Descrizione
1
Chasaline Alta
La Ruota del Tempo gira e le Epoche si susseguono, lasciando ricordi che divengono leggenda. La leggenda sbiadisce nel mito, ma anche il mito è ormai dimenticato quando ritorna l’Epoca che lo vide nascere. In un’Epoca chiamata da alcuni Epoca Terza, un’Epoca ancora a venire, un’Epoca da gran tempo trascorsa, il vento si alzò nella grande foresta chiamata il Bosco di Braem. Il vento non era l’inizio. Non c’è inizio né fine al girare della Ruota del Tempo. Ma fu comunque un inizio.
Il vento soffiava a nord e a est, mentre il sole rovente saliva alto nel cielo terso, fra gli alberi secchi con le foglie marroni e i rami spogli, negli sparsi villaggi dove l’aria era tremula per il calore. Il vento non procurava alcun sollievo, non vi era alcuna traccia di pioggia, e tanto meno di neve. Soffiava a nord e a est, attraverso un arco antico di pietra finemente lavorata che secondo alcuni era un passaggio che dava accesso a una grande città, secondo altri un monumento a qualche battaglia da tempo dimenticata. Su quelle pietre massicce erano rimasti solo intagli consumati dal tempo e ormai illeggibili, che rammentavano muti le glorie perdute della mitica Coremanda. Alcuni carri passavano accanto a quell’arco, lungo la via di Tar Valon, e la gente a piedi si proteggeva gli occhi dalla polvere sollevata dagli zoccoli dei cavalli e dalle ruote dei carri e trasportata dal vento. Molti non avevano neppure una meta, sapevano solo che il mondo era in subbuglio, l’ordine stava scomparendo dappertutto, e in certi luoghi già non esisteva più. Alcuni erano spinti dalla paura, altri da qualcosa che non potevano vedere o capire bene, e anche tra questi i più erano spaventati.
Il vento proseguiva il suo viaggio, soffiava sopra l’Erinin grigio e verde, inclinando su un fianco le imbarcazioni che ancora facevano rotta fra nord e sud, poiché il commercio doveva continuare anche in quei giorni difficili, sebbene nessuno sapesse con certezza se era sicuro. A est del fiume, la foresta incominciava a diradarsi, lasciava spazio alle colline coperte di erba secca ormai marrone e punteggiate da rade macchie d’alberi. In cima a una di queste alture vi erano dei carri disposti in circolo, molti dei quali avevano i teloni bruciati e altri ne erano del tutto privi, restavano solo le intelaiature di ferro. Su un’asta di fortuna, ricavata da un giovane albero ucciso dalla siccità e legata a un sostegno dei teloni di un carro per conferire maggiore altezza, sventolava una bandiera cremisi con un disco nero e bianco al centro. Alcuni la chiamavano la Bandiera della Luce, o la Bandiera di al’Thor. Altri usavano nomi più oscuri e rabbrividivano nel sussurrarli. Il vento fece garrire la bandiera, ma passò subito oltre, quasi fosse contento di allontanarsi.
Perrin Aybara era seduto a terra, con l’ampia schiena appoggiata alla ruota di un carro, e malediceva il vento che era andato via. Per un momento era stato più fresco, e il vento da sud aveva spazzato via l’odore di morte dalle sue narici, un odore che gli rammentava il posto dove avrebbe dovuto trovarsi, l’ultimo posto dove voleva essere. Stava molto meglio lì, all’interno della cerchia di carri e con la schiena rivolta a nord, perché lì almeno poteva provare a dimenticare. I carri superstiti erano stati portati in cima alla collina il giorno precedente, nel pomeriggio, quando avevano ripreso le forze gli uomini che prima riuscivano appena a ringraziare la Luce perché ancora respiravano. Adesso il sole stava sorgendo di nuovo e con esso arrivava il calore.
Perrin si grattò la corta barba riccia, irritato; più sudava, più gli prudeva. Il sudore imperlava i volti di tutti gli uomini tranne gli Aiel, e l’acqua si trovava a circa un miglio a nord. Ma laggiù c’erano anche gli orrori, e la fonte dell’odore di morte. E la decisione di allontanarsene era condivisa quasi da tutti. Perrin sapeva di avere dei compiti da svolgere, ma il senso di colpa non lo smuoveva. Oggi era Chasaline Alta e a casa, nei Fiumi Gemelli, avrebbero festeggiato tutto il giorno e danzato tutta la notte. Il Giorno della Riflessione, quando in teoria bisognava ricordare tutte le cose buone della propria vita, e chiunque desse voce a una lamentela si ritrovava con una secchiata d’acqua sulla testa per lavare via la malasorte. Non molto gradevole se faceva freddo come avrebbe dovuto in quella stagione; ma adesso una secchiata d’acqua sarebbe stata piacevole. Pur avendo la fortuna di essere ancora vivo, Perrin trovava assai difficile fare pensieri positivi. Nel giorno appena passato aveva imparato molte cose su sé stesso. O forse era successo quella mattina, quando tutto era finito.
Poteva ancora percepire una manciata di lupi, quelli che erano sopravvissuti e che non erano in cammino per altre destinazioni, lontano da lì, lontano dagli uomini. I lupi erano ancora argomento di conversazione nell’accampamento, si facevano congetture sgradevoli per capire da dove fossero apparsi e perché. Alcuni credevano che li avesse chiamati Rand. Molti pensavano che fossero state le Aes Sedai, che però non manifestavano i propri pensieri. I lupi non lo accusavano di nulla – ciò che era accaduto era accaduto – ma lui non riusciva a essere così fatalista. Erano venuti perché li aveva chiamati lui. Le spalle di Perrin, talmente ampie da farlo sembrare più basso di quanto non fosse, erano incurvate sotto il peso delle responsabilità. Di tanto in tanto sentiva altri lupi che non erano venuti, e questi parlavano sprezzanti con quelli che lo avevano fatto: ecco cosa succede a invischiarsi con i due-gambe, non c’è da aspettarsi nulla di diverso.
Era difficile tenere i propri pensieri per sé. Perrin voleva tornarsene a casa, nei Fiumi Gemelli. Non aveva grandi possibilità di farlo, forse non ci sarebbe tornato mai più. Voleva ululare che i lupi sprezzanti avevano ragione. Voleva stare con sua moglie, in qualsiasi luogo, e voleva che tutto fosse come prima. In questo caso le possibilità erano persino minori, se non nulle. Ancor più che la nostalgia di casa, più del pensiero dei lupi, la preoccupazione per Faile lo dilaniava da dentro, come un furetto che cercasse di uscirgli dallo stomaco. Faile gli era sembrata addirittura contenta di vederlo andar via da Cairhien. Cosa doveva fare con lei? Non era capace di trovare le parole per descrivere quanto amasse sua moglie e quanto avesse bisogno di lei, ma Faile era gelosa quando non ne aveva motivo, si mostrava ferita quando lui non aveva fatto nulla e si arrabbiava per motivi che lui non comprendeva. Doveva fare qualcosa, ma cosa? La risposta gli sfuggiva. Perrin era capace solo di ragionare con accortezza, mentre Faile era guizzante come argento vivo.
«Gli Aiel dovrebbero far coprire i loro prigionieri» mormorò Aram con freddezza, fissando sul terreno il suo sguardo torvo. Tenendo in mano le redini di un castrone grigio, si accovacciò accanto a Perrin, dal quale si allontanava di rado. La spada che portava legata dietro la schiena strideva con la giubba a righe verdi da Calderaio, sbottonata per il caldo. Un fazzoletto arrotolato e legato attorno alla testa evitava che il sudore gli colasse negli occhi. Una volta Perrin credeva che fosse troppo bello per essere un uomo. Adesso, però, su Aram era calata un’ombra buia, e il giovane era quasi sempre corrucciato. «È indecente, Lord Perrin.»
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