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Il giardino degli incontri segreti

13,00

Da bambina, Julia trascorreva molte ore felici nella incantevole tenuta di Wharton Park, dove suo nonno coltivava con passione le specie più rare ed esotiche di orchidee. Quando per un terribile colpo del destino la sua vita viene sconvolta, Julia – ormai un’affascinante e affermata pianista – torna istintivamente nei luoghi della sua infanzia. Spera con tutto il cuore che Wharton Park la aiuti a capire che direzione prendere, come è avvenuto in passato. Da poco, però, la tenuta è stata rilevata dal carismatico e ribelle Kit Crawford che, durante i lavori di ristrutturazione, ha trovato in villa un diario risalente al 1940, forse appartenuto proprio al nonno di Julia. E, mentre con l’avanzare dell’inverno l’attrazione tra Julia e Kit cresce di ora in ora, Julia sente la necessità di scoprire quale verità si nasconda dietro quelle pagine annotate. Ed è così che un terribile segreto sepolto per anni viene alla luce, un segreto potente, che ha quasi distrutto Wharton Park e che è destinato a cambiare per sempre anche il futuro di Julia.Un’appassionante storia d’amore dove passato e presente si intrecciano senza sosta. Un racconto epico e commovente che rapisce fino alla fine.

Nel secondo, meraviglioso capitolo della saga bestseller, Lucinda Riley ci regala un’altra storia piena di passione, segreti e colpi di scena. E un nuovo, prezioso tassello per ricostruire l’affascinante enigma delle Sette Sorelle.

Informazioni aggiuntive

Autore

Editore

Data di pubblicazione

7 maggio 2013

ISBN

978-8809855540

Lingua

Formato
Copertina flessibile

€ 13,00

COD: 6351 Categoria: Tag: Product ID: 21997

Descrizione


1

Norfolk, Inghilterra

Ogni notte faccio lo stesso sogno. È come se la mia vita venisse gettata in aria e ricadesse a terra in pezzi… sparpagliati. Ciascuno è una parte della mia vita ma è nell’ordine sbagliato, e il quadro d’insieme non si compone. Si dice che i sogni siano importanti e che rivelino cose che nascondiamo a noi stessi.

Io non nascondo nulla a me stessa; vorrei tanto esserne capace.

Vado a dormire per dimenticare. Per ritrovare un po’ di pace, dato che trascorro le giornate assillata dai ricordi.

Non sono matta. Anche se di recente ho riflettuto molto su cosa sia la follia. Milioni di esseri umani, ognuno con la propria individualità, ognuno col proprio corredo genetico, i propri pensieri unici e originali – con la propria percezione del mondo in testa. E ogni visione è differente.

Sono giunta alla conclusione che tutto ciò che noi uomini abbiamo realmente in comune siano solo carne e ossa, la materia di cui siamo fatti. Per esempio, mi sono sentita dire tante volte che ognuno di noi risponde in maniera differente al dolore e che non esiste un modo sbagliato di reagire. Ci sono persone che piangono per mesi, a volte per anni. Si vestono di nero e portano il lutto. Altri sembrano non essere neppure sfiorati dalla perdita di un proprio caro. E fanno come se nulla fosse accaduto.

Non sono sicura di quale sia stata la mia reazione. Io non ho pianto per mesi. Ho a malapena versato qualche lacrima.

Ma neppure ho dimenticato. Non dimenticherò mai.

Sento che c’è qualcuno al piano di sotto. Ora devo alzarmi e fingere di essere pronta ad affrontare un altro giorno.

Alicia Howard accostò la Land Rover al marciapiede. Spense il motore e si avviò su per la collina fino al cottage. Sapendo che la porta d’ingresso non era mai chiusa a chiave, la aprì ed entrò.

Per un attimo rimase immobile nel salotto ancora buio e rabbrividì. Andò alla finestra e spalancò le tende, diede una sprimacciata ai cuscini, recuperò tre tazzine del caffè e le portò in cucina. Aprì il frigorifero. Nello sportello c’era solo una bottiglia di latte mezza vuota. Uno yogurt scaduto, un po’ di burro e un pomodoro avvizzito se ne stavano abbandonati sui ripiani. Chiuse il frigo e ispezionò il portapane. Come sospettava, era vuoto. Alicia si sedette al tavolo sospirando profondamente. Pensò al calore della propria cucina, la dispensa piena, il profumo rassicurante della cena che cuoce in forno, la confusione dei bambini che giocano e le loro risate squillanti, adorabili… il cuore della sua casa e della sua vita.

Il contrasto con quella tetra stanzetta parlava da sé: era l’esatta metafora dell’esistenza che ormai conduceva sua sorella. La vita di Julia, e il suo cuore, erano andati in pezzi.

Dallo scricchiolio dei passi sul legno capì che stava scendendo le scale. Quando apparve sulla porta, Alicia alzò gli occhi e come sempre rimase folgorata dalla sua bellezza; mentre lei aveva capelli biondi e pelle chiara, Julia era scura ed esotica. La folta chioma di capelli color mogano le incorniciava il viso delicato, i chili che aveva perso di recente erano serviti a mettere ancor più in risalto i suoi radiosi occhi a mandorla e gli zigomi alti.

Vestita in maniera inappropriata per il clima di gennaio, Julia indossava uno dei pochi completi che aveva: un caftano rosso allegramente ricamato con sete colorate e dei pantaloni di cotone nero, piuttosto larghi, che nascondevano la magrezza delle gambe. Era a braccia scoperte e Alicia notò subito che aveva la pelle d’oca. Così si alzò da tavola e tirò a sé la sorella reticente, cingendola col proprio abbraccio affettuoso.

«Tesoro,» disse «ma stai congelando. Dovresti comprarti qualcosa di più pesante, o preferisci che ti porti io un paio di maglioni?»

«Sto bene» rispose Julia minimizzando la cosa. «Caffè?»

«Non c’è molto latte. Ho appena guardato in frigo.»

«Non fa niente, io lo prendo senza.» Julia andò al lavello, riempì il bollitore e lo mise sul fuoco.

«Allora, come sei stata in questi giorni?» domandò Alicia.

«Bene» rispose Julia mentre prendeva due tazze dalla mensola.

Alicia fece una smorfia. «Bene» era la risposta standard di Julia. La usava per non rispondere a qualsiasi domanda vagamente indagatoria.

«Hai visto qualcuno questa settimana?»

«In effetti no» rispose lei.

«Tesoro, sei sicura che non vuoi tornare a stare da noi per un po’? Non sopporto l’idea di saperti qui da sola.»

«Grazie per l’offerta, ma te l’ho già detto: sto bene» rispose Julia freddamente.

Alicia sospirò frustrata. «Non mi sembra che tu stia bene. E poi sei dimagrita ancora. Mangi?»

«Certo che mangio. Vuoi il caffè o no?»

«No, grazie.»

«Bene.»

Quando si voltò, i suoi occhi ambrati erano pieni di collera.

«Guarda, lo so che fai così perché mi vuoi bene. Ma davvero, Alicia, io non sono una delle tue figlie e non ho bisogno della babysitter. A me piace stare da sola.»

«Comunque» disse Alicia in tono allegro, cercando di non perdere la pazienza «farai meglio ad andare a prendere il cappotto. Ti porto fuori.»

«Veramente avrei già dei programmi per oggi» rispose Julia.

«E allora dovrai rimandarli. Ho bisogno del tuo aiuto.»

«Per cosa?»

«La settimana prossima è il compleanno di papà, nel caso l’avessi dimenticato, e voglio comprargli un regalo.»

«E avresti bisogno del mio aiuto per comprare un regalo?»

«È il suo sessantacinquesimo compleanno, quest’anno va in pensione.»

«Ne sono al corrente. È anche mio padre, sai?»

Alicia dovette fare uno sforzo per mantenere la calma. «C’è un’asta dei beni di Wharton Park oggi a mezzogiorno. Ho pensato che saremmo potute andare insieme e vedere di trovare qualcosa per lui.» Scorse un guizzo d’interesse negli occhi di Julia.

«Wharton Park è stata messa in vendita?»

«Sì, non lo sapevi?»

Julia lasciò cadere le braccia. «No, non lo sapevo. Come mai?»

«Mah, credo per la solita storia: tasse di successione. Ho sentito dire che l’attuale proprietario ha deciso di vendere a un tizio di Londra con più soldi che sale in zucca. Di questi tempi nessuna famiglia normale sarebbe in grado di mantenere un posto del genere. Senza contare che l’ultimo Lord Wharton l’ha completamente lasciata andare ed è ridotta in uno stato pietoso. A quanto pare ci sarebbe da investire una fortuna per rimetterla in sesto.»

«Che tristezza» mormorò Julia.

«Già» concordò Alicia, felice di vedere il coinvolgimento della sorella. «È stata una parte importante della nostra infanzia, soprattutto della tua. Per questo ho pensato che saremmo potute andare all’asta insieme e vedere di trovare qualcosa, un ricordo, una specie di souvenir per papà. Probabilmente saranno rimaste solo cianfrusaglie, i pezzi migliori saranno già finiti da Sotheby’s, ma non si può mai sapere.»

Incredibilmente, senza bisogno di doverla persuadere oltre, Julia annuì.

«Ok, prendo il cappotto e arrivo.»

Cinque minuti dopo Alicia si destreggiava con l’auto lungo la stretta litoranea del grazioso paesino di Blakeney. Svoltò a sinistra in direzione est, imboccando il tragitto di quindici minuti che portava a Wharton Park.

«Wharton Park… » disse Julia fra sé.

Era il ricordo più vivido della sua infanzia, quando andava a trovare nonno Bill alla serra: l’intenso profumo dei fiori esotici che coltivava e la pazienza che aveva nello spiegare a quale specie appartenessero e da che parte del mondo provenissero. Suo padre, e il padre di suo padre prima di lui, erano stati i giardinieri dei Crawford, i proprietari di Wharton Park, una vasta tenuta che comprendeva cinquecento ettari di terreno coltivabile.

I suoi nonni avevano sempre vissuto in un cottage accogliente, in un angolino raccolto e operoso dentro la proprietà, circondati dal resto del personale che si occupava della terra, della casa e della famiglia Crawford. La loro madre, Jasmine, era nata e cresciuta proprio in quel cottage.

Elsie, la nonna, era stata esattamente come ogni nonna dovrebbe essere, forse solo un po’ eccentrica. Era sempre pronta a coccolarti e confortarti fra le sue braccia e sul fuoco aveva sempre qualcosa di buono per cena.

Ogni volta che Julia tornava con la memoria ai tempi di Wharton Park rivedeva il cielo azzurro e i colori lussureggianti dei fiori che sbocciavano sotto il sole d’estate. Un tempo, Wharton era stata famosa per la sua collezione di orchidee. Era incredibile pensare che quei fragili, minuscoli fiori, originari dei paesi tropicali, crescessero là, rigogliosi, nel freddo emisfero boreale, nel bel mezzo delle pianure del Norfolk.

Quand’era bambina, Julia restava tutto l’anno in trepidante attesa delle gite estive a Wharton Park accoccolata in un angolo dell’orto, protetta dai venti gelidi che in inverno arrivavano all’improvviso soffiando dal Mare del Nord, sentiva la tranquillità e il tepore delle serre. Le restavano impressi nella memoria tutto l’anno. Questo, e il senso di sicurezza che provava stando al cottage con i nonni, facevano di Wharton Park un luogo di pace. A Wharton non cambiava mai nulla. Orari e orologi non servivano, era la natura a stabilire i ritmi.

Ricordava ancora che, da un angolo della serra, la vecchia radio di bachelite del nonno suonava musica classica dall’alba al tramonto.

«I fiori adorano la musica» le diceva nonno Bill mentre si prendeva cura delle sue preziose piante. Julia sedeva su uno sgabello nell’angolo accanto alla radio e lo osservava, ascoltando la musica. Aveva appena cominciato a suonare il piano, scoprendo di avere una naturale predisposizione. C’era un vecchio pianoforte nel piccolo salotto del cottage. Spesso, dopo cena, le veniva chiesto di suonare. I nonni guardavano ammirati le delicate e giovani dita di Julia muoversi veloci sui tasti.

«Il tuo è un dono di Dio, Julia» le disse una sera nonno Bill, sorridendo commosso. «Non sprecarlo, prometti?»

Il giorno del suo undicesimo compleanno le donò un’orchidea speciale.

«Quest’orchidea è tua, Julia. Il suo nome è Aerides Odorata. Significa “figlia dell’aria”.»

Julia studiò i delicati petali rosa e avorio della piantina all’interno del vaso. Al tatto parevano di velluto.

«Da dove viene quest’orchidea, nonno?» chiese.

«Dall’Oriente, dalla giungla del Chiang Mai nel nord della Thailandia.»

«Oh. E che musica le piace secondo te?»

«Credo che abbia un debole per Mozart,» rispose divertito il nonno «ma se ti sembra che la faccia avvizzire, puoi provare con Chopin!»

Julia coltivò la sua orchidea e il suo talento nel salotto di una casa vittoriana piena di spifferi, alla periferia di Norwich. Suonava per la sua piantina e la piantina fioriva per lei, ancora e ancora.

E intanto sognava il luogo esotico dal quale proveniva l’orchidea. In quei momenti non era più nel suo salotto in periferia, ma nelle remote e vaste giungle del lontano Oriente… poteva sentire il verso dei gechi, il canto degli uccelli e l’inebriante profumo dei fiori che là crescono ovunque, sugli alberi e nel sottobosco.

Un giorno – ne era certa – sarebbe andata a vedere tutto con i suoi occhi. Ma per il momento le suggestive descrizioni del nonno di quelle terre lontane erano sufficienti a infiammare la sua immaginazione e la musica.

Quando Julia aveva quattordici anni, nonno Bill morì. Ricordava ancora in maniera vivida il vuoto che aveva provato dentro di sé. Lui e la serra erano sempre stati un punto fermo nella sua giovane, e già così difficile, vita. Era un ottimo ascoltatore, una guida saggia e un nonno premuroso e probabilmente le aveva fatto più lui da padre che non quello vero. A diciott’anni vinse una borsa di studio al Royal College of Music di Londra. Nonna Elsie si trasferì a Southwold insieme a sua sorella e da allora Julia non era più stata a Wharton Park.

E adesso eccola di nuovo lì, a trentun anni. Mentre Alicia chiacchierava, raccontandole dei suoi figli e delle loro mille attività, Julia riviveva la stessa trepidante attesa che aveva provato da bambina, percorrendo quella strada in macchina con i suoi genitori; teneva gli occhi incollati al finestrino, ansiosa di veder apparire il Grande Cancello, l’entrata di Wharton Park, subito dopo la curva.

«C’è la curva!» gridò Julia ad Alicia che stava per finire fuori strada.

«Oddio, è vero! È da così tanto che non vengo qui… l’avevo scordata.» Entrando nel viale, Alicia guardò Julia di sfuggita e riuscì a scorgere l’emozione nei suoi occhi.

«Hai sempre adorato questo posto, vero?» le disse dolcemente.

«Sì. Tu no?»

«A dire il vero io mi annoiavo quando venivo qui. Non vedevo l’ora di tornare a casa per stare con i miei amici.»

«Tu sei sempre stata una ragazza di città» disse Julia.

«Infatti, e guardami adesso: trentaquattro anni, una casa di campagna nel bel mezzo del nulla, una nidiata di bambini, tre gatti, due cani e una cucina a cinque fuochi. Dove diavolo sono finite le luci della ribalta?» disse Alicia con un sorriso ironico.

«Ti sei innamorata e hai messo su famiglia.»

«E le luci della ribalta si sono accese su di te» aggiunse Alicia, senza alcuna malizia.

«Sì, be’, un tempo…» non appena imboccarono il viale la voce di Julia si affievolì. «Ecco la casa. È identica a com’era una volta.»

Alicia volse lo sguardo all’edificio che aveva di fronte. «A dire il vero a me sembra persino meglio. Probabilmente avevo dimenticato quanto fosse bella.»

«Io non l’ho mai dimenticato» disse Julia sottovoce.

Seguirono la lenta fila di macchine lungo il vialetto, entrambe perse nei propri pensieri. Wharton Park era stata costruita in stile georgiano per il nipote del primo ministro britannico Sir Robert Walpole, che peraltro morì prima della fine dei lavori. Realizzata interamente in pietra arenaria, nei suoi trecento e passa anni di vita aveva assunto una sfumatura giallo chiaro. Le sue sette campate e la doppia scalinata, che partivano dal basamento e arrivavano al piano nobile, formavano una terrazza sopraelevata affacciata sulla parte posteriore del parco, che aggiungeva un tocco d’eleganza francese. Con una cupoletta a ogni angolo, l’ampio portico era sorretto da quattro gigantesche colonne ioniche, sopra le quali torreggiava una fatiscente statua di Britannia che conferiva all’insieme un’aria più eccentrica che maestosa.

Wharton Park non era grande abbastanza per poter essere definita propriamente un palazzo. E nemmeno presentava un’architettura di pregio a causa di alcune aggiunte strampalate fatte da generazioni precedenti ai Crawford che ne avevano compromesso la purezza stilistica. Proprio grazie a questo, tuttavia, non aveva quell’aspetto freddo e austero che contraddistingueva le altre ville dello stesso periodo.

«Quando arrivavamo qui giravamo sempre a sinistra» indicò Julia, ricordando il percorso che faceva attorno al lago per arrivare al cottage dei nonni, in fondo alla tenuta.

«Dopo l’asta ti andrebbe di fare una capatina al vecchio cottage?» propose Alicia.

Julia si strinse nelle spalle. «Vediamo, magari sì.»

Alcuni steward in giubbotti segnaletici dirigevano le macchine ai posteggi.

«Dev’essersi sparsa la voce» disse Alicia mentre svoltava nel parcheggio indicato e fermava la macchina. Si voltò verso sua sorella e le poggiò la mano sul ginocchio: «Pronta?».

Julia si sentì frastornata, assalita da troppi ricordi. Uscita dalla macchina, mentre si avvicinava alla casa, anche gli odori le erano familiari: l’erba madida tagliata da poco, e un profumo più sottile, appena accennato, che ora sapeva essere il gelsomino della siepe che delimitava il prato. Seguirono la folla che a passo lento saliva le scale ed entrava dall’ingresso principale

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