mi voltai verso mia sorella.
«Ora possiamo andare? Ho bisogno di cambiare aria», tagliai corto.
«Hai le medicine?»
Sbuffai, alzando gli occhi al cielo. «Ho le medicine e a San Diego esistono le farmacie. Ti prego mamma, piantala, ok?»
«Ok, ok! Ho due figlie odiose, accidenti!»
Io e Ceci scoppiammo a ridere e, istintivamente, corsi ad abbracciare la mamma per l’ennesima volta.
«Voglio solo che tu stia bene», mi sussurrò contro i capelli. «Gli ultimi mesi sono stati davvero…» Si bloccò.
«Uno schifo?» suggerii con un mezzo sorriso. «Posso farcela, sul serio. Ho solo bisogno di allontanarmi un po’. Qui ci sono troppi ricordi.» Mi si serrò la gola.
Mi carezzò il viso con dolcezza. «Lo so.»
Ceci, che era alle spalle di mamma, sorrise. «Glenn dov’è? Volevo salutarlo», disse.
«Stamattina aveva il turno in cantiere», replicò la mamma, dispiaciuta. «Ha provato a spostarlo, ma niente. Vi chiamerà più tardi.»
Ceci annuì e io posai un bacio sulla guancia di mia madre. Glenn era il suo compagno ormai da un paio di anni. I miei genitori si erano separati circa tre anni prima, dopo che mio padre, Denton Hudson, aveva tradito la mamma con un’altra donna, con la quale era poi andato a vivere. Glenn era una persona per bene, un po’ schivo, forse, ma teneva alla mamma e le dava quel sostegno e quell’amore incondizionato che mio padre non era mai riuscito a darle. Ero felice per lei e mi sollevava sapere che mia madre non sarebbe rimasta sola dopo la mia partenza.
Dopo altre mille raccomandazioni, io e mia sorella riuscimmo finalmente ad avviarci alla sua macchina, una Ford utilitaria di colore acquamarina.
«Coraggio, abbiamo quasi cinque ore di viaggio!» mi ricordò Cecilia.
Annuii e aprii lo sportello. Mi voltai un’ultima volta verso la mamma e mi guardai intorno, cercando di imprimere nella mente il luogo in cui avevo trascorso gran parte della mia vita, decisa più che mai a separarmene. Mandai un bacio in direzione di mia madre e salii in auto. Ceci partì e mi trattenni a stento dal voltarmi indietro.
CAPITOLO 2
AMELIA
«What doesn’t kill you makes you stronger, stand a little taller, doesn’t mean I’m lonely when I’m alooooone!»
Ceci cantava a squarciagola, il finestrino aperto e i capelli che ondeggiavano furiosi, smossi dal vento. Era stonata da morire, ma non me la sentivo di farglielo notare. Era così gasata che trasmetteva il suo buonumore anche a me.
«Allora… come ha reagito il tuo capo quando gli hai detto che ti serviva un giorno di permesso?» domandai sperando di porre fine alla sua penosa performance.
Ceci si voltò, gli occhiali da sole che riflettevano il mio viso stanco.
«Nulla di che. Tanto mi farà recuperare con una generosa dose di straordinari. Strongeeeer strongeeeeeeer, just me myself and I…»
Missione fallita…
Poggiai la testa al finestrino e socchiusi gli occhi. Non avevo dormito molto la notte precedente e il sonno cominciava a farsi sentire.
«Sembra fatta per te questa canzone», disse Ceci a un certo punto.
Mi voltai confusa. «In che senso? Io non ho rotto con un uomo.»
«No, ma ciò che non ti ha uccisa ti ha reso più forte.» Sorrise con tenerezza e allungò una mano verso di me, intrecciandola con la mia.
Sorrisi di rimando, sentendo un po’ della tensione accumulata scivolare via, lasciando dietro sé un piacevole torpore.
Mia sorella mi era mancata da morire. La sua innata capacità di mettere sempre le cose nella giusta prospettiva era un balsamo rigenerante. Avrei iniziato una nuova vita, in una nuova città. Più forte, più consapevole, più determinata. Avevo lei accanto e potevo fare tutto. Potevo e dovevo.
Anche per Erin.
What doesn’t kill you makes you stronger.
Forse Kelly Clarkson aveva ragione.
*
Dopo quattro ore e quaranta minuti di viaggio – e, immaginavo, un centinaio di multe per eccesso di velocità – arrivammo a destinazione.
Uscimmo dalla San Diego Freeway e imboccammo la Seaworld Drive, costeggiando la Mission Bay fino ad attraversare il canale, entrando finalmente a Ocean Beach, una delle zone costiere di San Diego. La città si spalancava davanti ai miei occhi, rendendomi euforica e terrorizzata al tempo stesso. Scrutavo il mare in lontananza e non vedevo l’ora di tuffarmi in acqua. Le strade erano stracolme di persone: in costume, in tenuta da lavoro, in abbigliamento casual e creavano una cornice variopinta che mi lasciò senza fiato.
«Che te ne sembra?» domandò Ceci osservandomi con attenzione.
«È… wow!» Mi incantai a fissare le palme che costeggiavano la strada da entrambi i lati.
Mia sorella sorrise compiaciuta e abbandonò la zona costiera per voltare sulla Sunset Cliff Boulevard.
«Molto diverso da Arvin, non ti pare?»
Annuii. «Era proprio ciò che volevo.»
Dopo una decina di minuti parcheggiammo in Brighton Avenue, di fronte a una bifamiliare a due piani di una tenue tonalità di giallo, e Cecilia spense il motore.
«Ok, un paio di informazioni sulla tua nuova casa: tre stanze, un bagno, un salotto e una cucina. La lavanderia a gettoni sta a tre isolati da qui e abbiamo due biciclette in caso non ti andasse di fartela a piedi. La spesa la facciamo insieme e ognuno ha un ripiano in cucina con le sue cose off-limits… tipo le mie noccioline.»
Alzai gli occhi al cielo. Ceci e le sue noccioline: un’infinita storia d’amore.
«Abbiamo la tv via cavo, la paghiamo inclusa nell’affitto e… boh. Se mi viene in mente altro te lo dirò. Ah già, finché non trovi un lavoro, io e Aidan abbiamo deciso che copriremo la tua parte dell’affitto insieme.»
Strabuzzai gli occhi. «Ma sei pazza? Vuoi che il tuo coinquilino paghi metà del mio affitto?»
«Si è offerto lui! Sapeva che avrei dovuto accollarmi il costo della tua stanza, almeno per un paio di mesi, quindi ha proposto di dividere. Forse vuole allargarti le gambe, chi lo sa…»
Allargarmi le gambe? Beh, buona fortuna…
Aidan Hale era il coinquilino e migliore amico di mia sorella da quattro anni. Si erano conosciuti a un open day universitario e avevano deciso di prendere un appartamento insieme per ammortizzare le spese. Era venuto a casa nostra, ad Arvin, una volta, ma io non l’avevo incrociato, presa com’ero dalle mie cose e da Erin. Sapevo che aveva passato da noi un paio di giorni anche per le vacanze di primavera ma, in quell’occasione, io non ero più a casa, ero già stata portata in clinica. Mia madre lo conosceva bene, avendo passato del tempo con lui quando lei e Glenn erano venuti a San Diego a trovare Ceci. Io, invece, non ero mai stata da mia sorella prima di quel momento e avevo appena un’idea di che faccia avesse Aidan, grazie alle foto che Ceci mi aveva mostrato sul cellulare.
Scaricati i bagagli, salimmo la rampa di scale che portava all’appartamento del primo piano. La zona era molto carina, proprio al centro di Ocean Beach e poco distante dalla spiaggia. Ceci armeggiò con le chiavi e, alla fine, riuscì ad aprire.
«Devo ricordarmi di togliere qualche portachiavi», ansimò trascinando dentro la mia mega-valigia rossa. «Ma che hai qui, un cadavere?»
Ghignai. «Forse… chi lo sa.»
I nostri discorsi furono interrotti da una voce maschile che risuonò lungo il corridoio.
«Ciao!»
Mia sorella sorrise. «Fa sempre così, ogni volta che sente qualcuno entrare o uscire, Dan urla il suo saluto. Abituati.»
Finimmo di spostare dentro le valigie e chiudemmo la porta.
«Dan! Vieni a conoscere mia sorella e poi, cavolo, dacci una mano!»
La porta in fondo al corridoio, leggermente socchiusa, si spalancò e il coinquilino di mia sorella uscì dalla stanza. Lo osservai mentre percorreva il corridoio, facendogli una radiografia completa con tanto di analisi del sangue. Era slanciato e ben proporzionato, con spalle larghe e vita sottile; la pelle di braccia e gambe era leggermente abbronzata, così come il viso, sul quale spuntavano due bellissimi occhi verde chiaro, incorniciati da una massa di capelli castani. Qualche leggera lentiggine gli punteggiava naso e guance e aveva un piercing al lato destro del labbro inferiore.
Cosa dicevamo sull’aprire le gambe?
«Aidan, ti presento mia sorella, Amelia. Lia, questo è il mio coinquilino/amico/compare di bevute/cuoco personale, Aidan», disse Ceci, soddisfatta.
Il ragazzo allungò una mano, sfoggiando un mezzo sorriso da infarto.
«Ciao Lia», sussurrò.
Non mi ricordavo più come si facesse a parlare. Biascicai qualcosa mentre gli stringevo la mano e tornai a concentrarmi sulle valigie, afferrandone una a caso.
Aidan parlottò con mia sorella, poi prese il bagaglio più grande e lo trascinò verso quella che immaginavo fosse la mia stanza.
Ceci mi picchiettò sulla spalla.
«Cosa c’è?» domandai.
Mia sorella sfoggiò il suo sorriso da «so cosa stai pensando».
«Ultima regola della casa, Lia: non prenderti una cotta per Aidan.»
*
Era quasi ora di cena quando finii di sistemare le mie cose in camera. La stanza era semplice e funzionale e conteneva tutto ciò di cui avevo bisogno: un letto a due piazze, un armadio a doppia anta di legno chiaro, una scrivania e una cassettiera dello stesso colore e un comodino bianco che avevo già riempito di libri. Le pareti erano di una tonalità neutra, una sorta di color panna che immaginavo potesse essere definito unisex.
Pian piano avrei trasformato quella camera nel mio mondo, personalizzandola. Per il momento, però, ero così stanca e affamata che se non avessi messo qualcosa tra i denti subito, avrei mangiato un pezzo di materasso. Uscii e mi avviai lungo il corridoio, notando del movimento in cucina.
Aidan e Cecilia stavano chiacchierando.
Come una brava stalker, invece di entrare, mi appiattii contro il muro accanto alla porta socchiusa e ascoltai.
«Che te ne pare di Lia?» stava chiedendo Ceci.
«È diversa da te.» Non avrebbe potuto avere più ragione. Io e mia sorella eravamo agli antipodi. «Cavolo, mi ha a malapena rivolto la parola!»
Mi morsi un labbro. Un minuto scarso in presenza di Aidan e già avevo fatto la figura della stronza.
«Forse ha capito subito che sei una testa di cazzo. Sai, dalla tua faccia», lo punzecchiò Ceci.
Lui ridacchiò. «Forse gliel’hai detto tu. Comunque non sono una testa di cazzo. Non sempre, almeno», puntualizzò.
«Vero. Con me non lo sei mai.»
Sentii un rumore di passi e poi uno schiocco simile a un bacio.
Ma stavano insieme? Una punta di delusione si impadronì di me, senza motivo.
Decisi di entrare. La cucina era di discrete dimensioni, con un bel tavolo di legno scuro e un piano cottura a quattro fuochi circondato da diversi mobili e pensili. Aidan era ai fornelli e Ceci, stravaccata su una sedia, addentava una mela. Quando entrai, saltò su e venne verso di me.
«Lia! Ti sei sistemata?»
Annuii, lanciando un’occhiata fulminea al ragazzo.
«Vieni dai, siediti con me e parliamo un po’.» Mi spinse verso il tavolo e mi fece sedere. Dovevamo parlare proprio lì, davanti ad Aidan?
«Come sei rimasta con l’università? Tutto risolto?» domandò Ceci, ignorando il fatto che mi stavo comportando da asociale.
«Sì. La prossima settimana farò i test integrativi. Con quelli potrò accedere alle lezioni del secondo anno, che iniziano tra due settimane.»
Aidan si voltò e mi rivolse un mezzo sorriso. «Cosa studi?»
Distolsi subito lo sguardo da lui e borbottai. «Lingue straniere.»
«Lia è una secchiona», intervenne mia sorella, «e legge tantissimo.»
«Anche tu leggi tantissimo», le feci presente.
Entrambe avevamo una passione viscerale per i libri, ne avevamo talmente tanti che non sapevamo più dove metterli.
«A proposito, dove li hai ficcati i tuoi? Nella mia stanza c’è posto a malapena per un terzo dei libri che mi sono portata.»
«Un po’ ovunque. Sotto il letto, in bagno, accanto alla tv. Alcuni li ho nascosti anche in camera di Aidan.» Fece l’occhiolino al ragazzo che, per tutta risposta, sorrise.
«Comunque le ho regalato un e-book reader», disse lui, «così la pianterà di mollare libri ovunque.»
Mi voltai verso di lui con gli occhi sgranati e, per la prima volta da quando ero arrivata, non distolsi lo sguardo quando i suoi si soffermarono sul mio viso.
«Eretico!»
Lui scoppiò a ridere e abbassò il capo, scuotendo la testa.
«È quello che ho detto anch’io», disse Cecilia, soddisfatta.
«Sì, poi mi hai lanciato contro l’e-book reader. È ancora imballato e pronto all’uso, per inciso.»
Sorrisi e diedi il cinque a mia sorella.
Noi avevamo un’idea ben precisa sulla lettura: i libri veri sono fatti di carta e inchiostro, di odori e sensazioni. Il resto è noia.
«In questo siete identiche, cavolo!»
«Noi siamo anime affini, Dan, diverse ma uguali, insieme per sempre», annunciò Cecilia.
La fissai e mi sciolsi in un sorriso. Era il nostro motto, da sempre. Nei momenti più difficili, sin da quando eravamo piccole, io e Cecilia ripetevamo questa frase, mano nella mano, viso contro viso, stese nel suo letto. Eravamo unite da un legame fortissimo, l’una l’ancora dell’altra, pronte in ogni momento a farci forza a vicenda, anche se negli ultimi tempi ero stata io ad avere più bisogno di lei.
C’era Cecilia con me, la mattina in cui la mamma di Erin mi aveva chiamata, in lacrime, ed era stata lei ad accompagnarmi a casa della mia amica, mentre piangevo con il cuore impazzito, temendo ciò che i signori Benson avevano da dirmi.
Mi si formò un groppo in gola. Era ancora troppo presto, maledizione, non riuscivo a gestire le mie emozioni quando i pensieri vagavano in quella direzione. Sentii una lacrima scivolare lungo la guancia e mi affrettai ad asciugarla.
Ceci se ne accorse e si alzò in piedi.
«Vieni Lia. Ti faccio vedere una cosa.»
Mi trascinò fuori dalla cucina, sotto lo sguardo interrogativo di Aidan, e mi guidò verso il salotto. La stanza era un po’ più grande delle altre e non c’erano molti mobili a ingombrarla, solo un divano in pelle al centro, davanti a una tv al plasma appesa al muro, una poltrona, una libreria su cui erano stati appoggiati libri e quaderni, e un tavolino pieno di fogli e progetti. Ceci mi indicò una portafinestra sulla sinistra, che si apriva su un grazioso terrazzino. Uscendo, rimasi quasi folgorata da ciò che mi trovai di fronte. Da lì, potevo vedere tutto il quartiere residenziale di Ocean Beach e, al di là di esso, la spiaggia e l’infinita distesa blu dell’Oceano Pacifico. Era uno spettacolo unico, che mi alleggerì l’animo. All’orizzonte, l’acqua baciava il cielo, congiungendo i due elementi. Un’unica sfumatura di celeste invadeva il mio campo visivo, dandomi l’impressione che l’oceano continuasse il suo cammino verso l’alto.
Ceci mi prese la mano. «Ti ho portata qui perché pensavo che questa vista potesse farti sentire meglio. Con me funziona sempre, mi sento libera ogni volta che osservo l’oceano.»
Le lanciai un’occhiata, ma non dissi nulla, le parole erano bloccate in gola, assieme alle lacrime. Mia sorella si chinò su di me e mi prese il viso tra le mani.
«Insieme per sempre, Lia», mi sussurrò. «Resta con me, ok?»
Riuscii a malapena ad annuire, mentre qualche lacrima, sfuggita al mio controllo, scorreva silenziosa lungo le guance. Sarebbe mai andata meglio di così? Quel dolore pulsante che mi stringeva il cuore e mi bloccava i polmoni sarebbe mai diminuito?
What doesn’t kill you makes you stronger…
Io, però, non ero sicura di essere ancora viva.
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