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La casa delle voci

13,3020,90

Gli estranei sono il pericolo. Fidati soltanto di mamma e papà. Pietro Gerber non è uno psicologo come gli altri. La sua specializzazione è l’ipnosi e i suoi pazienti hanno una cosa in comune: sono bambini. Pietro è il migliore di tutta Firenze, dove è conosciuto come l’addormentatore di bambini. Ma quando riceve una telefonata dall’altro capo del mondo da parte di una collega australiana che gli raccomanda una paziente, Pietro reagisce con perplessità e diffidenza. Perché Hanna Hall è un’adulta. Hanna è tormentata da un ricordo vivido, ma che potrebbe non essere reale: un omicidio. Hanna è un’adulta oggi, ma quel ricordo risale alla sua infanzia. E Pietro dovrà aiutarla a far riemergere la bambina che è ancora dentro di lei. Una bambina dai molti nomi, tenuta sempre lontana dagli estranei e che, con la sua famiglia, viveva felice in un luogo incantato: la «casa delle voci». Quella bambina, a dieci anni, ha assistito a un omicidio. O forse non ha semplicemente visto. Forse l’assassina è proprio lei.

Informazioni aggiuntive

Autore

Editore

ISBN

978-8830448292, 978-8850258994

Data di pubblicazione

2 novembre 2020

Lingua

Formato

Copertina flessibile, Copertina rigida

COD: 22104 Categoria: Tag: Product ID: 22104

Descrizione

23 febbraio

Una carezza nel sonno.

Nel nebbioso confine con la veglia, un attimo prima di precipitare nell’abisso dell’oblio, il tocco leggero di dita gelide e sottili sulla fronte, accompagnato da un triste e dolcissimo sussurro.

Il suo nome.

Sentendosi chiamare, la bambina sbarrò gli occhi. Ed ebbe subito paura. Qualcuno era venuto a farle visita mentre si addormentava. Poteva essere uno dei vecchi abitanti della casa, a volte chiacchierava con loro o li sentiva muoversi come i topi, rasentando i muri.

Ma gli spettri parlavano dentro, non fuori di lei.

Anche Ado – il povero Ado, il malinconico Ado – veniva a trovarla. Però, a differenza di tutti gli altri spiriti, Ado non parlava mai. Perciò a turbarla adesso era un pensiero più concreto.

A parte mamma e papà, nessuno conosceva il suo nome nel mondo dei viventi.

Era la «regola numero tre».

L’idea di aver violato una delle cinque raccomandazioni dei suoi genitori l’atterriva. Si erano sempre fidati di lei, non voleva deluderli. Non proprio ora che papà le aveva promesso di insegnarle a cacciare con l’arco e che anche la mamma si era convinta. Ma poi rifletté: come poteva essere stata colpa sua?

Regola numero tre: non dire mai il tuo nome agli estranei.

Non aveva detto il suo nuovo nome agli estranei, né era possibile che qualcuno di loro l’avesse appreso per sbaglio. Anche perché erano almeno un paio di mesi che non vedevano qualcuno aggirarsi nei paraggi del casale. Erano isolati in mezzo al nulla della campagna, la città più vicina distava due giorni di cammino.

Erano al sicuro. Solo loro tre.

Regola numero quattro: non avvicinarti mai agli estranei e non lasciarti avvicinare da loro.

Allora com’era stato possibile? Era stata la casa a chiamarla, non c’era altra spiegazione. A volte, le travi producevano sinistri scricchiolii o gemiti musicali. Papà diceva che il casale si assestava sulle fondamenta come una signora attempata seduta in poltrona che ogni tanto sente il bisogno di mettersi più comoda. Nel dormiveglia, uno di quei rumori le era sembrato il suono del suo nome. Tutto qui.

La sua anima inquieta si placò. Richiuse gli occhi. Il sonno, col suo silenzioso richiamo, la invitava a seguirla nel posticino caldo dove tutto si dissolve.

Stava per abbandonarsi, quando qualcuno la chiamò di nuovo.

Stavolta la bambina si tirò su dal cuscino e, senza scendere dal letto, scandagliò il buio nella stanza. La stufa in corridoio era spenta da ore. Oltre le coperte, il freddo assediava il suo giaciglio. Adesso era perfettamente vigile.

Chiunque fosse stato a invocarla non era in casa, era là fuori, nella notte buia dell’inverno.

Aveva parlato con il verso degli spifferi che si insinuano sotto le porte o fra le persiane chiuse. Ma il silenzio era troppo profondo e lei non riusciva a scorgere altro suono, con il cuore che le sbatacchiava nelle orecchie come un pesce dentro un secchio.

«Chi sei?» avrebbe voluto domandare alla tenebra. Ma temeva la risposta. O forse la conosceva già.

Regola numero cinque: se un estraneo ti chiama per nome, scappa.

Si alzò dal letto. Ma, prima di muoversi, cercò a tentoni la bambola di pezza con un occhio solo che dormiva insieme a lei e l’afferrò per portarla con sé. Senza accendere il lume sul comodino, si avventurò cieca nella stanza. I suoi piccoli passi scalzi risuonarono sul pavimento di legno.

Doveva avvertire mamma e papà.

Uscì in corridoio. Dalla scala che conduceva al piano di sotto risaliva l’odore del fuoco che si consumava lentamente nel camino. Immaginò il tavolo di ulivo in cucina, ancora imbandito coi resti della festicciola della sera prima. La torta di pane e zucchero preparata dalla mamma nel forno a legna e a cui mancavano tre fette esatte. Le dieci candeline che aveva spento con un unico soffio, seduta sulle ginocchia di papà.

Mentre si avvicinava alla camera dei genitori, i pensieri felici evaporarono lasciando il posto a cupi presagi.

Regola numero due: gli estranei sono il pericolo.

L’aveva visto coi suoi occhi: gli estranei prendevano le persone, le portavano via dai loro cari. Nessuno sapeva dove andavano a finire, né cosa ne fosse di loro. O forse era ancora troppo piccola, non era ancora pronta, così nessuno gliel’aveva mai voluto raccontare. L’unica certezza che aveva era che quelle persone non tornavano più indietro.

Mai più.

«Papà, mamma… C’è qualcuno fuori dalla casa» bisbigliò, ma con la sicurezza di chi non vuole essere più considerata soltanto una bambina.

Papà si svegliò per primo, un attimo dopo anche la mamma. E la bambina ebbe subito tutta la loro attenzione.

«Cos’hai sentito?» domandò la mamma, mentre papà impugnava la torcia elettrica che teneva sempre pronta accanto al letto.

«Il mio nome» rispose la bambina, titubante, temendo un rimprovero perché era stata violata una delle cinque regole.

Ma nessuno le disse niente. Papà accese la torcia, schermando il fascio con la mano in modo che rischiarasse appena il buio nella stanza, così gli intrusi non avrebbero capito che erano svegli.

I genitori non le chiesero altro. Si stavano domandando se crederle oppure no. Ma non perché sospettassero che avesse detto una bugia, sapevano che non avrebbe mai mentito su una cosa del genere. Dovevano soltanto stabilire se ciò che aveva raccontato era reale oppure no. La bambina avrebbe tanto voluto che si trattasse solo della sua fantasia.

Mamma e papà erano all’erta. Però non si mossero. Rimasero in silenzio, con il capo leggermente sollevato, ad auscultare l’oscurità – come i radiotelescopi del suo libro di astronomia, che scrutano l’ignoto che si nasconde nel cielo, sperando ma anche temendo di cogliere un segnale. Perché, come le aveva spiegato suo padre, scoprire di non essere soli nell’universo non sarebbe stata per forza una buona notizia: «Gli alieni potrebbero anche non essere amichevoli».

Scorrevano interminabili secondi di quiete assoluta. Gli unici rumori erano il vento che agitava le chiome degli alberi secchi, il pianto lamentoso della banderuola di ferro arrugginito sul comignolo e i brontolii del vecchio fienile – come una balena che dorme in fondo all’oceano.

Un suono metallico.

Un secchio che cade per terra. Il secchio del vecchio pozzo, per l’esattezza. Papà l’aveva legato fra due cipressi. Era una delle trappole sonore che sistemava tutte le sere intorno alla casa.

Il secchio era collocato vicino al pollaio.

Lei stava per dire qualcosa ma, prima che potesse farlo, la mamma le posò una mano sulla bocca. Avrebbe voluto suggerire che forse si trattava di un animale notturno – una faina o una volpe – non per forza di un estraneo.

«I cani» sussurrò il padre.

Le venne in mente soltanto ora. Papà aveva ragione. Se fosse stata una volpe o una faina, dopo il rumore del secchio caduto i loro cani da guardia ne avrebbero certamente segnalato la presenza, mettendosi ad abbaiare. Se non l’avevano fatto, c’era solo una spiegazione.

Qualcuno li aveva messi a tacere.

Al pensiero che potesse essere accaduto qualcosa di brutto ai suoi amici pelosi, lacrime calde le ribollirono negli occhi. Si sforzò di non mettersi a piangere, il dispiacere si mischiò a un’improvvisa ondata di terrore.

Ai suoi genitori fu sufficiente scambiarsi uno sguardo. Sapevano esattamente cosa fare.

Papà scese per primo dal letto. Si rivestì in fretta, ma senza mettersi le scarpe. Mamma lo imitò, ma fece anche qualcosa che lasciò per un attimo interdetta la bambina: le parve che aspettasse il momento in cui papà non poteva notarla, poi la vide infilare una mano sotto il materasso, prendere un piccolo oggetto e metterselo rapidamente in tasca. La bambina non fece in tempo a capire cosa fosse.

Le sembrò strano. Mamma e papà non avevano segreti. Prima che lei potesse domandarle qualcosa, la mamma le affidò una seconda torcia e le si inginocchiò davanti mettendole una coperta sulle spalle.

«Ricordi cosa dobbiamo fare adesso?» domandò, fissandola bene negli occhi.

La bambina annuì. Lo sguardo deciso della mamma le diede coraggio. Da quando si erano trasferiti nel casale abbandonato, all’incirca un anno prima, avevano provato decine di volte la procedura: così la chiamava papà. Fino ad allora, non c’era mai stato bisogno di metterla in atto.

«Tieni stretta la tua bambola» le raccomandò la madre, poi prese la sua piccola mano nella propria, calda e forte, e la portò via.

Mentre scendevano le scale, la bambina si voltò un attimo e vide che il padre aveva preso una delle taniche dal ripostiglio e adesso ne stava spargendo il contenuto lungo i muri del piano superiore. Il liquido colava attraverso le assi del pavimento e aveva un odore pungente.

Arrivati al piano inferiore, mamma la trascinò con sé verso le stanze sul retro. I piedi scalzi raccoglievano schegge di legno, la bambina teneva le labbra serrate cercando di trattenere i gemiti di dolore. Ma era comunque inutile, non avevano più bisogno di nascondere la loro presenza. Là fuori, gli estranei avevano capito tutto.

Li sentiva muoversi intorno alla casa, volevano entrare.

Era già accaduto in passato che qualcosa o qualcuno venisse a minacciarli nel posto in cui credevano di essere al sicuro. Alla fine, erano sempre riusciti a sventare il pericolo.

Lei e la mamma passarono accanto al tavolo di ulivo, alla torta di compleanno con le dieci candeline spente. Alla tazza smaltata del latte con cui l’indomani avrebbe dovuto fare colazione, ai giocattoli di legno che suo padre aveva costruito per lei, al barattolo coi biscotti, ai ripiani con i libri che leggevano insieme ogni sera dopo cena. Tutte cose a cui avrebbe dovuto dire addio, ancora una volta.

La mamma si avvicinò al camino di pietra. Infilò un braccio nella canna fumaria, andando in cerca di qualcosa. Finalmente trovò l’estremità di una catena di ferro annerita di fuliggine. Iniziò a tirarla a sé con tutta la forza, facendola scorrere intorno a una carrucola nascosta nel comignolo. Una delle lastre di arenaria sotto la brace iniziò a spostarsi. Ma era troppo pesante, c’era bisogno anche di papà. Era stato lui a inventare quel marchingegno. Perché ci metteva così tanto a raggiungerle? Quell’imprevisto le mise ancora più paura.

«Aiutami» le ordinò la mamma.

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