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La zona morta

11,30

Al risveglio da un coma durato quattro anni, Johnny scopre di possedere un dono meraviglioso e nello stesso tempo inquietante: è capace di carpire i segreti della mente, del passato e del futuro di alcune persone attraverso un semplice contatto, un tocco.

Così, in un giorno d’estate Johnny stringe la mano di un ambizioso uomo politico e viene a conoscenza di un avvenire talmente incredibile che unicamente lui può credere vero e, quindi, fermare. Una storia ad alta tensione targata Stephen King.

Informazioni aggiuntive

Autore

Editore

Data di pubblicazione

29 aprile 2014

ISBN

978-8868361273

Lingua

Formato

Copertina flessibile

COD: 3342 Categoria: Tag: Product ID: 20739

Descrizione


1

AL tempo in cui si diplomò al college, John Smith aveva scordato tutto della brutta caduta sul ghiaccio in quel giorno di gennaio del 1953. Effettivamente gli sarebbe stato difficile ricordarsene anche quando terminò le scuole secondarie. Suo padre e sua madre, poi, non ne avevano mai saputo niente.

Si pattinava su un tratto sgombro dello stagno Runaround nel Durham. I ragazzi più grandi giocavano a hockey con vecchi bastoni imbottiti e utilizzando un paio di ceste per patate come porte. I più piccini annaspavano lì intorno, come i piccoli hanno sempre fatto da tempo immemorabile, le caviglie inarcate in fuori e in dentro in modo buffo, l’alito che si congelava in nuvolette a causa del gran freddo. In un angolo, due copertoni di gomma bruciavano fuligginosi e qualche genitore sedeva lì vicino per sorvegliare i bambini. L’era delle slitte motorizzate era ancora lontana e il divertimento invernale consisteva nel tenere in movimento il proprio corpo anziché un motore a benzina.

Johnny era venuto da casa, i pattini gli pendevano da una spalla. Aveva sei anni ed era un buon pattinatore, non abbastanza per giocare a hockey con i grandi, ma in grado di disegnare anelli attorno alla maggior parte dei suoi coetanei che stavano sempre a braccia spalancate per mantenere l’equilibrio o piombavano pesantemente sul proprio sedere.

Stava pattinando lentamente sul margine esterno del tratto sgombro desiderando di saper andare all’indietro come Timmy Benedix e intanto sentiva tutto intorno i rumori sordi e gli scricchiolii misteriosi del ghiaccio sotto la coltre di neve, le grida dei giocatori di hockey, il rombo di un autocarro che attraversava il ponte diretto all’U.S. Gypsum di Lisbon Falls, il mormorio delle voci degli adulti. Era felice di essere vivo in quella fredda, bella giornata d’inverno, nulla lo turbava, non desiderava nulla… tranne che essere capace di pattinare all’indietro, come Timmy Benedix.

Passò oltre i copertoni che bruciavano e vide due o tre fra i grandi che si passavano una bottiglia di qualcosa di alcolico.

«Un po’ anche a me!» gridò a Chuck Spier che era infagottato in una grande camicia da boscaiolo e portava pantaloni da neve di flanella verde.

Chuck sogghignò: «Fila via, bimbo, la tua mamma ti chiama!»

Con un ampio sorriso Johnny Smith, anni sei, si allontanò pattinando e sulla strada che costeggiava il ghiaccio vide Timmy Benedix in persona che stava venendo dalla scarpata seguito da suo padre. «Timmy!» gridò. «Guarda!»

Compì un semicerchio e cominciò a pattinare goffamente all’indietro. Senza accorgersene, stava invadendo l’area della partita di hockey.

«Ehi, ragazzino!» gridò qualcuno. «Togliti di mezzo!»

Johnny non sentì. Ci stava riuscendo! Stava pattinando all’indietro! Di colpo aveva afferrato il meccanismo. Stava tutto nel modo di spingere le gambe…

Abbassò gli occhi, affascinato, per vedere quello che le sue gambe stavano facendo.

Il disco di gomma, grosso, slabbrato e arrotondato agli spigoli, gli sibilò vicino, senza che lui lo vedesse. Uno dei ragazzi più grandi, non certo un ottimo pattinatore, stava inseguendo il disco con un lungo tuffo quasi alla cieca.

Chuck Spier lo vide arrivare. Scattò in piedi e urlò: «Johnny! Attenzione!»

John alzò la testa e l’attimo dopo il goffo pattinatore, con tutti i suoi settantacinque chili, piombò sul piccolo John Smith.

Johnny fu catapultato a braccia spalancate. Una frazione di secondo e poi la sua testa picchiò sul ghiaccio e fu il buio.

Buio… ghiaccio nero… buio… ghiaccio nero… nero. Nero.

Gli dissero che era svenuto. Tutto ciò che riusciva a ricordare era quello strano pensiero insistente e la vista improvvisa di un cerchio di volti: giocatori spaventati, adulti preoccupati, bambini curiosi. Timmy Benedix che sorrideva stupidamente, Chuck Spier che lo sorreggeva.

Ghiaccio nero. Nero.

«Allora?» chiese Chuck. «Johnny… come va? Ti sei preso una botta d’inferno.»

«Nero», disse Johnny con voce gutturale. «Ghiaccio nero. Non saltarlo più, Chuck.»

Chuck guardò attorno, un po’ spaventato, poi fissò Johnny. Toccò il grosso bernoccolo che si stava gonfiando sulla fronte del bambino.

«Mi rincresce», disse l’inesperto hockeista. «Non l’ho nemmeno visto. I piccoli non devono invadere il campo di gioco. Almeno questa è la regola.» Si guardò attorno, incerto, in cerca di approvazione.

«Johnny?» ripeté Chuck. Non gli piaceva lo sguardo che aveva: occhi opachi e sperduti, lontani e freddi. «Stai bene?»

«Non saltarlo più», disse Johnny senza rendersi conto di quello che stava dicendo, pensando solo al ghiaccio, al ghiaccio nero. «L’esplosione. L’acido.»

«Non conviene portarlo dal dottore?» domandò Chuck a Bill Gendron. «Non sa quello che dice.» «Lasciategli ancora un minuto», suggerì Bill.

Glielo lasciarono e la mente di Johnny si schiarì. «Sto bene», mormorò. «Fatemi alzare.» Timmy Benedix stava ancora ghignando, accidenti a lui. Johnny decise che gli avrebbe fatto vedere un paio di cosette. Prima della fine della settimana, gli avrebbe fatto dei bei cerchi intorno… pattinando all’indietro e in avanti.

«Vieni qui e siediti per un po’ vicino al fuoco», esortò Chuck. «Ti sei preso una botta d’inferno.»

Johnny lasciò che lo sistemassero vicino al fuoco. L’odore della gomma che si liquefaceva era acre e pungente e gli causava un po’ di nausea. Gli doleva la testa. Il bozzo sopra l’occhio sinistro gli pulsava stranamente. Sembrava che sporgesse di un chilometro.

«Ti ricordi chi sei e che cosa ti è successo?» chiese Bill.

«Certo. Certo che mi ricordo. Sto bene.»

«Come si chiamano tuo papà e tua mamma?»

«Herb e Vera. Herb e Vera Smith.»

Bill e Chuck si guardarono e si strinsero nelle spalle.

«Credo che stia bene», disse Chuck e poi, per la terza volta, «ma di sicuro ha preso una botta d’inferno. Accidenti!»

«Questi piccoli…» disse Bill guardando affettuosamente le sue gemelline di otto anni che pattinavano tenendosi per mano. Poi riportò lo sguardo su Johnny. «Probabilmente un adulto ci sarebbe rimasto secco.»

«Non un polacco», disse Chuck e scoppiarono a ridere. La bottiglia ricominciò a circolare.

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