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La Lama delle Lacrime – Libro II Sogni Oscuri: Saga Completa (La Saga della Lama delle Lacrime Vol. 2)

2,99

Tutto sembra perduto. Tutto cancellato dal fuoco ed ingoiato dalla roccia. Redoran non si dà pace per questo. Era la sua missione. Era il suo dovere. Lei era la sua compagna. Ma nel buio del tormento nasce una luce. E’ una luce che reca un messaggio. E quel messaggio è inviato da Hylenij


Luca Martina (Autore)
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Informazioni aggiuntive

Autore

Editore

Data di pubblicazione

13 marzo 2016

Lingua

Formato

Kindle

Kindle
COD: 8753 Categoria: Tag: Product ID: 20644

Descrizione

Capitolo 1

Messaggio di luce

Redoran rimaneva assorto nell’ascoltare il respiro del mare.

Il lento, calmo, ritmico sciabordio dei flutti: la melodiosa carezza perpetua che l’acqua donava all’arena bruna, piacevole e delicata al pari di quella che il vento leggero e profumato donava al viso.

L’eco lontana di un solitario uccello di mare in lontananza. Il sussurro della brezza leggera fra i capelli e nelle orecchie.

Redoran avvertiva il bisogno di quelle sensazioni. Più di ogni altra volta.

Tutto aveva l’effetto di una singolare sinfonia generata dalla natura, che concedeva tregua al giovane agente di Kolren, lo avvolgeva in un’aura di serenità, lo metteva in comunione con il suo animo e con la vita che lo circondava.

Redoran socchiuse gli occhi, respirò a fondo il profumo della salsedine e dell’aria foriera di futura pioggia, e cercò di assorbire la dolce canzone delle onde. Provò a trarne quel balsamo per lo spirito che tante volte gli era servito, che spesso lo aveva guarito.

Ma quella volta non fu come sempre. Non poteva essere come le altre volte. La mente dell’emissario di Kolren era sconvolta da una tempesta il cui rombo copriva e sostituiva qualsiasi suono di pace.

La sua coscienza era attraversata da lampi di ricordi dolorosi, di rimorsi, di sensi di colpa.

Redoran strinse le palpebre; ma le immagini erano lì di fronte a lui, troppo nitide; si stagliavano vivide e prepotenti. Rivide il fuoco delle fabbriche sotterranee degli Ikminn divampare in ogni dove, rincorrerlo nella sua fuga; e con esso sentì il bruciore del fallimento.

Rivide la roccia crollare su se stessa, seppellire tutto senza lasciare via di scampo; e capì che anche una parte di lui era rimasta sepolta in quel luogo maledetto.

Rivide Hylenij intrappolata tra le fiamme e le pietre; nel volto della donna l’amarezza dell’assurda sconfitta, nel suo cuore l’infrangersi di ogni speranza.

Dopo ostacoli e lotte interminabili, aveva finalmente ottenuto il mezzo per salvare suo figlio. Era riuscita in ciò che pareva impossibile: recuperare quello che forse era l’unico Cuneo per i Cancelli di Ragmha, per il regno della stregoneria, per la terra della malvagia sapienza che le aveva sottratto l’amore più prezioso della sua vita.

Eppure il destino aveva voluto avvolgerla tra le sue spire più crudeli. Ancora una volta. Una trappola inventata dagli Ikminn, dal loro ingegno straordinario – mutato in rancore per combattere anch’esso contro la malvagità di Ragmha – si era ritorta proprio contro di lei.

E l’aveva divorata senza alcuna pietà, senza fare alcuna distinzione.

Ma era stato davvero il destino?

Davvero la sorte era l’unica da incolpare?

Con un movimento fulmineo Redoran spronò il destriero nero, che si lanciò in un’impetuosa corsa lungo la spiaggia.

Dovevo starle vicino!

Si convinse maggiormente che sarebbe dovuto rimanere più attento, più vigile, più lucido. Non avrebbe dovuto lasciarsi distrarre dal rumore causato da quel dannato Arrushin. Se solo fosse stato con lei nella sala in cui era stato ritrovato il Cuneo… se l’avesse aiutata a combattere… se l’avesse aiutata a fermare Ebleyn dal suo delirio distruttivo…

Se solo il tempo potesse tornare indietro…

Il vento pareva sferzargli adesso le guance, schiaffeggiarlo per ogni errore commesso.

Le gocce di acqua calpestata dagli zoccoli nel violento galoppo schizzavano sul viso, e lo segnavano al pari di lacrime di rabbia.

E poi ancora quel ricordo che insisteva a violentare la mente…

Redoran e Mohal saltano fuori appena in tempo.

La bocca enorme che costituisce l’entrata alle fabbriche sotterranee viene squassata prima dal boato, e poi rigurgita fiamme che salgono e si agitano come nascenti dagli inferi.

I due devono gettarsi a terra, per evitare la miriade di pietre e spuntoni di legno che saettano fischiando a un soffio dalle loro teste riparate spasmodicamente dalle mani.

Quando il disastro cessa, entrambi hanno finalmente il coraggio e la forza di respirare.

Si voltano contemplando lo sfacelo alle loro spalle.

Gli occhi si riabituano immediatamente all’esterno.

È difatti notte, e la luna pallida illumina fiocamente.

Gli occhi di Redoran ne carpiscono comunque poca di luce.

Rimangono chiusi per molto tempo, mentre tiene la testa fra le mani, china sulle ginocchia.

Rimangono chiusi , anche quando Mohal gli pone la mano sul braccio cercando di rincuorarlo.

Sente un peso sfiancante sulle spalle e un insopportabile bruciore nel petto.

Redoran si vergogna della luce lunare, se ne vorrebbe nascondere…

Sente di non meritarla…

Non meritavo di salvarmi… non lo meritavo!

Il destriero s’impennò con un nitrito riottoso.

Redoran aveva tirato le redini d’istinto, con troppo vigore, come tante volte gli era capitato durante quelle ultime giornate in cui terminava la sua abituale cavalcata lungo la costa di Onérven, in groppa al destriero di Hylenij, rimasto ora senza padrona.

L’agente ne accarezzò la criniera nera come la notte per calmarlo. E per scusarsi; anche con lui.

Era arrivato alla capanna in cui aveva trovato alloggio nelle due ultime settimane: una vecchia capanna di pescatori, a giudicare dalle reti stanche e flosce lasciate a sventolare nel vento da arronzati appigli sul tetto, e specialmente dalla coppia di barche consunte e scheggiate dall’usura e dalla pioggia, che sostavano abbandonate presso il fianco della costruzione.

A causa del desueto utilizzo, la porta era semplicemente socchiusa quando Redoran e Mohal vi avevano bussato.

E quella umile abitazione parve volerlo ospitare, confortarlo anche con la modestia del suo arredo essenziale, che gli comunicava il rituale di una vita fatta di semplicità e di azioni in armonia con il corso naturale dell’esistenza.

Redoran ne percepiva i benefici. Avvertiva la necessità di pace e di calma per pensare, per ritrovare la propria dimensione interiore, per confrontarsi con sé stesso dopo quello che aveva dovuto sopportare.

E necessitava di riposo prima di rimettersi in cammino.

Perché doveva tornare a Kolren.

Dopo aver fallito nella missione riguardante Hylenij, sentiva sempre più pungente il senso del dovere: aveva adesso il compito di ricondurre Mohal – il valente Minotauro armaiolo dei colli di Kyla – al cospetto del Collegio dei cinque Maghi Superiori.

Redoran alzò lo sguardo, e, come evocato da quella stessa riflessione, Mohal comparve improvvisamente dinanzi ai suoi occhi.

Profondamente immerso nei suoi pensieri, Redoran non l’aveva neppure sentito arrivare. Mohal – che più propriamente si poteva definire un Onìgir, una sorta di Minotauro più antropomorfizzato – avanzava con passi pesanti che affondavano nella sabbia attutendo il tonfo che usualmente li accompagnava.

Le grosse e muscolose braccia reggevano l’una dei pesci, l’altra un massiccio ceppo di legno adagiato da tempo sull’arena dalla generosità delle onde.

Gli occhi scuri scintillavano sul pelame grigio-chiaro dell’imponente capo taurino.

«  Ci hai messo più tempo oggi…  », esordì Mohal, alludendo alla cavalcata cui il compagno era abituato.

«  Ne avevo bisogno più degli altri giorni  », ribatté  Redoran, abbozzando un sorriso amaro.

«  Sono riuscito a prenderne due belli grossi  », disse l’Onìgir sollevando una coppia di cefali adulti e ben nutriti appena tirati fuori dall’acqua. «  Le canne di quei tizi sono ancora in ottimo stato. Hanno fatto il proprio dovere. Non saranno male arrosto. Questa sera ceneremo bene  ».

«  Ne sono convinto  », concluse il giovane di Kolren, mentre distoglieva lo sguardo per rivolgerlo all’orizzonte; li avrebbe si e no assaggiati.

Seguì un silenzio imbarazzante.

«È inutile, e lo sai…», lo rimproverò d’un tratto Mohal, indovinando i pensieri dell’amico. «  Non c’era più nulla che io e te potessimo fare…  ».

Redoran permase in quel silenzio. «  Preferivi forse rimanere lì, a morire assieme a lei?  », continuò Mohal, forse troppo schiettamente. «  A cosa sarebbe servito? Cosa avrebbe comportato, a parte sacrificare inutilmente anche le nostre vite? Non siamo scappati come vigliacchi. Non avevamo alcuna alternativa. E non abbiamo nessuna colpa  ».

Mohal seguitò a guardare il compagno che però non accennava a dargli retta. L’armaiolo sospirò. «  Un eroe che fa lo stupido è piuttosto uno stupido che si atteggia a fare l’eroe  », sentenziò infine l’Onìgir, guadagnando finalmente l’attenzione di Redoran.

«  Me lo ha insegnato mio nonno, uno tra i pochissimi umani – assieme a mia madre – che ho sinceramente rispettato ed ammirato  », continuò Mohal; era lui adesso a fissare le onde, trasportato dal moto dei ricordi.

«  Mi diceva che gli uomini forgiano le armi per combattere non solo altri uomini, ma anche le proprie paure. Perché gli uomini hanno dei limiti; tutte le creature ne hanno. E uno di questi limiti è la paura. Ma riconoscere i propri limiti significa commisurarsi con tutto ciò che ci sta intorno, significa decifrare meglio quelle che sono le nostre capacità. E quindi riconoscere la paura, rispettarla, usarla perfino, può migliorarci, aiutarci. Può salvarci la vita…  ».

Mohal tornò a guardare il compagno.

«  E il coraggio, d’altra parte, può essere resistenza alla paura, può essere dominio della paura… ma non consiste nell’assenza di paura. In effetti, il coraggio e la paura coesistono come luce ed ombra, come forze che si bilanciano e si completano. Per tale ragione le paure possono addirittura rivelarsi amiche sincere, che ci fanno capire da quale porta il coraggio potrà entrare ». Mohal avanzò sin quasi a trovarsi faccia a faccia col compagno.

«  In virtù di ciò, il valore è figlio della prudenza, non della temerarietà, Redoran. Ecco… il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, ma incoscienza », insisté. «  Era inutile varcare un limite che ti avrebbe condannato a morte, ragazzo. Sarebbe stato inutile… e stupido…  ». I due rimasero quindi  in un confronto silente per qualche attimo.

«  Vado ad accendere il fuoco  », concluse infine Mohal con calma, e si avviò verso la capanna con il suo carico. Redoran fissò brevemente le sue possenti spalle che si allontanavano. Poi sospirò. Sapeva che Mohal aveva perfettamente ragione. Sapeva che non c’era nulla di cui rimproverarsi, che la sua reazione era effettivamente eccessiva. «  Gli agenti di Kolren non sono infallibili… Kolren stessa non lo è…  », bisbigliò tra se e se. Eppure…

La prima stella della sera attirò l’attenzione del giovane. Luccicava, come un diamante infisso in una coltre serica sfumata tra la porpora del crepuscolo e il blu della notte nascente.

E il vento che muoveva le onde pareva muovere anch’essa nel cielo, facendo rigirare di continuo quella gemma siderale in modo che mostrasse ciascuna delle sue infinite sfaccettature.

Redoran, osservando l’astro, ripensò alle leggende secondo cui le stelle consisterebbero nelle anime di spiriti eletti, o che addirittura rappresentassero il simulacro onnipresente di talune divinità che talvolta ammoniscono dall’alto, altre volte mostrano pietà ai mortali, inviando loro messaggi che specifici sacerdoti si sforzano di decifrare, interpretando la conformazione ed il mutare della volta celeste. Il giovane sorrise di quelle credenze.

Poi, però, abbassando il capo, valutò di doversi ricredere.

La coda dell’occhio era stata attratta dalla chiusura della tracolla poggiata sul fianco; da essa filtrava una luce che pareva mutuata dalla stessa brillantezza della stella che stava fissando poc’anzi; e similmente alla luce stellare, il bagliore che proveniva dalla sacca era emesso tramite una singolare intermittenza.

Era, quello, un messaggio della stella? Un dono concesso dal dio o dallo spirito in essa residente che aveva avuto pietà del suo tormento? L’agente di Kolren si affrettò a portare la borsa di fronte a sé, e a frugare nel suo interno.

Di colpo dubitò di ciò che i suoi occhi gli mostravano. Mohal aveva da poco finito di spaccare il grosso ceppo di quercia con la sua portentosa alabarda, e ora ne stava accuratamente adagiando i frammenti sul letto di sterpaglie che avrebbe dato vita al fuoco per la cena.

D’improvviso la porta della capanna si spalancò completamente. L’arrivo a dir poco tempestoso del compagno fece sobbalzare l’Onìgir, che con un gesto incontrollato della mano causò il crollo dell’ordinata disposizione dei legni nel camino.

«  Preparati! Dobbiamo partire subito!  », gli comandò Redoran quasi urlando.

Mohal si voltò di scatto, il volto severo: «  Diamine! Kolren ha così tanta fretta di vedermi e di impormi altri ordini?!  », ribatté stizzito. Redoran scosse il capo mentre cercava di riprendere fiato dalla breve ma concitata corsa: «  Non siamo diretti a Kolren…  ».

Il volto e la voce erano vibrati da un indecifrabile turbinio di emozioni.

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