Descrizione
1
10 ottobre 1998
Cara Maddie,
in questo momento hai cinque anni e ti piace moltissimo il colore giallo. In effetti, ieri mi hai chiesto se potresti mai sposarlo. Spero che continuerai sempre a indossarlo.
(Spero anche che troverai qualcuno di un po’ più adatto da sposare.)
Curiosità del giorno: quando gli esploratori spagnoli raggiunsero le Americhe, credettero che i girasoli fossero fatti d’oro.
Il cervello umano è così pieno di fantasia!
Sii sempre creativa.
Con amore,
Mamma.
Era ufficiale. Stavo avendo un ictus. Tutte le prove puntavano in quella direzione, e a quel punto ero convinta di aver guardato abbastanza episodi di Grey’s Anatomy da fare un’autodiagnosi:
Confusione? Sì.
Torpore generale? Sì.
Mal di testa improvviso? Vista annebbiata? Difficoltà a camminare? Sì, sì, e sì.
La buona notizia era che vedevo un dottore. Letteralmente. Stavo camminando verso il mio appartamento con uno di loro quando i sintomi erano comparsi. Perlomeno avrei avuto il lusso di un’assistenza medica immediata se mi fosse servita.
Infilai i pugni nella giacca di paillette gialla a pois viola (una delle mie preferite), raddrizzai le spalle, e guardai di traverso la grande figura seduta in cima alla scalinata che portava all’elegante edificio in arenaria in cui vivevo in affitto, desiderando che scomparisse dalla mia vista.
Restò immobile, con il bagliore bluastro del suo telefono a illuminargli il volto. Una brezza di mezz’estate gli volteggiò intorno, crepitando come fuochi d’artificio. Ogni luce color whisky della strada si posò sul suo profilo, come se fosse al centro di un palco, richiedendo l’attenzione di tutti. Fui invasa dal panico più totale. Conoscevo soltanto una persona in grado di far danzare l’universo intorno a sé come ballerine hawaiane.
Riluttante, esclusi l’ictus.
No. Non si sognerebbe di presentarsi qui. Non dopo il modo in cui ho chiuso con lui.
«… e così il mio piccolo paziente mi si è avvicinato e ha detto: “Posso dirti un segreto?” e io gli ho risposto: “Mmm-mmm”, pensando che mi avrebbe spifferato che i suoi stavano divorziando. E invece ha solo aggiunto: “Finalmente ho capito che lavoro fa la mamma”. Gli ho chiesto quale fosse, e mi ha risposto… senti questa, Maddie.» Ethan, il ragazzo con cui uscivo, alzò una mano, chinandosi con l’altra sul ginocchio, sopravvalutando in modo evidente il potenziale comico della sua storia. «“Mi ha messo un iPad sotto il cuscino quando ho perso il mio primo dentino. Mia mamma è la fatina dei denti. Sono il bambino più fortunato del mondo!”»
Ethan gettò indietro la testa e si mise a ridere, all’oscuro del fatto che dentro di me stavo avendo una crisi di nervi. Era attraente, con capelli, occhi e mocassini quasi della stessa identica tonalità di color nocciola, il fisico asciutto da corridore, e la cravatta di Scooby-Doo. Certo, non era il Dottor Stranamore. Era più il Dottor Piedi per Terra. E sì, mi aveva raccontato dodici storie sui suoi piccoli pazienti durante la nostra cena etiope, rischiando di cadere al suolo ogni volta che aveva recitato a memoria le loro acute osservazioni. Ma Ethan Goodman era esattamente il tipo d’uomo di cui avevo bisogno nella vita. E l’uomo sulla mia scalinata era proprio la persona che mi aveva insegnato questa dolorosa lezione.
«I bambini sono la voce della verità.» Giocherellai con il mio orecchino pendente a forma di girasole. «Mi manca, l’innocenza. Se potessi riavere qualcosa della mia infanzia, sarebbe questa.»
La figura sulla scala si alzò in piedi, voltandosi nella nostra direzione. Il suo sguardo si sollevò dal cellulare e incrociò il mio con naturalezza. Il cuore mi si sgonfiò come un palloncino. Iniziò a volare agitandosi senza posa per poi crollare su un mucchio di gomma flaccida alla bocca dello stomaco.
Era decisamente lui.
In tutto il suo scolpito metro e novanta e brutale sex appeal. Avvolto in un’elegante camicia nera inamidata con le maniche arrotolate ai gomiti, con gli avambracci grossi quanto le mie cosce in bella vista, venati e muscolosi. Layla, la mia amica d’infanzia diventata mia vicina di casa, lo chiamava un Gaston in carne e ossa: «È una gioia per gli occhi, ma fa venir voglia di spingerlo giù da un tetto».
Aveva un’aria perplessa come se anche lui non riuscisse a capire cosa ci stesse facendo lì.
Con i capelli neri arruffati.
Gli occhi grigio-blu leggermente a mandorla da personaggio di un manga.
Con quella costituzione da dio greco che ti faceva prendere in considerazione di commettere crimini di guerra pur di avere l’opportunità di mordergli la mascella come un animale.
Ma sapevo che non era né il Dottor Stranamore né il Dottor Piedi per Terra.
Chase Black era il diavolo. Il mio diavolo personale. Sempre vestito di nero, con un commento crudele perennemente pronto sulla punta della lingua, e le intenzioni tanto impure quanto il suo sorrisetto. E io? Ero stata soprannominata Maddie la Martire per un motivo. Non riuscivo a essere crudele neanche se ne fosse andata della mia vita. E, per fortuna, non era così.
«Davvero? Se io potessi avere ancora qualcosa della mia infanzia, sarebbe il primo dentino da latte che mi è caduto. Il mio cane lo ha ingoiato. Ma comunque» proseguì Ethan con aria entusiasta. Mi voltai di scatto verso di lui. «Certo, con i cani gli incidenti succedono sempre. Come quella volta che un altro mio paziente – Dio, senti questa – è venuto nella clinica pediatrica per una strana eruzione cutanea…»
«Ethan?» Mi bloccai mentre camminavo, incapace di concentrarmi su un’altra storia sdolcinata. Non che non fossero avvincenti, ma una catastrofe stava proprio davanti alla mia porta, pronta a travolgermi la vita.
«Sì, Maddie?»
«Mi dispiace, temo di avere un po’ di nausea.» Tecnicamente, non era una bugia. «Possiamo salutarci per stasera?»
«Oh, no. Credi sia stato il tere siga?» Ethan si accigliò e mi osservò con un’espressione da cucciolo che mi spezzò il cuore.
Grazie a Dio era troppo impegnato a farmi una testa così sui suoi pazienti per notare l’uomo gigantesco davanti al portone.
«No, assolutamente no. Mi sento un po’ strana già da qualche ora. Evidentemente stavo covando qualcosa.» Lanciai uno sguardo a Chase alle spalle di Ethan, deglutendo con forza.
«Sicura che starai bene?»
«Sono ottimista.» Accarezzai la cravatta di Sooby-Doo sul suo petto con un sorriso.
«Mi piace l’ottimismo. Rende il mondo un posto migliore.» Gli occhi di Ethan si illuminarono. Si chinò per darmi un bacio sulla fronte. Aveva le fossette. Le fossette erano fantastiche. E anche Ethan era fantastico. Allora perché non vedevo l’ora di salutarlo solo per potermi dedicare all’omicidio dell’ospite inatteso sulla scalinata del mio palazzo, di fronte a tutto il vicinato?
Oh, giusto: perché Chase Black mi aveva rovinato la vita e mi aveva lasciata a rimetterne insieme i pezzi, con ogni coccio del nostro rapporto infranto a ferirmi nel profondo.
Ma ne parleremo tra un attimo. Dovevo prima congedare il mio perfetto Dottor Piedi per Terra, che mi aveva quasi salvata da un ictus.
Mentre percorrevo il resto della strada verso il palazzo, con il cuore che mi si agitava contro lo sterno come un pesce fuori dall’acqua, fantasticai sui vari modi in cui avrei potuto salutare Chase. In tutte le mie fantasie, io ero sempre indifferente, di dieci centimetri più alta, e indossavo un paio di Louboutin da femme fatale invece delle ballerine verdi.
Che strano, non ricordavo di aver lasciato la spazzatura fuori. Lasci che la accompagni al cassonetto, Signor Black.
Oh, vuoi scusarti? Potresti specificare per cosa? Per avermi tradita, per avermi umiliata costringendomi a farmi controllare in cerca di eventuali malattie veneree, o semplicemente per avermi fatto sprecare del tempo?
Ti sei perso, tesoro? Vorresti che ti accompagnassi al bordello che stavi evidentemente cercando?
Era evidente che Chase Black non faceva emergere la Maddie la Martire che c’era in me.
Mi fermai a tre passi da lui. Avevo i nervi tanto stravolti quanto il mio vestito con le pesche, e odiavo quel fremito di eccitazione che mi si stava facendo strada nel petto. Mi ricordava quanto fossi stata stupida a causa sua. Quanto gli avessi fatto comodo. Quanto fossi stata remissiva.
«Madison.» Chase sollevò il mento, abbassando lo sguardo mentre mi osservava. Sembrava più un ordine che un saluto. Neanche quel suo modo condiscendente di inarcare le sopracciglia era troppo promettente.
«Che ci fai qui?» sibilai.
«Mi fai salire?» Si infilò il telefono nella tasca anteriore dei pantaloni. Dritto al punto. Non posso, ma mi fai. Niente Come stai? O Scusa per quella volta che ti ho spezzato il cuore o persino Come sta Daisy, l’Aussiedoodle che ti ho regalato per Natale, anche se mi avevi detto di essere allergica ai cani perlomeno tre volte, e che i tuoi amici adesso chiamano Pisciadoodle per la sua tendenza a fare la pipì nelle scarpe della gente?
Strinsi i risvolti della mia leggera giacca estiva, furiosa con me stessa per il modo in cui le dita mi tremavano. «Preferirei di no. Se sei qui per placare la tua voglia di scoparti l’intera popolazione popolazione femminile di New York, hai sbagliato indirizzo. Puoi mettere una X accanto al mio nome.»
Il calore estivo trasudava dall’asfalto, vorticando intorno ai miei piedi come fumo. L’oscurità della notte non serviva a mitigare la temperatura. Manhattan era appiccicosa, gonfia di sudore e ormoni. Le strade brulicavano di coppie e branchi di turisti, colleghi chiassosi e universitari pronti a combinarne di tutti i colori. Non volevo fare una scenata in pubblico, ma volevo ancor meno che salisse nel mio appartamento.
Conoscete l’espressione Se può averlo chiunque, io non lo voglio? Valeva per il suo corpo. Dopo esserci lasciati, mi ci erano volute settimane per liberare le lenzuola da quel caratteristico odore di Chase Black. Mi aveva seguita ovunque, come una nuvola nera carica di pioggia. Riuscivo ancora a sentire gli occhi gonfi di pianto quando pensavo a lui.
«Ascolta, so che sei contrariata» esordì in tono circospetto, quasi come se stesse per iniziare una negoziazione con un animale selvatico.
Lo interruppi con voce tremante, sorpresa dalla mia stessa assertività. «Contrariata? Sono contrariata quando si rompe la lavatrice. O quando la mia cagnolina rovina a forza di morsi il poncho blu all’uncinetto che ho comprato l’inverno scorso, e di dover aspettare la prossima stagione de Il cantante mascherato.»
Aprì la bocca, di sicuro per protestare, però io alzai la mano e la agitai per dare enfasi al mio discorso. «Quello che mi hai fatto non mi ha contrariata, Chase. Mi ha devastata. Non ho problemi ad ammetterlo ora, perché ci sono talmente passata sopra che neppure mi ricordo com’era starti sotto.» Presi a malapena un respiro prima di sputare altre parole di fuoco su di lui. «No, non ti faccio salire. Qualsiasi cosa tu debba dirmi,» indicai il marciapiede sotto di me, «puoi farlo qui.»
Si passò una mano tra i capelli, così neri e dall’aspetto tanto soffice da farmi stringere il petto, e mi studiò come se fossi una bomba a orologeria che doveva disinnescare. Non riuscivo a capire se fosse infastidito, pentito, o esasperato. Sembrava un misto delle tre cose. Non avevo mai saputo come si sentisse, neanche quando era dentro di me. Stavo lì sdraiata, guardandolo negli occhi, e non vedevo che il mio riflesso ricambiare lo sguardo.
Incrociai le braccia, chiedendomi quale fosse il motivo della sua visita. Non l’avevo più sentito da quando ci eravamo lasciati sei mesi prima. Però avevo sentito da Sven, il mio capo, delle donne che Chase aveva portato all’attico dopo la nostra rottura. Sven viveva nello stesso sfarzoso edificio di Park Avenue di Chase. A quanto pareva, quest’ultimo non aveva passato le serate a piangere fino ad addormentarsi.
«Per favore.» Pronunciò la frase a disagio, quasi che quelle parole fossero sabbia nella sua bocca. Chase Black non era abituato a chiedere le cose in modo gentile. «È una questione piuttosto personale. Apprezzerei non avere tutto il tuo vicinato come pubblico.»
Cercai le chiavi nella borsetta e salii le scale a passi pesanti. Lui rimase sul primo scalino e riuscivo a sentire il suo sguardo penetrarmi la schiena. Per la prima volta non mi rivolgeva un’occhiata glaciale, e io ne ero completamente immune. Aprii il portone, ignorando il suo appello. Curioso, avevo sempre pensato che sarebbe stato incredibile respingerlo come lui aveva respinto me. E invece in quel momento i miei sentimenti si alternavano vorticosamente tra dolore, rabbia, e confusione. Il trionfo non era in vista, e la gioia stava a chilometri di distanza. Avevo quasi superato la soglia, quando le sue parole mi fecero esitare.
«Hai troppa paura per concedermi dieci minuti del tuo tempo?» mi sfidò, con un sorrisetto nella voce che fu come una pugnalata alle spalle. Mi bloccai. Adesso sì che lo riconoscevo. Freddo, calcolatore. Terribilmente spietato. «Se ci sei davvero passata sopra e non sei per nulla tentata di starmi sotto, una volta arrivati nel tuo appartamento e dopo che avrò detto quello che ho da dire, potrai tornare alla tua beata esistenza senza Chase, no?»
Paura? Credeva che avessi paura? Se fossi stata più immune al suo fascino, a quel punto vedendolo avrei vomitato.
Mi voltai, sporgendo un fianco all’infuori e sfoggiando un sorriso educato sulle labbra. «Siamo un po’ presuntuosetti?»
«Quanto basta per attirare la tua attenzione» rispose impassibile, con l’aria di chi non avrebbe voluto essere lì.
Che cosa ci fa qui, poi?
«Cinque minuti basteranno, e farai meglio a comportanti come si deve.» Lo indicai con la borsetta.
«Che io possa morire se non lo farò.» Poggiò la mano sul cuore ed esibì un’espressione beffarda.
«Almeno le nostre speranze coincidono.»
Lo feci ridacchiare. Mi diressi rapidamente verso il mio appartamento al secondo piano, senza preoccuparmi di verificare che mi seguisse. Cercai di pensare al motivo della sua presenza. Forse era appena uscito dalla riabilitazione per curare la dipendenza distruttiva dal sesso. Eravamo stati insieme solo sei mesi, ma in quel periodo era stato abbastanza chiaro che Chase non si sarebbe fermato finché la moquette non mi avesse lasciato i segni sulla schiena e non avessi avuto difficoltà a camminare dritta. Non che all’epoca me ne lamentassi – il sesso era una parte del nostro rapporto che aveva sempre funzionato bene – però lui era un donnaiolo insaziabile.
Sì, avevo deciso. Probabilmente la sua comparsa faceva parte del programma di recupero in dodici passi. Fare ammenda a chi aveva ferito. Mi avrebbe chiesto scusa e sarebbe andato via, lasciandoci entrambi col cuore in pace. Un’esperienza purificante, davvero. Avrebbe reso l’inizio del mio rapporto con Ethan ancora più perfetto.
«Riesco praticamente a sentirti rimuginare» borbottò Chase mentre saliva le scale dietro di me. Curioso, non sembrava affatto contrito. Solo il solito cretino.
«Riesco praticamente a sentire i tuoi occhi sul mio culo» ribattei con voce piatta.
«Potrai sentire altre parti di me sul tuo culo, se sei propensa.»
Non pugnalarlo con un coltello da bistecca, Maddie. Non merita di mandarti in prigione.
«Chi è quel tizio?» Sbadigliò con l’intento di provocarmi. Le sue parole avevano sempre un non so che di diabolico. Diceva tutto in modo impassibile, con ironia sufficiente a renderti noto che era migliore di te.
«Oh. Wow.» Scossi la testa e sbuffai. Aveva una bella faccia tosta a chiedermi di Ethan.
«O-Wow? È un rapper? In tal caso ha bisogno di un cambio di look. Digli del Black & Co. Club. C’è un’offerta promozionale del quindici percento sui servizi dei personal stylist.»
Gli mostrai il dito medio senza voltarmi, ignorando la sua risatina cupa.
Ci fermammo davanti alla mia porta. Layla viveva di fronte a me, nell’altro appartamento che era stato convertito in un monolocale quando il nostro proprietario di casa aveva diviso a metà la sua proprietà. Layla era stata la prima a trasferirsi a New York dopo la laurea. Quando mi aveva detto che il monolocale di fronte al suo sarebbe stato disponibile perché la coppia che ci viveva si era trasferita a Singapore, e che il proprietario voleva un inquilino pulito che pagasse l’affitto puntuale, avevo colto l’occasione. Layla era una maestra d’asilo di giorno e una babysitter la sera per arrotondare lo stipendio. Era difficile immaginarla senza un bambino in braccio, o non impegnata a ritagliare numeri e lettere per la lezione dell’indomani. Layla attaccava una parola del giorno sulla sua porta tutte le mattine. Era un ottimo modo per comunicare con me anche quando non ci parlavamo durante la giornata. Negli anni, avevo sviluppato un certo attaccamento alle parole del giorno di Layla. Mi accompagnavano, come fossero stati dei segni. Previsioni su come sarebbe stata la mia giornata. Avevo dimenticato di controllare la parola quel mattino, nella fretta di andare al lavoro.
Diedi un’occhiata distratta alla sua porta mentre infilavo la chiave nella serratura.
Pericolo: esposizione o assoggettamento a danno, dolore, offesa o perdita.
Un brutto presentimento mi travolse. Si posizionò alla base della colonna vertebrale esercitando una pressione persistente. «Non sei qui per scusarti, non è vero?» Respirai, con gli occhi fissi sulla soglia.
«Scusarmi?» Allungò il braccio alle mie spalle fino ad appoggiarlo alla superficie sopra la mia testa. Il suo respiro caldo mi percorse la nuca, facendo rizzare i capelli più corti. L’effetto Chase. «E perché diavolo dovrei?»
Spinsi l’uscio, lo spalancai e feci entrare Chase nel mio appartamento. Nel mio territorio. Nella mia vita.
Con la dolorosa consapevolezza che l’ultima volta in cui aveva fatto irruzione nel mio regno, lo aveva anche dato alle fiamme.
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