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Il trono di spade. Una danza con i draghi (Vol. 5)

21,46

La “vittoria” del leone dei Lannister ha lasciato un’interminabile scia di sangue: sepolto l’infame lord Tywin, assassinato dal proprio figlio nano, finita in catene la regina Cersei, seduto il piccolo re Tommen su un trono di lame pronte a ucciderlo, il destino dell’intero continente occidentale è di nuovo in bilico. Sulla remota Barriera il temerario Jon Snow è costretto a consolidare a fil di spada il suo rango di lord comandante dei guardiani della notte mentre, al di là del mare Stretto, Daenerys Targaryen, l’intrepida Regina dei Draghi, continua a difendere il proprio dominio contro orde di nemici antichi e nuovi. In fuga verso le città libere, il parricida Tyrion Lannister potrebbe essere la chiave di volta della restaurazione della mai realmente estinta dinastia del Drago. Tutto questo però potrebbe rivelarsi disperatamente inutile. Perché ora, veramente… l’inverno sta arrivando.

Informazioni aggiuntive

Editore

Data di pubblicazione

20 maggio 2022

ISBN-13

978-8804750833

Lingua

Italiano

Formato
COD: 9951 Categoria: Tag: Product ID: 21141

Descrizione

Tyrion

Tyrion Lannister varcò il Mare Stretto ubriacandosi di continuo.

La nave era piccola, la sua cabina davvero minuscola, ma il capitano gli aveva comunque proibito di salire in coperta. Il rollio del ponte che avvertiva sotto i suoi piedi gli faceva torcere le viscere, e il cibo vomitato aveva un gusto ancora più schifoso di quello ingerito.

Ma che bisogno aveva in fondo di manzo salato, formaggio duro e pane brulicante vermi quando poteva nutrirsi esclusivamente di vino? Un vino rosso e aspro, molto forte. A volte vomitava anche quello, ma la scorta era inesauribile.

«Di vino è pieno il mondo» mugugnò Tyrion nell’oscurità della cabina.

Al lord suo padre, gli ubriaconi non erano mai serviti a niente, ma che importanza aveva più? Suo padre era morto. Lo aveva ucciso lui. “Un dardo di balestra nel ventre, mio signore, un unico dardo tutto per te. Se solo avessi avuto maggiore destrezza, te lo avrei piantato in quel tuo cazzo con il quale mi hai generato, schifoso bastardo.”

Sottocoperta non esisteva notte e non esisteva giorno. Tyrion teneva il conto del tempo regolandosi sul va e vieni del mozzo che gli portava il cibo che lui non mangiava. Il ragazzo portava sempre anche secchio e spazzola, pronto a pulire.

«È vino dorniano?» Tyrion gli chiese a uno dei suoi passaggi, stappando l’ennesimo otre. «Mi fa venire in mente una certa serpe che conobbi. Un personaggio ameno… fino a quando non gli è crollata addosso una montagna.»

Il mozzo non rispose. Era brutto, per quanto decisamente più attraente di un certo nano con solo mezzo naso e una cicatrice che andava dall’occhio al mento. «Ti ho forse offeso?» chiese Tyrion al ragazzo mentre strofinava le assi.

«Ti è stato ordinato di non parlarmi? O magari un nano si è chiavato tua madre?»

Nessuna risposta. «Dimmi almeno verso dove stiamo facendo rotta.» Jaime aveva menzionato le città libere, ma non aveva mai detto quale. «Braavos?

Tyrion avrebbe di gran lunga preferito andare a Dorne. “Myrcella ha più anni di Tommen: secondo la legge dorniana, il Trono di Spade appartiene a lei. L’aiuterò a far valere i suoi diritti, come mi suggerì il principe Oberyn.”

Ma anche Oberyn era morto, la sua testa ridotta a una poltiglia purpurea dal pugno corazzato di ser Gregor Clegane, la Montagna che cavalca. E senza più la Vipera Rossa a esercitare pressioni su di lui, il principe Doran Martell, signore di Dorne, avrebbe mai preso in considerazione un simile rischioso intrigo? “Potrebbe invece sbattermi ai ceppi e consegnarmi alla mia dolce sorellina Cersei.” Un luogo più sicuro sarebbe forse stata la Barriera. Il lord comandante Jeor Mormont, il Vecchio Orso, un tempo gli aveva detto che un uomo come lui sarebbe stato un valido apporto ai guardiani della notte. “Però anche Mormont potrebbe essere morto, magari l’attuale lord comandante è Janos Slynt.” E quel figlio d’un beccaio non avrebbe di certo dimenticato chi lo aveva mandato su quella muraglia di ghiaccio. “E io? Voglio davvero passare il resto dei miei giorni a mangiare carne salata e porridge con un branco di ladri e assassini?” Peraltro il resto dei suoi giorni non sarebbe comunque durato a lungo. Di questo se ne sarebbe occupato Janos Slynt.

Il mozzo immerse la spazzola nell’acqua e continuò a strofinare.

«Ci sei mai stato nelle case di piacere di Lys?» riprese Tyrion. «Non è che sai dove vanno le puttane?» Tyrion non riusciva a ricordare come si diceva “baldracca” in valyriano, e in ogni caso era troppo tardi. Il mozzo gettò la brusca nel secchio e se ne andò.

“Il vino mi ha intorpidito il cervello.” Tyrion aveva imparato a leggere l’alto valyriano seduto sulle ginocchia del suo maestro, nella grande rocca dei Lannister a Castel Granito. In realtà, quello che si parlava ora nelle nove città libere… be’, non era più nemmeno un dialetto, ma nove dialetti destinati a diventare altrettanti linguaggi. Tyrion aveva un’infarinatura di braavosiano e masticava qualche parola di myriano. A Tyrosh sarebbe stato in grado di maledire gli dèi, di dare a qualcuno dell’imbroglione e, grazie a un mercenario chiamato la Roccia conosciuto qualche tempo prima, di ordinare una birra di malto. “Per lo meno a Dorne parlano la lingua comune dei Sette Regni.” Come il cibo dorniano e la legge dorniana, anche la lingua dorniana era piena delle spezie dell’antico regno della Rhoyne, ma era comunque comprensibile. “Sì, Dorne è il posto che fa per me.” Si trascinò sulla cuccetta, aggrappandosi a quel pensiero come una bambina alla propria bambola di pezza.

Per Tyrion Lannister il sonno non arrivava mai facilmente. A bordo di quella nave non arrivava pressoché mai. Di quando in quando, però, ingurgitava abbastanza vino da perdere conoscenza per un po’. Se non altro non sognava. Aveva sognato anche troppo nella sua piccola vita. “E quali assurdità, poi: amore, giustizia, amicizia, gloria. Anche di essere alto.” Ma tutto ciò era al di là della sua portata, Tyrion ormai lo sapeva. Quello che ancora non sapeva è dove vanno le puttane.

«Ovunque vadano le puttane» aveva detto il lord suo padre. “Le sue ultime parole, e quali grandiose parole sono state.”

La balestra che ringhia, lord Tywin Lannister che siede ancora sulla latrina e Tyrion Lannister che si ritrova ad avanzare nelle tenebre con al proprio fianco Varys l’eunuco, il famigerato Ragno Tessitore, supremo capo delle spie della Fortezza Rossa. Poi doveva essere sceso lungo il condotto segreto, duecentotrenta scalini di ferro infissi nella pietra, fino alle braci arancioni che pulsavano nella bocca di un drago di metallo. Non ricordava niente. Solo il rumore della balestra e il tanfo della merda che sgorga dalle viscere di suo padre. “Perfino da morto ha trovato il modo di cacarmi addosso.”

Varys gli aveva fatto da guida in un labirinto di tunnel. Non avevano proferito parola fino a quando non erano emersi nei pressi del Fiume delle Acque Nere, dove Tyrion aveva vinto una grande battaglia e perso il naso. Solo a quel punto il nano si era rivolto all’eunuco.

«Ho ucciso mio padre» disse nello stesso tono con cui qualcuno annuncerebbe di essersi fatto male all’alluce.

Il signore dei sussurri e delle spie era vestito come un confratello questuante: tunica di grezza tela marrone divorata dalle tarme, cappuccio sollevato a tenere in ombra le guance lisce e grasse, e la calva testa rotonda.

«Non avresti dovuto salire quella scala» aveva risposto Varys con aria di rimprovero.

«Ovunque vadano le puttane.» Tyrion aveva avvertito il padre di non pronunciare quella parola. “Ma se non avessi lanciato quel dardo, avrebbe capito che le mie erano solo vuote minacce. Mi avrebbe strappato la balestra dalle mani, nello stesso modo in cui un tempo mi aveva strappato Tysha dalle braccia.” Lo uccise mentre stava per alzarsi dalla latrina.

«Ho ucciso anche Shae» confidò a Varys.

«Hai sempre saputo che persona era lei.»

«Certo. Ma non sapevo che persona era lui.»

“Avrei dovuto uccidere anche l’eunuco.” Altro sangue sulle sue mani, che importanza avrebbe avuto ormai? Tyrion ancora non comprendeva che cosa aveva fermato la sua lama. Non la gratitudine. Varys lo aveva salvato dalla spada del boia, ma solo perché c’era Jaime. “Jaime… No, meglio non pensare a lui.”

Invece Tyrion trovò un otre pieno di vino e vi si attaccò come al seno di una donna. L’aspro vino rosso gli colò lungo il mento e arrivò a infradiciargli la tunica, la stessa che indossava nella cella alla Fortezza Rossa. Sotto di lui, la tolda continuava a rollare e, quando Tyrion cercò di alzarsi, si sollevò di lato, scaraventandolo contro la paratia. “Una tempesta” si rese conto “o forse sono più ubriaco di quanto credo di essere.” Vomitò il vino e restò per un po’ sdraiato, chiedendosi se la nave sarebbe affondata. “È questa la tua vendetta, padre? Il Padre lassù ti ha reso suo portavoce?”

«Ecco la ricompensa per l’assassino di consanguinei» disse mentre il vento ululava all’esterno.

Non sembrava giusto mandare in fondo al mare il mozzo, il capitano e tutto il resto dell’equipaggio per un atto perpetrato da lui. Ma quando mai gli dèi erano giusti? Fu proprio in quel momento che l’oscurità lo inghiottì.

Quando finalmente si dissiparono le tenebre, la sua testa pareva sul punto di scoppiare e la nave disegnava cerchi vorticosi.

Il capitano insisteva che erano arrivati a destinazione. Tyrion gli intimò di tacere, e scalciò debolmente mentre un gigantesco marinaio calvo lo sollevava di peso, se lo caricava sotto un braccio e lo portava sul ponte, dove ad attenderlo c’era un barile vuoto. Era un piccolo barile tozzo, troppo stretto perfino per un nano. Nel dibattersi, Tyrion si pisciò addosso, ma non servì. Venne infilato nel barile a testa in giù, con le ginocchia all’altezza delle orecchie. Il naso mozzato gli prudeva ferocemente, ma Tyrion aveva le braccia così compresse da non riuscire a grattarselo. “Un palanchino su misura per quelli come me” pensò mentre i marinai inchiodavano il coperchio del barile. Udì delle voci gridare mentre veniva sollevato. A ogni sussulto, Tyrion batteva il cranio contro il fondo del barile. Il mondo turbinò e turbinò mentre il barile rotolava verso il basso, poi si fermò con uno schianto che per poco non gli strappò un grido. Subito dopo, un secondo barile venne a schiantarsi contro il suo. Tyrion si morsicò la lingua.

Quello che seguì fu il viaggio più lungo della sua vita, anche se non durò più di mezz’ora. Venne alzato e abbassato, rotolato e impilato, appeso, raddrizzato e fatto rotolare di nuovo. Attraverso le assi di legno, udì degli uomini che gridavano e a un certo punto un cavallo nitrì, molto vicino a lui. Le sue gambe deformi cominciarono a irrigidirsi e in breve i crampi furono talmente forti da fargli dimenticare i continui colpi sulla testa.

Tutto finì così come era iniziato, con un altro rotolare che lo lasciò stordito e ancora più scosso. Fuori, strane voci parlavano un idioma a lui sconosciuto. Qualcuno iniziò a battere sulla parte superiore del barile e d’un tratto il coperchio si aprì. Entrarono luce e aria fresca. Tyrion annaspò avidamente, cercando di raddrizzarsi. Tutto quello che riuscì a fare fu rovesciare il barile di lato, finendo per rotolare sul pavimento di terra battuta.

Sopra di lui torreggiava un grottesco grassone, con barba gialla biforcuta, mazza di legno e scalpello di ferro in pugno. Indossava una tunica da camera abbastanza larga da poter essere usata come padiglione da torneo; il nodo già allentato della cintura si era sciolto, rivelando un enorme ventre biancastro e due pesanti mammelle, flosce come sacche di sugna e coperte da una ruvida peluria giallastra. A Tyrion fece venire in mente il cadavere di una vacca di mare che si era arenato nelle caverne sotto Castel Granito.

«Un nano ubriaco» disse l’uomo flaccido nella lingua comune dei Sette Regni guardando in basso e sorrise.

«Una vacca di mare putrefatta» rispose Tyrion con la bocca piena di sangue, che sputò ai piedi del grassone.

Si trovavano nella penombra di un lungo scantinato, con soffitto a volta e pareti di pietra arabescate dal salnitro. Erano circondati da botti di vino, più che sufficienti per permettere a un nano assetato di sistemarsi tranquillamente per la notte. “O per la vita.”

«Sei un insolente, qualità che apprezzo in un nano.» Mentre il grassone rideva, la sua carne ondeggiò talmente tanto che Tyrion temette che qualche blocco potesse staccarsi e schiacciarlo. «Hai fame, mio piccolo amico? Sei stanco?»

«Ho sete.» Tyrion cercò di rimettersi in piedi. «E mi sento lercio.»

Le narici dell’uomo grasso si contrassero. «Per prima cosa un bagno, difatti. Poi del cibo e un bel letto morbido. I miei servitori provvederanno a te.» Il suo ospite depose mazza e scalpello. «La mia dimora è la tua. Ogni amico del mio amico dall’altra parte dell’acqua è anche amico di Illyrio Mopatis.»

“E ogni amico di Varys il Ragno Tessitore è una persona di cui mi fido come di una tarantola nelle mutande.”

In ogni caso, riguardo al bagno il grassone mantenne la promessa. Appena Tyrion si abbandonò all’abbraccio dell’acqua calda e chiuse gli occhi, sprofondò nel sonno.

Si risvegliò nudo, su un materasso di piume d’oca talmente soffice da dargli l’impressione di fluttuare sopra una nuvola. Aveva la lingua spaccata e la gola secca. In compenso, il suo uccello era rigido come una verga di ferro. Rotolò giù dal letto, trovò un pitale e cominciò a riempirlo, con un gemito di piacere.

La stanza era immersa nella penombra, ma dei raggi di sole si facevano strada fra le lamine inclinate delle imposte. Tyrion scrollò le ultime gocce e fece qualche passo sugli elaborati tappeti di Myr che ricoprivano il pavimento, anch’essi soffici come erba di primavera. Si arrampicò goffamente fino al sedile sul davanzale della finestra e spalancò le imposte per vedere dove Varys e gli dèi lo avevano destinato.

Sotto la finestra, sei alberi di ciliegio, con i loro rami snelli e marroni, si ergevano come sentinelle attorno a una piscina di marmo. Nell’acqua c’era un ragazzino nudo in posizione da combattimento, con una lama da mercenario braavosiano in pugno. Piccolo e ben fatto, non dimostrava più di sedici anni; i capelli biondi lisci scendevano a sfiorargli le spalle. Una figura talmente realistica, che Tyrion impiegò alcuni momenti per rendersi conto che si trattava di una statua di marmo colorata, anche se la lama scintillava come vero acciaio.

Sul lato opposto della vasca si ergeva un muro di mattoni alto dodici piedi, con rostri di ferro lungo tutto il perimetro. Oltre il muro si estendeva la città. Un mare di tetti di piastrelle ammassati attorno a una baia. Tyrion scorse delle torri squadrate di mattoni, un grande tempio rosso, una villa imponente in cima a una collina. In lontananza, la luce del sole creava riflessi accecanti sopra le acque profonde del mare. Barche da pesca incrociavano nella baia, con le vele gonfie di vento. Lungo la costa, si allineavano le alberature di scafi ben più grandi. “Una di quelle navi farà certamente rotta per Dorne.” Solo che Tyrion non aveva conio per pagare la traversata; quanto a maneggiare un remo, nemmeno a pensarci. “Forse mi potrei arruolare come mozzo, e guadagnarmi la paga lasciando che l’equipaggio mi tormenti su e giù per il Mare Stretto.”

Si domandò dove si trovasse. “Perfino l’aria da queste parti ha un odore diverso.” Spezie ignote aromatizzavano il freddo vento autunnale e dalle strade oltre il muro salivano deboli richiami. A Tyrion pareva un linguaggio simile all’antico valyriano, ma riusciva a capire solo una parola su cinque. “Non è Braavos” concluse “e nemmeno Tyrosh.” Inoltre, gli alberi spogli e l’aria fredda escludevano altre città libere come Lys, Myr e Volantis.

Tyrion udì la porta aprirsi dietro di lui e si voltò per affrontare il suo grasso ospite. «Siamo a Pentos, vero?»

«Esatto. E dove se no?»

Pentos. Be’, per lo meno non era Approdo del Re. «Dove vanno le puttane?» gli chiese a bruciapelo.

«Qui le puttane vanno nei bordelli, proprio come nel continente occidentale. Ma tu, mio piccolo amico, non ne avrai necessità. Basta che tu scelga una delle mie servette. Nessuna di loro oserà respingerti.»

«Serve o schiave?» chiese Tyrion in tono tagliente.

Il grassone si accarezzò uno dei rostri della sua barba gialla cosparsa di unguento, gesto che Tyrion trovò decisamente osceno. «La schiavitù a Pentos è vietata dal trattato che, un secolo fa, ci venne imposto da Braavos. Tuttavia nessuna delle mie fanciulle ti respingerà.» Il magistro Illyrio Mopatis fece un pomposo inchino. «Ma ora, mio piccolo amico, ti prego di scusarmi. Ho l’onore di essere uno dei magistri di questa grande città, e siamo stati convocati dal principe.» Illyrio sorrise, rivelando una bocca irta di denti storti e ingialliti. «Perlustra pure la mia magione e i suoi giardini, se così ti aggrada, ma non inoltrarti per alcun motivo fuori delle mura. È meglio che nessuno venga a sapere che eri qui.»

«Ero qui? Sono forse andato da qualche altra parte?»

«Avremo tempo di parlarne più tardi. Stasera il mio piccolo amico e io mangeremo, berremo e faremo grandi piani, sì?»

«Sì, mio grasso amico» rispose Tyrion.

“Intende usarmi per i suoi scopi.” Con i principi mercanti delle città libere, tutto si basava sul profitto. Tutto e tutti. “Soldati delle spezie e signori dei formaggi” così li definiva con disprezzo il lord suo padre. Se un giorno svegliandosi Illyrio Mopatis avesse visto maggior profitto in un nano morto piuttosto che non in un nano vivo, entro il tramonto Tyrion Lannister si sarebbe ritrovato a testa in giù in un altro barile. “E, prima che quel giorno arrivi, sarà meglio che io sia lontano di qui.” Perché quel giorno sarebbe arrivato, non c’erano dubbi. La sua cara sorellina Cersei non si sarebbe dimenticata di lui, e lo stesso Jaime difficilmente avrebbe gradito quel dardo di balestra nelle viscere del lord loro padre.

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