Descrizione
La voce della ragione 1
La fanciulla arrivò da lui sul fare del giorno.
Entrò piano, in silenzio, a passi felpati, fluttuando attraverso la stanza come uno spettro, un’apparizione, accompagnata nei suoi movimenti unicamente dal fruscio del mantello che le sfiorava la pelle nuda. Eppure fu proprio quel rumore sommesso, appena udibile, a svegliare lo strigo, o forse lo strappò soltanto dal dormiveglia che lo cullava monotono su un abisso infinito, tenendolo sospeso tra il fondo e la superficie di un mare calmo, tra ciuffi di querce marine che ondeggiavano dolcemente.
Lo strigo non si mosse, non ebbe neanche un fremito. La fanciulla scivolò accanto a lui, lasciò cadere il mantello e, dopo un attimo di esitazione, appoggiò il ginocchio sul bordo del letto. Lui la osservava da sotto le ciglia abbassate fingendo di dormire. La fanciulla si arrampicò guardinga sul letto, montò sopra di lui e lo strinse fra le cosce. Puntellandosi sulle braccia tese, gli sfiorò il viso coi capelli odorosi di camomilla. Determinata, quasi impaziente, si chinò per sfiorargli le palpebre, le guance e la bocca con la punta dei seni. Lo strigo sorrise e l’afferrò per le spalle con un gesto molto lento, pieno di attenzione e di delicatezza. Lei si raddrizzò sfuggendo alle sue dita, radiosa, il suo fulgore attenuato solo dal chiarore brumoso dell’alba. Lui si mosse ma la fanciulla, con una pressione risoluta delle mani, gli impedì di cambiare posizione: con movimenti leggeri ma decisi dei fianchi esigeva una risposta.
E lui rispose. Ora la fanciulla non si ritraeva più. Rovesciò la testa all’indietro, scosse i capelli. Aveva la pelle fresca e incredibilmente liscia. Nell’avvicinare il viso a quello di lei, lo strigo vide due occhi grandi e scuri da ondina.
Cullato, annegò nel mare di camomilla che, da calmo che era, prese ad agitarsi e a mugghiare.
Lo strigo
I
In seguito avrebbero detto che l’uomo era giunto da nord attraverso la porta dei Cordai. Era a piedi e conduceva il cavallo carico per le briglie. Era pomeriggio avanzato, le bancarelle dei cordai e dei sellai erano già chiuse, la strada deserta. Nonostante il caldo, l’uomo aveva un mantello nero gettato sulle spalle. Attirava l’attenzione.
Si fermò davanti all’insegna della Vecchia Narakort e rimase un attimo ad ascoltare il brusio delle voci. La locanda, come al solito a quell’ora, traboccava di gente.
Lo sconosciuto non entrò alla Vecchia Narakort. Proseguì verso la fine della strada, dove si trovava una taverna più piccola chiamata La volpe. Era quasi vuota. Non aveva la migliore delle reputazioni.
Il taverniere sollevò la testa da un barile di cetrioli in salamoia e squadrò il cliente.
Lo straniero, sempre col mantello indosso, se ne stava davanti al banco impettito, immobile, in silenzio.
«Che vi do?»
«Una birra», rispose lo sconosciuto. Aveva una voce sgradevole.
Il taverniere si pulì le mani sul grembiule di tela e riempì un boccale di terracotta sbreccato.
Pur non essendo vecchio, lo sconosciuto aveva quasi tutti i capelli bianchi. Indossava un logoro farsetto di cuoio allacciato al collo e alle braccia. Quando si tolse il mantello, tutti notarono che aveva una spada legata sulla schiena con una cinghia. Non che vi fosse qualcosa di strano di per sé, a Wyzima quasi tutti giravano armati, ma nessuno portava la spada sulla schiena come un arco o una faretra.
Lo sconosciuto non prese posto a un tavolo, tra i pochi clienti, ma rimase al banco fissando il taverniere con sguardo penetrante. Bevve un sorso di birra. «Cerco una stanza per la notte.»
«Non c’è posto. Chiedete alla Vecchia Narakort», brontolò il taverniere osservando le scarpe del cliente coperte di polvere e fango.
«Preferirei restare qui.»
«Non c’è posto.» Il taverniere aveva finalmente riconosciuto l’accento del nuovo arrivato. Era un Riv.
«Posso pagare», disse lo straniero a bassa voce, come incerto.
Fu allora che ebbe inizio tutta quella brutta storia. Uno spilungone col viso butterato dal vaiolo, che dal momento della comparsa dello straniero non gli aveva staccato gli occhi torvi di dosso, si alzò e si avvicinò al banco. I suoi due compagni gli si misero alle spalle, a non più di due passi di distanza.
Non c’è posto, furfante, vagabondo di Rivia», gracchiò il butterato, gomito a gomito con lo straniero. «Non abbiamo bisogno di gente come te qui a Wyzima. Questa è una città pulita.»
Lo sconosciuto prese il boccale e si allontanò. Lanciò un’occhiata al taverniere, ma quello distolse lo sguardo. Non gli passava neanche per la testa di difendere un Riv. In fondo, a chi andavano a genio i Riv?
«I Riv sono tutti ladri», continuò il butterato, che puzzava di birra, di aglio e di rabbia. «Mi senti, bastardo?»
«No, non ti sente. Ha le orecchie foderate di sterco», rispose uno dei due compari alle sue spalle, facendo sghignazzare l’altro.
«Paga e fila!» gridò il butterato.
Solo allora lo sconosciuto lo guardò. «Prima finisco la birra.»
«Ti aiutiamo noi», sibilò lo spilungone. Strappò il boccale di mano al Riv e agguantò la cinghia che gli attraversava il petto.
Uno dei suoi amici sollevò il pugno per colpirlo. Lo straniero si dibatté, facendo perdere l’equilibrio al suo aggressore. La spada stridette nel fodero e balenò brevemente al bagliore delle lucerne. Scoppiò un tafferuglio. Un grido. Uno degli altri clienti si precipitò verso l’uscita. Una sedia cadde di schianto, le stoviglie di terracotta si sparsero sul pavimento con un rumore sordo.
Il taverniere fissava con le labbra tremanti il viso orrendamente squarciato dello spilungone, che con le dita aggrappate all’orlo del banco scivolò e sparì alla sua vista come se annegasse. Gli altri due giacevano sul pavimento. Uno era immobile, l’altro si contorceva tremante in una pozza scura che si allargava a vista d’occhio. L’aria vibrò di un urlo di donna acuto, isterico, che lacerò le orecchie. Il taverniere ebbe un sussulto e vomitò.
Teso e attento, lo sconosciuto arretrò verso la parete. Teneva la spada con tutte e due le mani, fendendo l’aria con la punta della lama. Nessuno si mosse. Il terrore, come un fango gelido, ricopriva i visi, bloccava le membra, serrava le gole.
Tre guardie fecero irruzione nella taverna con gran strepito e rumore di ferraglia. Dovevano trovarsi nei paraggi. Tenevano pronti i bastoni foderati di cuoio, ma alla vista dei cadaveri misero subito mano alle spade. Il Riv incollò la schiena al muro e con la sinistra estrasse uno stiletto dal gambale.
«Giù le armi e vieni con noi!» gridò una delle guardie con voce tremante.
La seconda guardia diede un calcio a un tavolo che le impediva di avvicinarsi al Riv. «Corri a chiamare rinforzi, Treska!» gridò alla terza che era rimasta accanto alla porta.
«Non ce n’è bisogno», disse lo sconosciuto abbassando la spada. «Vengo da solo.
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