Descrizione
Il filo della verità
Giovanna d’Arco a Palazzo Chigi
Primo appuntamento, è una domenica pomeriggio, servito un caffè si stabiliscono le regole di ingaggio. Prima di tutto di forma. «Senta, presidente…» «Alessandro, ma che mi dai del lei?» Le dico che mi sembra corretto usare quella formula in un libro intervista, per rispetto all’istituzione che rappresenta, ma non è d’accordo. «Non mi piacciono le finzioni. Ci diamo del tu nella vita, ci daremo del tu nel libro.» Sarà un lavoro faticoso, penso. E infatti continua: «Tu fai il giornalista, per tua natura sei portato a cercare ed enfatizzare quello che può accendere risse politiche e mediatiche. Ma questo non è il mio scopo. Non cerco lo scoop di un giornale, ma un libro a cui affidare i miei pensieri, per raccontare il mio punto di vista, la ragione delle scelte che ho fatto e che intendo fare, la visione che è alla base di quelle scelte. Voglio raccontare la mia verità e provare a far riflettere. So cosa stai pensando, che rischia di essere noiosissimo, ma ti stupirò. In ogni caso è questo che a me interessa. Siamo d’accordo?». Siamo d’accordo, rispondo io. «Bene, mi fido. Cominciamo» dice lei.
Permettimi di iniziare da quella che dovrebbe essere la domanda finale di questa lunga chiacchierata. Qual è il tuo obiettivo?
Il più grande, o meglio quello dal quale dipendono tutti gli altri, è restituire agli italiani l’orgoglio di essere tali. Dare loro uno Stato degno del suo grande popolo, nel quale identificarsi. Un’impresa che oggi sembra impossibile.
In che senso è l’obiettivo dal quale dipendono tutti gli altri?
Nel senso che questa nazione nessuno può salvarla da solo, si può salvare solamente se ci crediamo tutti insieme. Se ognuno di noi, in qualsiasi ambito operi, a un certo punto decide che vale la pena di fare quello che fa con un occhio a cosa sia meglio non solo per se stesso e per le persone che ama, ma per la nazione nel suo complesso. Recuperare quel senso di comunità senza il quale sarà impossibile esprimere al meglio le nostre potenzialità. E per fare questo è necessario in primo luogo restituire credibilità alle istituzioni. La gente deve potersi fidare, perché se non ti fidi di chi deve rappresentarti, finisci per non rispettare neanche i suoi simboli e, alla fine, per non rispettare la tua appartenenza, cioè te stesso. Semplificando: puoi fare leggi ottime, ma se lo Stato viene percepito come un nemico ci sarà sempre qualcuno che le aggirerà. Puoi crescere persone capaci, ma se lo Stato non valorizza quelle capacità, scapperanno all’estero, o finiranno per credere che la strada più efficace non sia il sacrificio dello studio, della competenza, del valore, ma la scorciatoia delle amicizie giuste, o dei modelli vacui, quelli da «minimo sforzo massimo risultato». Per come la vedo io, non esistono massimi risultati senza massimi sforzi, per aspera ad astra dicevano i latini, ma in Italia non possiamo nasconderci che non è così. Sogno un’Italia nella quale i profili social con maggiori like non siano quelli degli influencer che mettono in piazza la loro vita patinata fatta di barche e abiti lussuosi, comprati con i soldi fatti mostrando altre barche e altri abiti, ma quelli dei ricercatori che fanno svoltare l’umanità, dei soldati che rischiano la vita per costruire la pace, dei medici che compiono veri e propri miracoli, di chi venendo dal niente ha fatto la storia con passione e sacrificio. E sogno che domani quando si domanderà a un giovane cosa voglia fare da grande, lui risponda: «Non mi do limiti, ma in ogni caso voglio fare qualcosa che sia utile anche per la mia nazione».
Illusa, sognatrice…
Illusa lo vedremo, sognatrice certamente. Del resto io sono la prova vivente che la volontà può portarti a fare cose che non avevi previsto. Tu avresti scommesso che un giorno saresti venuto a parlare con me, una quarantaseienne donna di destra venuta da un quartiere popolare, osteggiata con ogni mezzo dal sistema costituito, in questo ufficio al primo piano di Palazzo Chigi? Guardati intorno. Dal 1961 questa è la sede del governo italiano e qui hanno lavorato persone come Aldo Moro, Giulio Andreotti, Francesco Cossiga, Giovanni Spadolini, Bettino Craxi, Carlo Azeglio Ciampi, Romano Prodi, Silvio Berlusconi, Mario Monti e Mario Draghi, tanto per citare alcuni nomi che – nel bene e nel male – hanno fatto la storia dell’Italia. Insomma qualcuno ha mai seriamente preso in considerazione che potesse accadere quello che poi è accaduto? E che potessi sedere io alla scrivania di quest’ufficio?
Onestamente no. C’è chi ti ha paragonata a Cenerentola.
Le fiabe non sono la vita reale. Non ci sono le fate che ti fanno diventare bella con la bacchetta magica né i principi che ti svegliano dal sonno con un bacio. Nella vita reale sei tu che devi tirarti fuori dalla condizione nella quale ti trovi. Ed è quello che io ho sempre creduto di dover fare. Con la stessa determinazione con la quale oggi intendo fare quello che ho promesso agli italiani. E lo devo loro, perché sono loro che lo hanno fatto accadere, non io. Vedi, quando sono diventata presidente del Consiglio mi ha colpito non che in molti fossero contenti, ma che in troppi si commuovessero. «Ma perché piangete tutti?» mi è capitato di dire, con un misto di sorpresa e di imbarazzo. Ci ho anche scherzato: «Oh, neanche ho cominciato e già iniziate a piangere?». Ma poi ho capito. Perché la mia è una storia che rompe i tabù della nazione bloccata, della vita delle persone decisa a tavolino, dei troppi traguardi che pensiamo ci siano preclusi, delle occasioni che siamo certi non avremo mai. Non è stato solo il fatto politico del ritorno del centrodestra al governo, e di un governo espressione diretta del voto popolare dopo un decennio di giochi di potere e governi decisi nel palazzo. C’era altro, in quella commozione. L’ho capito quando una persona molto autorevole, seduta proprio qui nelle prime ore del mio mandato, ha motivato i suoi occhi lucidi dicendo: «Giorgia, questa cosa non poteva succedere». È vero, può sembrare una favola, ma non lo è. È determinazione e sacrificio. Studio, disciplina, e ovviamente un pizzico di fortuna, ammesso che si possa dire fortunato qualcuno che si ritrova a governare l’Italia in questa congiuntura. Ma sapere che quella che ci sembra una favola, o una cosa impossibile, è in realtà alla nostra portata può cambiare completamente la mentalità della gente. Troppe volte ho sentito dire da chi non aveva quello che avrebbe voluto che era «colpa dello Stato, colpa della politica, colpa delle condizioni di partenza». Certo che anche questo influisce, ed è quello di cui ora devo occuparmi io, ma siamo sicuri che sia solo questo? Voglio dire, sicuri di aver fatto tutto quello che era possibile per raggiungere gli obiettivi che vi eravate dati? Per come la vedo io, e per la mia esperienza personale, io sono certa che il nostro destino dipenda soprattutto da quello che noi siamo disposti a fare, da quanto siamo disposti a lavorare, da quanto siamo disposti a sacrificare. Il destino siamo soprattutto noi. E se riesco a far passare questo messaggio, e nello stesso tempo a garantire le condizioni necessarie perché ognuno abbia in partenza le stesse condizioni per giocarsela, noi possiamo cambiare tutto.
Già, il merito. È stata la prima polemica che ha coinvolto il tuo governo.
Non a caso, come ha sentito questa parola la sinistra è andata su tutte le furie. E sai perché? Perché il merito è ciò che scardina il concetto di Stato padrone, è ciò che rende liberi, non lo controlli né lo puoi incanalare. Non ha bisogno di tessere di partito, di circuiti che ti mandano avanti in base alle idee politiche che professi – o per convenienza dici di professare –, se ne frega dei padrini. Il merito è l’opposto sia del socialismo reale che del principio grillino dell’uno vale uno. Perché questa è una stupidaggine senza se e senza ma, che ci ha devastato dal 1968 in poi, dicendo in sostanza che non serviva che ci mettessi del tuo perché avresti avuto lo stesso identico risultato di chiunque altro, anche di chi decide di non fare nulla. Un modo scaltro per far passare avanti gli amici. Uno non vale uno. Uno deve valere uno nelle opportunità, non nei risultati, che invece dipendono dalla soggettività di quell’uno.
Uno dei tuoi motti è stato: «Il declino non è un destino, è una scelta».
È lo stesso principio che ho tentato di spiegare fin qui, applicato alla nazione. Se una persona che veniva dal niente può arrivare a governare l’Italia, allora forse tutti possiamo fare cose impensabili. E se lo possiamo fare noi, e noi siamo l’Italia, allora anche la nazione può arrivare dove pensavamo non fosse possibile. Ora però io non voglio insegnare niente a nessuno. Voglio solo esortare a crederci, perché so che i carburanti più efficaci dei quali disponiamo sono la volontà e l’ottimismo. E l’Italia ne ha un disperato bisogno, perché è soprattutto questo che ci manca. Non le capacità dei singoli, che sono spesso immense, non la creatività, non il genio, che sono unici al mondo e tutti ci riconoscono. Non la determinazione, che oggi rivolgiamo però più spesso alla nostra sfera privata che a quella pubblica. Agli italiani, di base, non manca nulla.
Qualche tuo estimatore ha parlato di un effetto Giovanna d’Arco, quella ragazzina ritenuta inadeguata allo scontro, a guidare le truppe, che però credendoci più degli altri alla fine trascina tutti.
Lo dicono perché alcuni sostengono la tesi che Giovanna d’Arco sia nata il 15 gennaio, come me, ma non facciamo paragoni boriosi. Piuttosto mi ha divertito un libro di oroscopi, che tratteggiava il carattere delle persone in base alla loro data di nascita. Al 15 gennaio c’è scritto: «Il giorno dell’eroismo inevitabile». Mi ci ritrovo, non nell’eroismo ma nell’inevitabile. In fondo io non mi sono mai data un obiettivo personale da raggiungere, come invece, e giustamente, fanno molti altri. Mi sono sempre data soprattutto l’obiettivo di non restare a guardare, di agire, di pretendere da me stessa sempre qualcosa di più. E forse alla fine è questo che ha fatto la differenza, perché, come dice san Giovanni Crisostomo, «i re magi non si sono messi in cammino perché hanno visto la stella cometa, ma hanno visto la stella cometa perché si erano messi in cammino». Ecco, io sono sempre stata in cammino, e questa specie di moto perpetuo ha reso le occasioni inevitabili. Diciamo che mediamente ti sono venute bene, a scanso di equivoci non è adulazione ma pura cronaca. Per come la vedo io le cose o si fanno bene o non si fanno per niente. Principio che nel mio caso si applica con una punta di ossessività. Io neanche se mi metto a fare un disegno con mia figlia riesco ad alzarmi se prima non l’ho finito, con tanto di brillantini e cornicetta. Questo approccio a tratti maniacale mi ha fatto spesso canzonare, a volte forse anche detestare, dai malcapitati con i quali lavoro. Capita che qualcuno dica: «Giorgia, non ti stiamo dietro», ma nella maggioranza dei casi sono loro che finiscono per accelerare, non io per rallentare. Il lavoro, la dedizione, la responsabilità possono essere contagiosi, ma la rivoluzione non la fai se contagi lo staff. La fai se riesci a contagiare la nazione. Questa sì che sarebbe una grande soddisfazione.
D’accordo, ma se uno si guarda attorno…
Se uno si guarda attorno l’Italia è invidiata, amata, tenuta in altissima considerazione ovunque, fuorché qui, dove l’influencer che va per la maggiore è da sempre Tafazzi, il mitico personaggio di Aldo, Giovanni e Giacomo che si dava continuamente le mazzate sugli attributi. Bisogna smetterla con il racconto che va tutto male, banalmente perché non è vero. Primo perché i principali indicatori economici e sociali dicono il contrario, secondo perché abbiamo ancora moltissime potenzialità inespresse da utilizzare. Poi so bene che alla sinistra ora all’opposizione conviene dirlo, è normale, ma non è la realtà dei fatti.
Legittimo che la sinistra non sia felice di vederti qui.
Ovvio, e infatti considero normale quello che fanno. Anche se loro, come sempre, non hanno il senso della misura. E guarda, non mi riferisco a quello che dicono di me, mi riferisco a quello che dicono dell’Italia, soprattutto all’estero. Noi siamo stati tanti anni all’opposizione, e certamente non le abbiamo mandate a dire, come è giusto che sia. Ma ci siamo anche dati delle regole, la prima delle quali era condurre un’opposizione patriottica e di non parlare male dell’Italia all’estero. Già due anni prima di diventare presidente del Consiglio, ero a capo dei Conservatori europei. Non ho mai rilasciato un’intervista a un giornale straniero per attaccare il governo italiano in carica, perché da quel pulpito sarebbe diventato un attacco all’Italia. La sinistra questi problemi non se li è mai fatti, anzi loro hanno sempre amato usare i loro amici stranieri per attaccare gli avversari italiani. Ma purtroppo questi atteggiamenti rischiano di diventare contagiosi, e lo vediamo: qui da noi non va mai bene niente, tutto quello che fanno fuori dai confini nazionali è meglio di quello che facciamo noi, ci consideriamo sempre il fanalino di coda in tutto. E questo pessimismo ci logora. Fossimo un minimo più consapevoli della nostra grandezza, di come ci vedono gli altri, cambierebbe tutto. Un po’ di sano ottimismo farebbe sicuramente la differenza. Per questo denuncio da anni l’irresponsabilità di chi usa l’estero per attaccare avversari italiani. E per questo ho cercato di spronare le sinistre a giocare la partita senza appoggio esterno, per rispetto agli italiani che rappresentano. E non è stato un lavoro inutile. Nelle dichiarazioni programmatiche programmatiche di insediamento, rispondendo a quanti fuori dai confini italiani dicevano di essere «pronti a vigilare sullo Stato di diritto in Italia» dopo la mia elezione, dissi: «Direi che possono spendere meglio il loro tempo. Nel nostro Parlamento ci sono valide e battagliere forze di opposizione, più che capaci di far sentire la propria voce senza, mi auguro, alcun soccorso esterno». Deve aver funzionato, perché quando mesi dopo un ministro francese ha frontalmente e freddamente attaccato me e il governo, sia il PD che il M5S hanno risposto stizziti: «L’opposizione al governo Meloni la fa l’opposizione italiana», «spetta solo a noi italiani riconoscere che questo governo è incapace». Una piccola, ma grandissima vittoria.
Sir Winston Churchill, grande conservatore, diceva: «L’ottimista vede opportunità in ogni pericolo, il pessimista vede pericolo in ogni opportunità».
Condivido. Purtroppo c’è da dire che da noi il pessimismo è generato soprattutto dalle istituzioni. Sia per quello che dicevo prima, sia perché le scelte della politica sono spesso – e giustamente – considerate ingiuste dai cittadini. Per questo ritengo che siamo noi a dover per primi dare il buon esempio, e poi aspettarci dagli italiani atteggiamenti conseguenti. È giusto che i cittadini non ci facciano sconti, che pretendano il meglio, ed è giusto che se dimostriamo di aver fatto tutto ciò che era umanamente possibile, chiediamo loro di fare del proprio meglio per aiutarci.
In che senso?
Mi ha sempre fatto riflettere molto il fatto che l’Italia sia l’unica nazione nella quale sia così ben conosciuto il proverbio latino «Fatta la legge, trovato l’inganno». Per carità, le leggi sono spesso incomprensibili, astruse, perfino ingiuste, ma alla fine questo approccio rischia di valere per tutto. È come se da noi fosse socialmente accettato fregare lo Stato, ed è un atteggiamento stupido perché lo Stato, alla fine, siamo noi. Mi ha colpito molto quando Giuseppe Conte per difendersi dalla contestazione di chi gli rimproverava che il suo superbonus «tutto gratis» era costato alle casse dello Stato decine di miliardi di euro rispose: «Ho detto che il superbonus centodieci per cento potevano farlo gratis le famiglie. Non ho detto che per lo Stato era gratis». Come se lo Stato non fosse dei cittadini. Invece è fatto di italiani, mantenuto con i soldi degli italiani, appartiene agli italiani. E se lo Stato fa cose giuste, è legittimo aspettarsi che non vengano vanificate. Faccio un esempio: se, come ho fatto, ho abbassato l’IVA al cinque per cento sui prodotti per la prima infanzia per venire incontro alle famiglie, be’ poi mi aspetto, anzi pretendo, che nei negozi il prezzo dei pannolini o del latte in polvere diminuisca di conseguenza. Perché se ciò non avvenisse vorrebbe dire che lungo quella filiera qualcuno sta ingannando il governo e i consumatori. E la conseguenza sarebbe che io ho fatto una cosa giusta, per farla ho usato risorse degli italiani, ma i risultati agli italiani non sono arrivati perché alcuni hanno voluto approfittarne. In Italia c’è una grande evasione fiscale, vero. Noi pensiamo che il modo migliore per combatterla sia abbassare le tasse e innalzare il livello dei servizi, perché vengano percepite come una giusta contribuzione al funzionamento della società e non come una depredazione. Partiamo dal presupposto che se le tasse sono più giuste molta più gente deciderà di pagarle. Ma se non fosse così, allora come la metteremmo?
Già, come la metteremmo, lo chiedo a te.
Che allora si dovrebbe prendere atto del fatto che nulla cambierà mai davvero. Ma io sono certa che non andrà così. Sono sempre stata convinta di potermi fidare degli italiani, e quasi mai questa mia convinzione è stata smentita. Sono certa che ogni volta che faremo cose giuste, gli italiani ci aiuteranno a farle funzionare al meglio.
È così che combatti lo scoglio di chi dice: «Lo Stato non è roba mia».
Esatto, con l’esempio. È difficile percepire lo Stato come roba tua se fa cose che contrastano con il buon senso, ma se lo Stato fa quello che avresti fatto tu, allora puoi tornare a sentirlo parte di te, e a sentirti parte di lui. È fondamentale che gli italiani vedano un governo che, per carità, ha i suoi limiti e difficoltà, magari fa perfino degli errori. Ma ce la mette tutta, in buona fede, con umiltà e amore. Un governo che non ha amici da piazzare, lobby da compiacere, potenti da ripagare. Che non guarda in faccia a nessuno, che non intende imbrogliarti, che ha il coraggio di dirti anche quello che non si può fare in un dato momento o contesto. Insomma magari è possibile che tra Stato e cittadini nasca un nuovo rapporto, basato sulla fiducia reciproca. La base di ogni cambiamento.
Ricucire un rapporto con chi ha tradito la fiducia è possibile, ma c’è chi sostiene che è come mettere una pezza su un abito rotto, il segno rimane.
Vedremo, cominciamo a rammendare usando, per esempio, il filo della verità. Governare dicendo sempre la verità è fondamentale, chi non lo ha fatto, e sono stati tanti, alla fine ha sempre pagato un conto salato. Mentire, o tacere, è un’opzione furba nel breve termine e stupida nel medio periodo. In primo luogo perché comunque vada non risolve i problemi, in secondo luogo perché la verità viene sempre a galla, e allora la gente capisce che la volevi imbrogliare. Tanto vale dire le cose come stanno e prendersi le critiche di chi strumentalizza, di chi non capisce e di chi finge di non capire. Quante volte in famiglia capita che i genitori si ritrovino a fare scelte che i figli non capiscono, e per le quali verranno contestati? Eppure non ho mai visto un bravo genitore cambiare idea sulla scelta che fa per il bene di suo figlio solo per evitare che lui ci rimanga male. E bada bene, non vedo gli italiani come dei figli, l’approccio paternalistico alla politica lo lascio ad altri. Dico semplicemente che quando governi e decidi hai un quadro della situazione che gli altri non sono tenuti ad avere, e questo può portarti a fare scelte che nell’immediato non sono comprensibili.
Torniamo a una parola tanto cara alla politica: «Cambiare». Potrebbe essere un’arma a doppio taglio, nel senso che si rischia alla fine di cambiare anche idee. A tal proposito ti rammento la frase che campeggia sulla quarta di copertina del tuo libro autobiografico Io sono Giorgia: «In un mondo nel quale tutti puntano a diventare qualcuno, la sfida che ho imposto alla mia vita è riuscire a rimanere me stessa, costi quel che costi».
Confermo: costi quel che costi. Vedi, mi fanno morire questi che dicono: «Ecco, la Meloni ha cambiato idea su tutto, dalle accise all’Europa». Ma non torna, se non altro perché se così fosse la sinistra dovrebbe essere contenta e farmi i complimenti, invece mi insulta molto più di prima. E sai perché? Perché invece noi stiamo dimostrando che si può governare senza svendersi, e questo crea in molti la consapevolezza di essersi svenduti. Ma ovviamente non possono dire questo, e non possono dire che loro hanno raccontato per dieci anni una destra che non esisteva, e quindi devono dire che sono cambiata io. Sono diversa, certo, ma non da chi ero prima. Sono diversa da quello che loro hanno raccontato di me, prima e ora. E adesso si vede. Io dico le stesse cose da sempre, con la stessa convinzione e lo stesso pragmatismo, e approfitterò di questa nostra conversazione per dimostrarlo. Oggi le dico con toni diversi? Certo, faccio il presidente del Consiglio e mi trovo in una posizione ben diversa di quando ero leader dell’opposizione. Mettiamola così, un conto è poter far arrivare la propria voce usando un microfono e un potente impianto di amplificazione, un altro è doverlo fare provando a gridare in mezzo alla folla di uno stadio. Insomma, gli strumenti dei quali ora dispongo sono molto più potenti, ma la visione rimane sempre la stessa, convinta e coerente. Ti faccio un esempio: in passato non sono mai stata entusiasta delle trivelle, avevamo gas e petrolio a sufficienza e addirittura in abbondanza. Un bel giorno la Russia ha invaso l’Ucraina ed è successo quello che è successo, quindi ora fra le trivelle e il lume di candela non ho dubbi: trivelle. E lo stesso vale per le accise sulla benzina. L’ho detto in passato e lo confermo: sono troppe, vanno abbassate appena i conti pubblici lo permetteranno, ma è falso dire, come ha provato a fare la sinistra, che nel programma elettorale di Fratelli d’Italia promettevamo il taglio delle accise, basterebbe leggerlo. Consapevoli dello stato dei conti che avremmo ereditato, abbiamo scritto un programma molto realistico, sincero direi. Abbiamo preso l’impegno di sterilizzare le maggiori entrate dello Stato derivanti dal caro carburante, sarebbe a dire di non fare cassa sull’aumento dei prezzi al distributore ma di destinare di volta in volta la maggiore IVA incassata per ridurre le accise pagate. È esattamente quello che abbiamo fatto una volta al governo. Non avremmo potuto fare di più, perché è ovvio che se devi spendere decine di miliardi in tre mesi, per di più in deficit, per fermare la speculazione galoppante sulle bollette di famiglie e imprese, i soldi per tagliare le accise in modo strutturale non li hai. Io, da gente che ha attraversato allegramente tutto l’arco politico pur di stare al governo, lezioni di coerenza proprio non le accetto. La sinistra continui pure a giocare con le parole, confido che la gente guardi ai fatti. E quelli non sono opinabili.
Resta che il consenso arriva anche dalle parole.
Sulla breve distanza, forse. Sulla lunga distanza, no. Certo, se sei debole, se sei in affanno, se non hai davanti un orizzonte temporale sufficiente a realizzare i progetti, cosa che è capitata a quasi tutti i governi italiani, allora vale tutto. Ma non è così per noi, e io considero questa la nostra più grande forza. Ci hai fatto caso che negli ultimi undici anni, dalla fine del 2011 a ottobre 2022, abbiamo avuto sette governi e sei presidenti del Consiglio? Non sono bravissima a fare di conto ma la matematica non inganna: ogni anno e mezzo abbiamo sbaraccato e ricominciato da capo, il più delle volte cambiando strada praticamente su tutto. Mentre in Germania, per fare un paragone, Angela Merkel ha governato ininterrottamente per sedici anni, dal 2005 al 2021. Senza contare che nessuno di quei nostri sette governi era stato scelto nelle urne. Risultato? Zero credibilità internazionale, zero strategia industriale, scelte fatte nell’interesse dei partiti e non nell’interesse dei cittadini. Stiamo pagando un conto salatissimo per questo.
E tu che orizzonte vedi?
Cinque anni, ed è l’unico orizzonte che mi interessa.
Nessuno, nella storia della Repubblica, c’è mai riuscito. Silvio Berlusconi nella legislatura 2001-2006 ci è andato vicino ma è caduto nell’ultimo miglio.
Il paradosso è che potrei riuscirci proprio perché non voglio rimanerci. Ci si creda o no, considero questo tempo della mia vita un tempo sospeso, e in tutta onestà non posso dire di essere felice, o che mi piaccia. Non mi piace vivere blindata, non mi piace una vita vissuta praticamente nella casa del Grande Fratello. Mi manca molto guidare la mia auto mentre alzo il volume e ascolto le mie canzoni preferite, mi manca uscire a qualsiasi ora per andare a correre da sola, mi manca, da molti anni in verità, la libertà di sedere in un bar a bere un caffè e leggere il giornale senza che qualcuno mi riconosca e mi guardi. Mi è rimasta impressa la foto di Bersani in un locale mentre si beveva da solo al tavolo una birra, mi ha colpito lo scalpore suscitato da quella fotografia. Perché quella è una libertà che un politico famoso, a maggior ragione un presidente del Consiglio, non ha. Soffro per la normalità che mi viene strappata, perché sì, mi piace essere una persona normale, perfino banale nelle sue abitudini. Qualche mese fa, all’inizio del mio mandato, degli amici mi hanno invitato a pranzo ad Anzio per il compleanno di uno di loro. Ho preso la famiglia, la macchina e li ho raggiunti. Per me era la cosa più naturale del mondo. Apriti cielo. Scorta, ispettorato, giornali, tutti impazziti. Ma ti pare che il presidente del Consiglio va in giro così, senza protezione? E lì ho capito questo grande paradosso: ho fatto tutte le scelte della mia vita per essere libera e oggi mi ritrovo a essere la persona meno libera che conosco.
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