Descrizione
Aussterben
Il punto di controllo militare si trovava alla fine della 12•• Street NW, poco prima dell’incrocio con Constitution Avenue. I due edifici federali ai lati della strada fungevano da portico verso il National Mail, e tra questi si estendevano sezioni di filo spinato, sorvegliate da una coppia di carri armati leggeri MIA2 e da diverse decine di soldati della guardia nazionale, armate di mitragliatrici Thomson e ingombranti maschere antigas. Più di mille tra uomini, donne e bambini, si trovavano pazientemente in coda davanti al gabbiotto dove le infermiere volontarie verificavano il colore della sclera di chiunque intendesse accedere all’area riservata. Se il bianco dell’occhio presentava il minimo segno di rottura dei vasi sanguigni, la persona in questione veniva automaticamente allontanata dalla fila e condotta fino a una cabina adiacente in cui un medico militare misurava la temperatura e svolgeva un esame più approfondito. In caso di esito positivo, il soggetto veniva ricoverato immediatamente nell’area di quarantena e probabilmente non se ne sarebbe mai più sentito parlare. Quando la fila di persone davanti ad Alexander Riley si andava ormai esaurendo, il capitano del Pingarr6n strinse la mano di Carmen Debagh, che camminava al suo fianco, e inspirò a fondo. Il vento soffiava da sudest, facendo sì che la nuvola di fumo e cenere che aveva origine dall’altro lato del Potomac si diffondesse per tutta la città, inondandola con l’odore di carne bruciata proveniente dal crematorio. Un fetore che andava a impregnare ogni poro della pelle e ogni indumento degli abitanti di Washington DC.
– Avanti! Non fermatevi! – sollecitò un sergente con la voce soffocata dalla maschera.
Obbediente, la fila avanzò. Davanti a Carmen e Alex, due anziani dall’aspetto sofisticato si rincuoravano a vicenda sulle condizioni di salute del proprio nipote; da ciò che Alex sentì involontariamente, i genitori del piccolo erano morti e lui si trovava in quarantena da una settimana.
Carmen, sentendo quelle parole, si aggrappò in silenzio al braccio di Riley come se fosse l’ultimo salvagente su una nave che colava a picco.
– Il prossimo – disse un’infermiera con voce stanca, rivolgendosi a loro con un cenno della mano.
Alex procedette per primo, mostrò al sergente il documento identificativo dell’Ufficio di Intelligence Navale che gli permetteva di trovarsi lì, per poi voltarsi verso l’infermiera. Con un gesto ripetuto mille volte, la donna sollevò il mento di Riley con la mano inguantata mentre con l’altra gli illuminò entrambi gli occhi con una pila portatile. Dietro il vetro della. maschera antigas dell’infermiera, Riley vide il volto esausto di una giovane donna segnato da delle occhiaie inconsuete per la sua età.
– Pulito – disse laconicamente e, con un cenno della testa, gli indicò di avanzare per lasciare il posto a Carmen, affinché potesse esaminarla.
La tangerina si piazzò nel punto in cui fino a poco prima si trovava Riley e, quando l’infermiera si accingeva a visitarla, nella fila che occupava l’intera strada scoppiò un trambusto che attirò l’attenzione di tutti i presenti. A un centinaio di metri di distanza, due uomini avevano iniziato a discutere animatamente, urlando, fino a quando uno dei due estrasse un revolver e sparò all’altro un colpo a bruciapelo. Si scatenò quindi un fuggifuggi di cittadini terrorizzati che correvano in tutte le direzioni per mettersi al riparo, mentre un plotone di soldati abbandonava la propria postazione di sicurezza dietro i sacchi di sabbia e correva, armi in mano, pronto a sparare.
– È la seconda sparatoria oggi – osservò l’infermiera scuotendo la testa con desolazione-. Questo Paese sta andando a rotoli … – concluse voltandosi verso Carmen.
– Ce la caveremo – rispose la tangerina con disinvoltura-. Vedrà.
Dietro la maschera, delle piccole rughe agli angoli degli occhi dell’infermiera rivelarono il cenno di un sorriso. Con un gesto invitò Carmen ad andare, senza prendersi il disturbo di visitarla, forse perché aveva dimenticato di non averlo ancora fatto, o forse perché, in fondo, l’importante era controllare la gente che usciva dall’area di quarantena, non quella che ci entrava.
Una volta superato il punto di controllo, camminarono per una decina di metri fino a sbucare nel National Mall, l’enorme spazio verde davanti al Campidoglio e alla Casa Bianca, presidiato dall’obelisco monumentale dedicato a George Washington.
Appena tre mesi prima, quando erano arrivati negli Stati Uniti, avevano passeggiato in quello stesso posto mentre i fiocchi di neve leggera cadevano pigramente sulla capitale e Riley mostrava a Carmen con un certo orgoglio patriottico il Lincoln Memorial l’imponente edificio del Museo Smithsonian.
Ora, invece, il National Mall, dai giardini del Campidoglio alla riva del Potomac, era un immenso ospedale da campo dove centinaia di tende dell’esercito si allineavano ordinatamente per dare accoglienza ai migliaia di infetti che non trovavano posto negli ospedali della città e che venivano confinati nella cosiddetta area di quarantena in attesa di superare la malattia o di morire in modo orribile, affogati nel proprio sangue, che disgraziatamente era ciò che succedeva nella stragrande maggioranza dei casi.
L’area di quarantena, più che un gigantesco ospedale da campo, era un lebbrosario, un luogo in cui morire senza contagiare gli altri. Un’infinità di campi identici era sorta in tutto il Paese come unica risposta possibile alla brutale irruzione del virus Aussterben negli Stati Uniti. Il primo caso era comparso dieci settimane prima, e da allora il presidente Roosevelt aveva dichiarato lo stato di emergenza e il coprifuoco in tutto il Paese, in un vano tentativo di arginare il contagio. Ma era già troppo tardi e non era ancora chiaro quali fossero i vettori del contagio, per poterli evitare. Quando comparivano i primi sintomi, il malato era già infetto da una settimana e stava contagiando tutti quelli che gli stavano attorno. Era un’epidemia inarrestabile, che non aveva risparmiato neppure la First Lady, e sebbene il governo e gli scienziati ripetessero continuamente che avrebbero trovato il vaccino nel giro di poche settimane, nessuno ci credeva più o, in ogni caso, nessuno credeva che sarebbe arrivato in tempo per salvare la maggior parte del Paese.
Si diceva che dei centotrenta milioni di cittadini, più di venti milioni erano già morti, si erano ammalati o avevano presentato i primi sintomi. Le stime più realistiche, tuttavia, indicavano il doppio delle vittime e altrettanti casi di contagio che ancora non mostravano sintomi, ma che stavano contaminando l’ambiente circostante. Dato l’indice di sopravvivenza e il tasso di contagio, alcuni giornali avevano previsto che per la fine dell’anno la popolazione degli Stati Uniti si sarebbe ridotto ad appena venti o venticinque milioni di abitanti. E questo, aggiungevano, volendo essere ottimisti.
Carmen si avvicinò a un grosso pannello di legno collocato davanti all’ingresso: venti metri di legno e sughero in cui venivano affissi centinaia di fogli scritti a macchina con i nomi dei ricoverati nel campo.
Quando Riley la raggiunse, un attimo prima che scoppiasse quella follia, lei stava controllando i nomi delle liste segnati con una A. Non poté evitare di notare che un quarto dei nomi erano stati depennati, e guardandosi attorno assistette ai gesti di disperazione di quanti avevano scoperto il nome di qualche persona cara sotto un’inappellabile linea rossa.
Centinaia di persone si avvicinavano alle liste con aria speranzosa. Alcune prorompevano in esclamazioni di sollievo e correvano verso le tende, mentre altre piangevano, si abbracciavano in cerca di conforto o crollavano sull’erba schiacciata come marionette senza fili.
-Alcántara, Joaquín – disse Carmen indicando con evidente allegria uno dei fogli -. Sezione H-8.
Per qualche motivo, Riley era sicuro che il nome dell’amico non fosse tra quelli depennati. Era impossibile che fosse sopravvissuto, contro ogni aspettativa, ai maggiori pericoli immaginabili per poi morire a causa di un insignificante insetto microscopico.
-Andiamo – incitò Carmen prendendola per mano -. È da questa parte.
Si allontanarono da quel muro del pianto diretti verso l’obelisco, che ora era circondato da un mare di tende verdi. Cartelli piazzati su dei pali indicavano le sezioni del campo di quarantena come se si trattasse di vere e proprie strade e distretti di una città popolata solo da moribondi.
Dalle tende, un incessante entra ed esci di soldati della Guardia Nazionale che trasportavano barelle, alcune con dei malati appena ricoverati, altre con cadaveri avvolti in sacchi di tela che nel giro di qualche ora avrebbero visto le fiamme del crematorio, contribuendo con quei resti alla nube nera che attraversava il fiume e fluttuava sulla città come un’ombra, saturandola con odore di morte.
Un soldato gli si avvicinò e indicò le buste che entrambi portavano in spalla.
-Indossate le maschere –gli ordinò in modo brusco, passandogli accanto senza fermarsi.
Annuirono e, mano alle borse, estrassero le piccole maschere antigas che culminavano in un macchinoso filtro e se le sistemarono sul viso per coprire naso e bocca.
Alex rimase per un attimo a guardare Carmen, la donna che amava e che si trovava lì per colpa sua. I suoi capelli neri erano raccolti in una coda, e un pesante cappotto grigio nascondeva completamente il suo corpo sinuoso, lasciando alla vista solamente il viso e il collo; anche così, a Riley sembrava irresistibilmente bella. Per un attimo provò il desiderio di dirle ciò che provava, che non avrebbe dovuto trovarsi lì e che se le fosse successo qualcosa, non se lo sarebbe mai perdonato. Ma in quel momento lei, mani sui fianchi, domandò:
-A cosa stai pensando?
Invece di aprirsi con lei, Alex diede un colpetto al filtro della maschera di Carmen con l’indice e rispose con finta nonchalance:
-Che sembri un formichiere.
Carmen sbuffò sotto la maschera e schioccò la lingua.
-Forza, muoviti. – Si voltò e si incamminò con passo deciso.
Gli ci vollero quasi dieci minuti per trovare la tenda con l’indicazione H-8 dipinta su un lato. Senza dire una parola, Carmen prese la mano di Riley, non per cercare sostegno, bensì per offrirgliene. All’interno di quella tenda si trovava il migliore amico di Alex, forse agonizzante e, nonostante la tranquillità apparente che si sforzava di mostrare, sapeva che vedere il suo compagno d’armi della guerra civile spagnola in quello stato l’avrebbe dilaniato.
-Andiamo? –la incitò Alex, spostando il telo dell’entrata.
Carmen annuì e si addentrò nella tenda.
Riley la seguì deciso ma, suo malgrado, non appena ebbe varcato la soglia si fermò come se si fosse scontrato con un muro invisibile.
Due file di dieci brande, una per ogni lato della tenda, occupavano quasi completamente lo spazio disponibile, lasciando al centro uno stretto corridoio nel quale a malapena passavano due persone. Una fila di squallide lampadine pendeva dal soffitto emanando una tenue luce sulla scena dantesca dell’interno, per la quale non avrebbe potuto prepararsi in alcun modo.
In ogni branda c’era un malato. Il padre di qualcuno, la figlia di qualcuno, il nipote di qualcuno… Venti uomini, donne e bambini in quello spazio angusto che lottavano contro la morte, pregando in silenzio di rientrare in quel cinque percento che secondo le statistiche sopravviveva all’infezione. Uno su venti. Uno per tenda.
Alex si chiese fugacemente se quella proporzione di un sopravvissuto per tenda fosse frutto del caso o di qualche strano stratagemma psicologico dei medici militari.
-Lì – disse Carmen indicando davanti a sé.
Riley allungò il collo e gli parve di scorgere una sagoma leggermente più voluminosa di quelle attorno. Sì, era quella di Jack.
Non si era accorto, fino a quel momento, di aver trattenuto il respiro per tutto il tempo.
Con passo incerto, come se le sue gambe non gli appartenessero del tutto, Riley avanzò tra le due file di letti, seguito da Carmen.
I malati vicino ai quali passavano erano per la maggior parte incoscienti o così deboli da non riuscire a muoversi; emaciati, sudaticci e spossati sui sottili materassi come se vi fossero caduti sopra in qualche modo e non fossero più riusciti a radunare le forze per rialzarsi. Solo un paio di loro sollevarono lo sguardo, forse con la vana speranza di essere l’oggetto delle visite.
Il letto di Joaquín Alcántara era il penultimo della fila a sinistra. Si piazzarono in silenzio ciascuno a un lato. Carmen si sedette sul bordo vicino alla figura immobile. Il viso di Jack, un tempo rotondo, era una maschera smunta e cinerea; le sue guance rosate erano valli solcate da rughe, e i capelli castani incollati alla fronte erano sporchi e umidi. Con estrema tenerezza attraverso la mano inguantata, Carmen gli sistemò i capelli e Alex riuscì a scorgere una lacrima che scendeva piano lungo la sua guancia destra.
Il marinaio aprì dunque gli occhi e per un attimo rimase a guardare i due ospiti con incredulità. Gli ci vollero alcuni secondi per riconoscere i suoi amici nella penombra, nascosti com’erano dietro le maschere di gomma e metallo.
-Ciao, Jack –disse Riley chinandosi vicino alla branda-. Come stai?
Il gallego sorrise mesto, mostrando le gengive sanguinolente. I suoi occhi erano due sfere infiammate e arrossate.
-Mi vedi… –mormorò con un filo di voce-. Mi sto prendendo una vacanza a spese dello Zio Sam. Ma se devo essere sincero –aggiunse alzando debolmente il dito e indicando attorno a sé-, il servizio qui è pessimo e i vicini una vera palla. È l’ultima volta che metto piede in questo posto.
-Parlerò con la direzione -gli assicurò Riley.
-Come ti senti? –domandò Carmen, incapace di accettare la spensieratezza di quei due uomini.
-Perfettamente –rispose Jack, colto da un improvviso attacco di tosse che lo fece piegare in due-. Perché… me lo chiedi? –aggiunse quando si fu ripreso, con aria stupita.
Carmen scosse la testa e sorrise suo malgrado sotto la maschera.
A quel punto il gallego si voltò verso Riley e vide negli occhi del capitano del Pingarrón quel senso di colpa che conosceva alla perfezione. Perfino nelle sue condizioni, intuì cosa passava per la testa dell’amico.
-Abbiamo fatto… tutto il possibile –mormorò.
Alex sollevò lo sguardo verso le altre diciannove persone che occupavano la tenda.
-Non è bastato –aggiunse con un sospiro.
-Dicono che dei pescatori di Plymouth –aggiunse Carmen, riportando una diceria sentita alla radio-, hanno trovato nelle proprie reti una provetta contenente il virus e l’hanno aperta senza immaginare cosa contenesse. Una volta giunti a terra, senza saperlo, erano già infettati, e da lì la propagazione è arrivata a Boston diventando inarrestabile.
-In un modo o nell’altro, quella maledetta cosa è sopravvissuta all’esplosione e al naufragio. Se solo avessimo… –aggiunse Riley serrando il pugno destro fino a farsi diventare le nocche bianche-. Eravamo così vicini…
La mano di Jack si posò lievemente sulla manica della giacca di Alex.
-Ormai non ha importanza –borbottò.
Riley annuì.
-No, non ne ha più.
Jack cercò di respirare a fondo buttando la testa all’indietro, ma l’aria sembrava non avere intenzione di entrare nei suoi polmoni e tutto ciò che ottenne fu l’emissione di uno strano fischio all’interno della sua trachea.
Carmen e Riley attesero un istante, trattenendo il fiato come se ciò potesse aiutare il loro amico.
Finalmente, il gallego espirò lentamente e chiuse gli occhi.
-Stanotte ho sognato Julie e César… –disse, e un’espressione di tristezza infinita gli si dipinse in volto-. Credo che… abbiano fatto bene.
-Non è vero –rispose Alex prontamente-. Avrebbero dovuto resistere. Non avrebbero dovuto perdere la speranza di farcela.
Jack negò lentamente con la testa.
- Magari uno dei due sarebbe sopravvissuto…- aggiunse-. Ma non entrambi.
-Sono d’accordo –intervenne Carmen -. Si amavano troppo per vivere uno senza l’altra. Così se ne sono andati insieme e senza soffrire… non come il povero Marco.
-E vi assicuro che fa male… un male cane –affermò il capitano in seconda del Pingarrón con espressione contrita-. A proposito… Sapete qualcosa di… Elsa?
Alex negò con la testa.
-Da quando i militari l’hanno portata via non ne ho saputo più niente. Nemmeno all’ONI, l’Ufficio di Intelligence Navale sanno dove la tengano, o non vogliono dirmelo. Ma starà bene –aggiunse-. Se pensano che nel suo sangue ci possa essere la chiave del vaccino si assicureranno di tenerla al sicuro e si prenderanno cura di lei; puoi starne certo.
-Già, capisco… –Il gallego scosse goffamente il capo-. Invece, parlando di cibo… Mi avete portato qualcosa da mangiare, vero?
Jack Alcántara sapeva perfettamente che nelle sue condizioni era incapace di digerire qualsiasi alimento solido, ma ciò non gli impedì di assumere un’aria delusa quando si scusarono per non averci pensato.
– È incredibile… che me ne vada all’altro mondo… come un figurino. A saperlo… –disse con un sorrisetto, dandosi una leggera pacca sulla pancia ancora prominente- mi sarei beccato prima il virus. -Non dire così –lo rimproverò Carmen-. Sei un uomo molto forte. Sono sicura che supererai anche questa.
Il gallego mosse la testa, dubbioso.
– Ci siamo trovati in situazioni peggiori, amico mio –disse Riley posandogli una mano sulla spalla-. Nel giro di un paio di settimane ci staremo mangiando un filetto da mezzo chilo ciascuno nel miglior ristorante della città.
Jack gli rivolse un’occhiata sospettosa.
-Paghi tu, vero?
Riley sorrise tra sé.
-Vedremo –obiettò guardando Carmen di sottecchi-. E a dirla tutta, il taxi per venire a trovarti ci è costato un occhio.
-Certo che sei spilorcio… –lo accusò Jack-. La prossima volta che… –iniziò a dire, interrompendosi per un nuovo attacco di tosse più forte del precedente.
Questa volta il sangue si accumulò nella bocca del gallego, che però ebbe le forze di stendersi su un fianco e sputarlo in terra invece che sopra i suoi amici.
Rimase reclinato per quasi un minuto sul bordo del letto, respirando con difficoltà mentre un rivolo di sangue gli colava dalle labbra fino al pavimento, dove si era formata una pozza di sangue e miasma.
-Merda… –mormorò-. Che schifo.
-Cercherò qualcuno che lo pulisca – affermò Carmen alzandosi e guardandosi attorno.
Jack mosse la testa e fece un cenno con la mano perché lasciasse perdere.
-Non ti disturbare… Ti ho già detto che il servizio è pessimo… Sto ancora aspettando… il mio cioccolatino sul cusci… –Non riuscì a terminare la frase: riprese a tossire come se i polmoni fossero sul punto di uscirgli dalla bocca.
In quel preciso istante, un medico attirato dal baccano della tosse entrò nella tenda. Indossava una maschera integrale che gli copriva l’intera testa, conferendogli più o meno lo stesso aspetto che avevano i marziani delle copertine di Astounding, solo che questo extraterrestre indossava un camice bianco macchiato di sangue e sembrava essere di pessimo umore.
-Che ci fate voi qui? –domandò, tra l’esausto e l’irritato, con la voce attutita dalla maschera-. Questa zona non è aperta alle visite.
Riley gli mostrò il tesserino identificativo dell’ONI.
-Ufficio di Intelligence Navale –recitò a mo’ di lasciapassare.
-Per quanto mi riguarda potreste anche far parte del gabinetto presidenziale -rispose il medico, allontanando il documento-. Non potete stare qui a importunare il mio paziente.
-È anche nostro amico –aggiunse Carmen.
Il medico si voltò verso di lei e negò con la testa.
-Beh, tra poco non lo sarà più, se non lasciate che si riprenda in santa pace. Ha bisogno di ogni singolo briciolo di forza per sconfiggere la malattia. Perciò, per favore, andatevene e lasciatelo riposare.
Riley rimase a guardare quella testa enorme, cercando dietro le spesse lenti rotonde gli occhi dell’umano che nascondeva. Li vide, sebbene nella penombra della tenda, e vi lesse autentica preoccupazione.
-Ha ragione –ammise il capitano del Pingarrón-. Ce ne andiamo immediatamente.
La testa da insetto spaziale del medico annuì senza proferire parola.
Carmen passò di nuovo la mano tra i capelli di Jack.
-Guarisci, intesi? –Gli fece un occhiolino complice-. Troveremo Elsa e le diremo che la stai aspettando.
-Io le darò un bacio da parte tua –rincarò Alex.
-Dovrai passare prima sul mio cadavere –rispose Jack, e realizzando quanto aveva appena detto scoppiò in una risata borbottante che lo fece tossire ancora.
-Fuori di qui! –sbraitò il medico, indicando l’uscita con fare perentorio-. Tutti e due!
Buttando uno sguardo indietro, preoccupati per la contagiosità dell’ultimo attacco di tosse dell’amico, la coppia percorse il macabro corridoio fino a raggiungere l’uscita della tenda. Un attimo dopo si trovavano di nuovo sotto la luce brillante del giorno.
Si guardarono e, davanti alla tenda dove giaceva il loro amico e circondati da quella città di morti viventi, si abbracciarono come mai avevano fatto prima, non solo esprimendo senza bisogno di parole quanto si amavano, ma aggrappandosi l’uno all’altra con la disperazione del naufrago che nel mezzo dell’oceano vede avvicinarsi la pinna di uno squalo.
A quel punto, sorprendendo Alex, Carmen si separò da lui e si fece da parte, reprimendo a stento un accesso di tosse.
Riley rimase completamente muto, intimamente terrorizzato.
Carmen sollevò lo sguardo su di lui, con una calma soprannaturale nello sguardo.
-Non è niente –disse in un sussurro.
Tossì ancora e si vide costretta a sollevare la maschera al di sopra della bocca.
Dal labbro inferiore le colò una goccia di sangue.
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