Descrizione
I
Una voce dal passato
Un silenzio assoluto. Assordante nella sua totale mancanza di suoni. Non riuscivo nemmeno a sentire il mio respiro, eppure da alcuni minuti stavo correndo a perdifiato, cercando di orientarmi in quel luogo oscuro che mi appariva sconosciuto. Mi fermai, ansimando per la fatica. Estrassi dalla fondina la Beretta calibro 9 e provai a impugnarla. Era pesantissima: riuscivo a stento a sollevarla con entrambe le mani. «Sono stanco», pensai. «Troppo stanco.» Tenni la pistola bassa, con il braccio disteso lungo il corpo, e mi guardai in giro. Per via dell’oscurità, ma anche per una specie di foschia lattiginosa che stagnava immobile tutt’intorno, non riuscivo a vedere più in là di pochi metri.
«Nebbia a Massaua?» riflettei sorpreso. Non era un fenomeno del tutto insolito a queste latitudini, specie di prima mattina, quando l’umidità della notte si solleva avvolgendo le banchine del porto in un sudario impalpabile. Ma era appunto qualcosa del tutto diverso dalla fitta bruma che mi stava circondando e che, ai miei occhi increduli, ricordava semmai le spesse nebbie di fine autunno della pianura padana. Avevo completamente perso la nozione del tempo; ma se quella fosse stata la caligine dell’alba, da qualche parte si sarebbe dovuto distinguere il chiarore del sole nascente. Invece il buio regnava sovrano. Buio e silenzio. Buio, silenzio e nebbia.
E poi avevo freddo, come da tempo non mi capitava più di sentire. Mi strinsi nella giubba sahariana e provai a camminare, strizzando gli occhi per cercare di vedere qualcosa davanti a me. D’improvviso anche le gambe erano diventate pesanti. Ogni passo era uno sforzo, mi pareva di avanzare nella fanghiglia o su una superficie di calce fresca. Non avevo ancora incontrato nessuno, ma avvertivo una presenza sinistra, quasi un nemico invisibile si fosse acquattato nella nebbia e mi seguisse a breve distanza, in attesa del momento propizio per attaccare.
Altre volte avevo avuto paura, ma adesso era una sensazione diversa, più intensa, agghiacciante. Mi sentivo confuso, intorpidito, impotente. Un po’ come se fossi stato reduce da una sbornia memorabile, di quelle che non sai manco più come ti chiami. Ma io sapevo benissimo come mi chiamavo. Maggiore Aldo Morosini dei Reali Carabinieri, in servizio presso il Comando dell’Arma nel Bassopiano dell’Eritrea, ai vostri ordini, signor colonnello! Sapevo chi ero, ma non come fossi capitato lì, in un luogo tanto inquietante da provocarmi i brividi.
O forse era il freddo a farmi venire la pelle d’oca? Santo cielo, un freddo tremendo, che non avevo provato neppure sulle ambe di tremila metri dell’altopiano etiopico! Paragonabile solo a quello sopportato, da allievo ufficiale, nelle guardie notturne in pieno gennaio in una Torino ricoperta di neve. Lassù, però, se non altro, mi sentivo al sicuro. Protetto dalla garitta e a pochi metri dai miei commilitoni. Se dal buio fosse sbucato uno sconosciuto, sarebbe stato sufficiente intimare l’altolà, chivalà e poi sparare: il primo colpo in aria, il secondo al bersaglio. Anche se gli istruttori, a mezza voce, spiegavano che in caso di reale pericolo si sarebbe potuto invertire l’ordine e buonanotte alla procedura. In ogni caso, nel giro di un paio di minuti sarebbero accorsi i miei compagni a tirarmi fuori dagli impicci.
Ora, invece, ero solo. Che fine aveva fatto il maresciallo Barbagallo? E non era con me neppure lo scium-basci Tesfaghì, che di solito mi accompagnava in ogni missione. Porca miseria, dove diavolo s’erano andati a cacciare quei due scansafatiche? Avanzai ancora per alcuni metri, trascinando i piedi. In lontananza mi pareva di scorgere una luce che si muoveva lentamente, ma non ne ero sicuro.
«C’è qualcuno laggiù? Fermatevi, carabinieri!» intimai. Ma dalla bocca non uscì alcun suono. Provai di nuovo a chiamare: possibile che fossi diventato sordo? Il lume parve arrestarsi. Mi sentivo ancora più stanco, con le tempie che mi scoppiavano, assordato dal silenzio che faceva rimbombare in testa i miei stessi pensieri. Mi avvicinai all’alone di luce, che appariva sempre più prossimo. Sollevai di nuovo la rivoltella, con grande fatica. Adesso scorgevo nella nebbia una figura alta, che teneva in mano una specie di lucerna.
«Ehi, voi!» gridai.
Questa volta la mia voce risuonò forte e chiara, accompagnata da una strana eco. La figura rimase immobile, dandomi le spalle.
«Dico a voi! Sono il maggiore Morosini, voltatevi lentamente e non fate scherzi, sono armato.»
Nessuna risposta. L’uomo, che sembrava avere indosso un mantello con cappuccio, non si mosse di un centimetro.
«Siete sordo? Badate che parlo seriamente. Posate la lanterna e alzate le mani, altrimenti sparo.»
Sentii una risata che mi fece accapponare la pelle, poi la misteriosa figura appoggiò la lucerna al suolo e sollevò le braccia.
«C’è poco da ridere! Ora voltatevi lentamente.»
Rise di nuovo, questa volta molto più a lungo. Ormai spazientito mi feci sotto, puntandogli la Beretta addosso.
A un trattò parlò, gelandomi il sangue nelle vene: «Aldo, che fai? Vuoi sparare a tuo padre?»
Balbettai qualcosa d’incomprensibile persino a me stesso. Avevo riconosciuto la voce.
Lui andò avanti: «Bella accoglienza, dopo tanti anni che non ci vediamo».
«Papà! Ma non è possibile…»
«Saranno passati almeno diciott’anni da quella volta che c’incontrammo per caso, al fronte, sotto il monte Grappa.»
Gettai a terra la pistola e caddi in ginocchio.
«Non può essere, tu sei morto.»
«Morto? Ah ah ah ah…»
Finalmente si girò. Nascosto sotto il cappuccio, illuminato a stento dalla luce della lanterna, vidi biancheggiare un teschio. Mi coprii entrambi gli occhi con le mani, in preda al panico, e cominciai a urlare. Adesso sentivo eccome la mia voce impazzita: non aveva quasi più nulla di umano. Mi pareva di rotolare giù per una china, mentre cento mani sbucavano fuori dal terreno e cercavano di afferrarmi. Rotolavo, urlavo, piangevo e mi disperavo, ma alla fine le mani mi presero e mi immobilizzarono.
«Presto! Non riusciamo a tenerlo fermo.»
Accorse un uomo vestito di bianco, con qualcosa in mano. Intorno a me vedevo agitarsi strane figure chiare, con la testa avvolta in un velo. E adesso c’era luce, tanta luce. Troppa luce: mi feriva gli occhi e non mi lasciava capire dove mi trovavo e che cosa mi stessero facendo quelle persone. Poi sentii una fitta in un braccio, un dolore lancinante. E poco a poco mi resi conto di perdere contatto con la realtà: stavo scivolando nel sonno. Forse verso la morte.
La voce mi arrivò da lontano, come trasportata sulle onde dalla brezza marina. Lontana ma inconfondibile, con una cadenza lombarda che mi accorsi subito di conoscere molto bene.
«Ueilà, Aldo, sei tornato fra noi?»
Aprii gli occhi con difficoltà; mi sembrava di avere le palpebre di piombo oppure incollate con la coccoina. Ma riconobbi subito il sorriso bonario di Ragazzoni.
«Claudio…» mormorai con un filo di voce.
«Alùra, sei ancora vivo?»
«Vivo? Non lo so… cioè, sì. Ma dove sono, che cos’è successo?»
«Sei all’ospedale Umberto I di Massaua, Eritrea. Esattamente dove ti trovavi ieri sera.»
«In ospedale? Perché? Cos’è capitato?»
«Non ricordi proprio niente?»
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