Descrizione
PARTE PRIMA
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1947
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Ese non riesco a volerle bene? si disse Elsa non appena le misero la figlia tra le braccia, vergognandosi subito di quel pensiero.
Più che renderla orgogliosa, la nascita della bambina la riportò di colpo alle amarezze della sua infanzia quando, mentre le amiche saltavano la corda e giocavano a Campana nei cortili, lei andava in giro con il fratellino di turno appoggiato sull’anca, o strofinava pezze sporche di cacca sulla riva del Po.
Ogni volta che sua madre partoriva, lei sperava che sarebbe stata l’ultima, ma ogni anno qualche vicina, con un sorrisino malizioso sulle labbra, le diceva: «O sentì che to’ mama l’ha t’ha scurtà ancora al vestidín!
Ho sentito che tua mamma ti ha accorciato di nuovo il vestito!» Che, da quelle parti, era una frase comune per indicare una gravidanza.
Elsa, che vivendo in campagna vedeva accoppiare gli animali, aveva smesso in fretta di credere alla cicogna, e quando le dicevano così, diventava rossa e scappava nella golena a piangere di sconforto e di vergogna. Sì, di vergogna, che ai suoi occhi la mamma era vecchia e certe cose alla sua età non le doveva fare.
Non appena aveva compiuto vent’anni, anche la Elsa si era ritrovata incinta, non solo allo stesso tempo di sua madre, ma quando era ancora signorina. La vergogna adesso era doppia, ché ai suoi tempi aspettare un bambino senza la fede al dito era uno scandalo. Era successo una sera di giugno. Lei e Guido erano andati a ballare e dopo si erano fermati in un campo accanto al fiume. L’aria era tiepida e c’era una luna bassa e rotonda. Guido le aveva chiesto se era un giorno sicuro e lei, tra un sospiro e l’altro, gli aveva risposto di sì.
Quando era nato l’ultimo fratellino, la ragazza aveva sentito il dottore che spiegava alla madre: «Tieni bene i conti, e la settimana a metà del ciclo dici a tuo marito di girarsi dall’altra parte». Elsa aveva capito subito a cosa si riferisse, e si era assicurata di seguire il suo consiglio. Però quella sera di giugno, confusa dai baci e dalle carezze, aveva fatto male i calcoli. Una volta rientrata, aveva dato un’occhiata al calendario. Era rimasta a fissarlo, smarrita, accorgendosi subito dell’errore, e già quella sera le era sembrato di sentire una presenza dentro di sé: come un gorgoglio, una piccola capriola nel buio della carne. Aveva trattenuto il respiro e, piena di trepidazione e di paura, tutte e due le cose insieme, aveva ascoltato quel silenzio appena più lungo
fra un tum,
e l’altro tum,
del suo cuore.
Quella notte Elsa aveva sognato una foresta blu, una distesa di lucciole, il volo di un colibrì.
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Il mese dopo, aveva rivelato a Guido di essere incinta. Lui era sembrato contento, nonostante avessero entrambi solo vent’anni, o forse proprio per quello.
Si erano sposati il 27 settembre 1946. Elsa, in tailleur grigio perla e cappellino con la veletta, baciava gli invitati, ridendo e piangendo di gioia, ma il sogno era durato poco. Una volta diventata madre, le era sembrato di trovarsi tra le mani l’ennesimo fratellino da accudire. E questa volta era peggio, perché la bambina doveva anche allattarla, e con i capezzoli ulcerati era un tormento. In più, di notte Norma aveva le coliche e piangeva per ore. Una volta che il seno si era abituato al massacro dell’allattamento e i mal di pancia della figlia erano cessati, erano spuntati i dentini e, quando Norma aveva iniziato a camminare, apriva i cassetti, tirava la tovaglia apparecchiata, saliva a gattoni le scale. Un incubo! A volte Elsa era talmente esausta che la lasciava fare. Si limitava a osservarla, sconsolata. Più la guardava, più la sentiva estranea, e si chiedeva se quella creatura fosse davvero cresciuta nella sua pancia.
Quello non era il matrimonio che aveva sognato. Lei desiderava un po’ di libertà, vivere accanto a Guido come due sposini, ma non ce n’era stato il tempo. Dopo il matrimonio, la coppia era andata a vivere a Caposotto di Sermide, nel basso Mantovano. Avevano preso in affitto due stanze in via San Giovanni, in un vecchio edificio che cadeva a pezzi, ma che in paese chiamavano pomposamente al palás, «il palazzo», per via delle notevoli dimensioni. La casa era malandata, ma il gelsomino che si arrampicava intorno alla porta d’entrata riempiva l’intero cortile con il suo profumo.
La Zena, amica di Elsa fin dall’infanzia, viveva con il marito Dolfo due case più in là. Dolfo era il gemello di Guido, anche se i due non si somigliavano per niente: il primo era robusto e dal carattere spavaldo; l’altro magro e dall’indole timida. Mentre il primo parlava per tre, Guido era un tipo silenzioso. Sua madre Neve raccontava che fino a tre anni quel figlio non aveva detto una parola. Non che non ne fosse capace; semplicemente lasciava che il fratello parlasse anche per lui.
I due gemelli avevano conosciuto Elsa e la Zena la stessa sera, a un ballo. Un anno dopo, entrambe le coppie si erano sposate e così le due amiche erano diventate anche parenti. Erano ragazzi giovani e innamorati, ma la guerra era finita da poco e la vita a quei tempi non era facile. Guido e Dolfo lavoravano in campagna e, se erano fortunati, venivano assunti come stagionali nello zuccherificio di Sermide, ma per metà dell’anno soldi in casa non se ne vedevano.
Fin da ragazzine, Elsa e la Zena andavano a fare la stagione della monda in Piemonte: un mese e mezzo di duro lavoro, ma un chilo di riso per ogni giornata portata a termine e un bel gruzzolo di soldi nascosti nel reggipetto quando tornavano a casa. Una volta sposate, le due amiche erano diventate madri a pochi mesi di distanza e pensavano di essersi lasciate quel lavoraccio alle spalle. Però i soldi mancavano sempre, e non appena le bambine furono svezzate, si videro costrette a ripartire per la risaia.
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Era la primavera del 1949 e alla Zena si spezzava il cuore a dover lasciare alla madre la bambina «tonda e ciara cme un ninín», tonda e chiara come un porcellino. Elsa invece vedeva la partenza per il Piemonte quasi come una vacanza: il lavoro era sì faticoso, ma almeno la notte avrebbe potuto dormire otto ore filate, e lei, quello, nemmeno si ricordava come fosse.
Le due partirono l’ultima domenica di maggio prima del sorgere del sole. Guido e Dolfo le accompagnarono alla stazione in bicicletta. Le donne, sedute di traverso sulla canna, se ne stavano in silenzio, il fiato dei mariti come un’onda tiepida sulle loro nuche. Il cielo era nero, l’aria frizzante. I fratelli pedalavano uno davanti all’altro, la strada illuminata dalla luce rotonda dei fanali. Le sole finestre illuminate erano quelle delle stalle in mezzo alla campagna. Là i contadini avevano già rimosso la paglia sporca e si apprestavano a iniziare la prima mungitura.
Arrivati alla stazione di Sermide, Guido e Dolfo baciarono le mogli, ma solo sulla guancia, ché in giro c’era gente. «Metti il cappellino alla bambina, e non lasciarla mai al sole», si raccomandava la Elsa.
«Tu però scrivimi, Dolfo. Ricordati che voglio almeno una lettera ogni due giorni», ripeteva la Zena con il magone.
«Andate, che il treno non aspetta», le interruppe Guido.
Elsa si incamminò, ma la Zena trascinò via Dolfo, e i due iniziarono a baciarsi in un angolo.
«Zena, muoviti che è tardi!» la rimproverò a voce bassa la cognata.
Lei però si fece attendere, tanto che poi dovettero correre per non perdere il treno.
Quando le due salirono, il vagone era già pieno. Chiamarlo treno, era troppo. Si trattava di un convoglio più adatto a trasportare bestie che persone. Non c’erano sedili e le donne sedevano per terra o sulle valigie. Le cognate trovarono un angolo libero solo accanto al gabinetto.
«Diomio che puzza!» si lamentava la Zena ogni volta che qualcuno apriva la porta.
«Così impari a perdere il tempo a sbaciucchiarti con tuo marito!» la rimproverò la Elsa.
Lasciata la stazione, alcune donne si misero a cantare.
Si lasciava il moroso, lo sposo, un saluto un bacio un sorriso per riportare a casa pochi soldi e un sacco di riso…
«Mi sembra di essere tornate ragazze!» esclamò la Elsa.
«Sl’era par mi, a staa a ca’ méa. Fosse stato per me, avrei preferito starmene a casa», rispose la Zena, ma dopo un po’ anche lei fu contagiata dall’atmosfera di cameratismo e si unì al coro.
Nella risaia, quando il sole bruciava la pelle
cantavan le mondine le canzoni d’amore più belle
e poi di sera, alla fine del duro lavoro
cantavan tutte in coro «Finalmente si va a riposar»
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Davanti alla stazione di Vercelli trovarono ad attenderle i camion e i carri dei padroni. Individuato il loro autista, Elsa e la Zena salirono sul carretto e furono portate insieme ad altre sei donne in una grande cascina in mezzo alla pianura.
Dietro la costruzione correva un piccolo fiume. «Potete rinfrescarvi lì. La cena alle sette in punto», annunciò il padrone.
Mangiarono zuppa di fagioli e pane, e subito dopo andarono tutte nel dormitorio. Era uno stanzone al secondo piano con mura scrostate e soffitti che arrivavano fino alle travi del tetto. Le lucertole correvano sul muro e grosse ragnatele si tendevano lungo gli angoli più alti. Ci stavano parecchie file di letti là dentro. Zena ne contò quaranta. I materassi erano di crine e dopo anni di uso, le donne sprofondavano nell’orma che tante altre mondine si erano lasciate dietro.
Elsa si gettò sulla branda con un sospiro. Zena invece si accorse che un uccello aveva lasciato un regalo sul suo cuscino. «Devono esserci dei nidi sulle travi, ma dicono che la merda di uccello porti bene», sospirò.
Tolse la federa e coprì il cuscino con una camicia. Poi scivolò sotto le lenzuola e aggiunse: «Pensa che bello: domattina ci sveglieremo al canto degli uccellini».
«Sì, il canto degli uccellini!… Dormi, va’ là, c’lè mèi», farfugliò la cognata piena di sonno.
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Furono svegliate alle quattro e mezza, quando fuori era buio e gli uccellini dormivano ancora. Scesero per una tazza di caffellatte e una fetta di pane. Poi si incamminarono in fila indiana fino a raggiungere le quadre, così chiamavano i campi allagati.
La Elsa si spalmò un pesante strato di Pomata Biancardi sul viso e passò il barattolo alla Zena. «Se no ti rovini la pelle», le raccomandò. Sudavano molto sotto quell’impiastro, ma almeno non sarebbero tornate a casa con la carnagione scura e inspessita dal sole.
Tutte le mondine portavano grandi cappelli di paglia. Le più giovani indossavano calzoni corti, le maritate invece arrotolavano le sottane fissandole intorno ai fianchi. Davanti a loro, c’erano sei settimane di lavoro durissimo, con la schiena piegata in due da mattina a sera, il sole a picco sulla testa e i piedi nell’acqua salmastra.
Le donne iniziarono la monda, cantando tutte insieme per scandire il ritmo.
Al lato delle quadre, i caporali controllavano che il lavoro venisse portato avanti rapidamente. «Fate andare le mani, donne, non la bocca! Dateci dentro, qui non si dorme!»
«Come se sopportare il caldo e le zanzare non fosse abbastanza», sospirò la Elsa, passandosi una mano sulla fronte. Più che le zanzare o le battute dei caporali, lei non sopportava le bisce. Quando ne sentiva una guizzarle tra le gambe, lanciava urla di ribrezzo. Zena allora afferrava la biscia e la faceva roteare due o tre volte nell’aria, per poi buttarla ai lati della quadra senza batter ciglio.
A volte, finiva giusto addosso al caporale. «Scusa, Alfonso, non ti avevo visto», gli diceva lei, e intanto faceva l’occhiolino alla Elsa.
Otto, dieci ore a cul indré, rinculando tutte in fila nell’acqua salmastra. Non si fermavano nemmeno per fare pipì, perché era proibito lasciare le quadre anche solo un minuto. Al momento del bisogno si spostavano di lato, si liberavano, poi riprendevano a mondare.
Tornavano alla cascina a metà pomeriggio. Prima di salire nei dormitori, si lavavano nel fiumiciattolo che ci passava accanto, sfregandosi le gambe col sapone e le spighe di riso per tirar via il verderame accumulato nell’acqua stagnante. Poi andavano a riposare in attesa della cena..
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