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Estensione del dominio della lotta

11,40

Trent’anni, analista programmatore in una società di servizi informatici, il protagonista di questo romanzo conduce un’esistenza indifferente. Il lavoro, i viaggi d’affari, le prigioni dell’amore e del sesso, l’assenza di qualsiasi sentimento che non sia di insofferenza verso se stesso, lo scivolare lento e inesorabile in uno stato di insensibilità dal quale sembra non esserci via d’uscita. In una lingua affilata e gelida, che più volte costeggia i territori di tragedie innominabili, Michel Houellebecq compone un romanzo epocale, una educazione alla non-vita, alla noia, all’indifferenza capace di segnare la generazione contemporanea come Lo straniero di Camus segnò i giovani del dopoguerra.

“Su un muro della stazione Sèvres-Babylone ho visto uno strano graffito: ‘Dio ha voluto ineguaglianze, non ingiustizie’ c’era scritto. Mi sono chiesto chi fosse quella persona così bene informata sui propositi di Dio.”

Informazioni aggiuntive

Editore

Data di pubblicazione

16 maggio 2019

ISBN-13

978-8893448642

Lingua

Italiano

Formato
Copertina flessibile

€ 11,40

COD: 6324 Categoria: Tag: Product ID: 21189

Descrizione

1.

La notte è inoltrata, il giorno si avvicina.

Spogliamoci dunque dell’opera delle tenebre

e indossiamo le armi della luce.

Romani, XIII, 12

Venerdì sera sono andato a una festicciola a casa di un collega. Eravamo una trentina e passa, tutti quadri di medio livello, tra i venticinque e i quarant’anni. A un certo punto una scema ha cominciato a spogliarsi. Si è sfilata la maglietta, poi il reggiseno, poi la gonna – il tutto facendo smorfie incredibili. È rimasta così per qualche secondo, ad ancheggiare in mutandine; poi, non sapendo più cosa fare, si è rivestita. Tra l’altro è una che non la dà a nessuno; il che sottolinea l’assurdità del suo comportamento.

Dopo il quarto bicchiere di vodka ho cominciato a sentirmi malissimo e sono andato a sdraiarmi su un mucchio di cuscini dietro il divano. Poco dopo, due tizie sono venute a sedersi proprio su quel divano. Sono due tizie tutt’altro che belle, anzi, due cesse totali. Vanno sempre a mensa in coppia e leggono libri sullo sviluppo del linguaggio nei bambini, quel tipo di roba lì.

Appena sedute si sono messe a commentare l’evento del giorno, ossia il fatto che una delle impiegate fosse venuta in ufficio con una minigonna pazzescamente mini, raso-chiappe.

Come la vedevano, questa faccenda della minigonna pazzescamente mini? La vedevano bene. Le loro sagome si stagliavano come ombre cinesi sulla parete sopra di me, mostruosamente ingrandite. Le loro voci mi sembravano arrivare da molto in alto, un po’ come lo Spirito Santo. Il fatto è che stavo da cani.

Per un quarto d’ora hanno continuato a infilare una banalità dietro l’altra. Tipo che quella tizia aveva tutto il diritto di vestirsi come le pareva, e che questo non aveva niente a che fare con il desiderio di sedurre i maschi, e che era solo per avere un buon rapporto con il proprio corpo, per piacere a se stessa, e via di seguito. Ultime e deprimenti scorie del crollo del femminismo. A un certo punto l’ho persino detto ad alta voce: “Ultime e deprimenti scorie del crollo del femminismo.” Ma non hanno sentito.

Anch’io avevo notato la ragazza con la minigonna. Difficile non vederla. Tanto che persino il capufficio era arrapato.

Mi sono addormentato prima della fine del dialogo e ho fatto un sogno tremendo. Le due cesse si tenevano sottobraccio in mezzo al corridoio che attraversa l’ufficio, e ballavano a mo’ di cancan cantando a squarciagola:

Se vado in giro con il culo in bella vista,

Non è per sedurre il maschio sciovinista!

Se sfoggio le mie gambe un po’ irsutelle,

È perché le trovo molto belle!

La tizia con la minigonna era sulla soglia di una stanza, ma adesso indossava un lungo abito nero, misterioso e sobrio. Le guardava sorridendo. Appollaiato sulla sua spalla c’era un gigantesco pappagallo con la faccia del capufficio. Di tanto in tanto gli accarezzava le piume del petto, con mano svagata ma esperta. Al risveglio mi sono reso conto che avevo vomitato sulla moquette. La festicciola si avvicinava alla fine. Ho nascosto il vomito sotto un paio di cuscini, poi mi sono alzato in piedi per cercare di tornare a casa. A quel punto mi sono accorto che avevo perso le chiavi della macchina.

 

2. In mezzo ai Marcel

 

Due giorni dopo era domenica. Sono tornato nel quartiere, ma non c’era traccia della mia macchina. In realtà non ricordavo più dove l’avessi parcheggiata; le strade sembravano tutte quella giusta. Rue Marcel Sembat, Rue Marcel Dassault… molti Marcel. Edifici rettangolari, dove abitano persone. Violenta sensazione di specularità. Ma la mia macchina dov’era?

Mentre camminavo tra quei Marcel mi sono sentito pervadere da un crescente fastidio per le automobili, e per le cose di questo mondo. Da quando l’avevo comprata, la mia Peugeot 104 mi aveva procurato solo grane; guasti continui e poco comprensibili, piccoli incidenti… Certo, i conducenti rivali affettano disinvoltura, tirano fuori i moduli di constatazione amichevole, dicono: “Ok, d’accordo,” ma in realtà ti lanciano occhiate piene di odio; è molto seccante.

E poi, a pensarci bene, per andare in ufficio prendevo la metropolitana; nei weekend non mi muovevo più di casa, in mancanza di mete allettanti; per le ferie sceglievo perlopiù il viaggio organizzato, a volte il soggiorno in villaggio-vacanze. “Che me ne faccio della macchina?” mi ripetevo nervosamente mentre imboccavo Rue Émile Landrin.

Ma solo quando sono arrivato in viale Ferdinand Buisson, mi è venuta l’idea di sporgere denuncia per furto. Oggigiorno rubano un sacco di automobili, soprattutto in periferia; l’ipotesi sarebbe stata facilmente compresa e accettata sia dall’assicurazione sia dai miei colleghi. Potevo mai confessare di averla persa? Avrei fatto la figura del mattacchione, o magari dello stravagante o del buffone; mossa molto imprudente. Su questi argomenti non si scherza, sono la base della reputazione, quella su cui si crea o si distrugge un’amicizia. Io la vita la conosco, ne ho dimestichezza. Ammettere di aver perso la macchina significa in pratica radiarsi dal corpo sociale; meglio parlare di furto.

Più tardi, quella sera, la mia solitudine si è fatta dolorosamente tangibile. Sul tavolo della cucina erano sparpagliati dei fogli, tutti un po’ sporchi di resti di tonno alla catalana Saupiquet. Erano appunti per un racconto sugli animali; la narrativa sugli animali è un genere letterario come gli altri, forse persino superiore agli altri; comunque sia, io scrivo racconti sugli animali. Quello s’intitolava Dialoghi tra una mucca e una puledra; lo si poteva definire “meditazione etica”; mi era stato ispirato da un breve soggiorno di lavoro nel Pays de Léon. Eccone uno stralcio significativo:

Consideriamo innanzitutto la mucca bretone: per tutto l’anno pensa solo a brucare, il suo bel musello lustro si abbassa e si alza con regolarità impressionante, e nessun fremito d’angoscia turba mai lo sguardo mite dei suoi occhi marrone chiaro. Tutto ciò dà una bella impressione di vigore, tutto ciò pare addirittura indicare una profonda coerenza esistenziale, una per molti versi invidiabile identità tra il suo essere-al-mondo e il suo essere-in-sé. Invece, ahimè, in questo caso il filosofo si trova colto in fallo, e le sue conclusioni, quantunque fondate su un’intuizione giusta e profonda, si riveleranno intrinsecamente viziate se prima non avrà avuto l’accortezza di documentarsi presso il naturalista. Duplice, infatti, è la natura della mucca bretone. In determinati periodi dell’anno (rigorosamente sanciti dall’inesorabile programmazione genetica), nel suo essere si produce una rivoluzione sbalorditiva. I suoi muggiti si intensificano, si prolungano, la loro stessa tessitura armonica si altera sino a somigliare, talvolta in maniera strabiliante, a certi lamenti emessi dai figli dell’uomo. I suoi movimenti si fanno più rapidi, più nervosi; talora arriva addirittura a trotterellare. Persino il musello, che pur sembrava, nella sua lustra regolarità, concepito per riflettere la permanenza assoluta di una saggezza minerale, comincia a torcersi e contrarsi per lo stimolo doloroso di un desiderio d’indubbia potenza. La chiave dell’enigma è assai semplice, ed eccola qui: ciò che la mucca bretone desidera (manifestando così, le va resa giustizia su questo punto, l’unico desiderio della sua vita) è, come dicono gli allevatori nel loro gergo brutale, “farsi riempire”. Perciò essi la riempiono, in maniera più o meno diretta; la siringa dell’inseminazione artificiale, infatti, può sostituire a questo scopo il pene del toro, sia pure a costo di qualche complicanza emozionale. In entrambi i casi la mucca si placa e torna al proprio originario stato di attenta meditazione, permanendovi fino a quando, dopo qualche mese, darà alla luce uno splendido vitellino. Il che, sia detto a margine, va a tutto vantaggio dell’allevatore.

L’allevatore, ovviamente, simboleggiava Dio. Spinto da una simpatia irrazionale per la puledra, nel capitolo successivo le prometteva la gioia eterna di numerosi stalloni, mentre la mucca, colpevole del peccato di superbia, a poco a poco finiva condannata ai mesti piaceri della fecondazione artificiale. I pietosi muggiti del bovide si rivelavano incapaci di mitigare la sentenza del Grande Architetto. Una delegazione di pecore, mossa da spirito di solidarietà, non aveva miglior sorte. Il Dio messo in scena in quel breve racconto non era, com’è evidente, un Dio di misericordia.

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