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L’ultima Rivelazione (Le avventure di Ulises Vidal Vol. 3)

22,95

Dal loro ritorno dall’Amazzonia, le cose non sono andate bene per Ulises, Cassie e il professor Castillo. Il racconto di ciò che hanno vissuto nella Città Nera è talmente straordinario che sono stati etichettati come truffatori e insultati pubblicamente. Quello che sarebbe dovuto essere un grande trionfo si trasforma nell’esatto contrario. Per dimostrare che dicono la verità e recuperare le loro vite, non potranno fare altro che addentrarsi di nuovo nell’ignoto in cerca delle prove irrefutabili di cui hanno bisogno. Questa volta, il sentiero di molliche di pane li condurrà in uno dei luoghi più pericolosi, desolati e inospitali del pianeta… ma questo sarà solo l’inizio. Il punto di partenza di un incredibile viaggio ricco di azione, suspense e scoperte inimmaginabili, rischiando tutto per scoprire il più grande mistero della storia.

Un viaggio che porterà Ulises, Cassie ed Eduardo a vivere l’avventura più strabiliante della loro vita. Un’avventura alla ricerca di quella che sarà L’ultima rivelazione.

 

NOTA DELL’AUTORE: La narrazione del romanzo L’ULTIMA RIVELAZIONE ha inizio qualche mese dopo il ritorno a casa di Ulises, Cassie e il professor Castillo, pertanto si può collegare facilmente il finale di un libro con il successivo. Ciononostante, L’ULTIMA RIVELAZIONE è una storia totalmente indipendente e con un carattere tutto suo, che può essere tranquillamente apprezzata senza bisogno di conoscere gli antecedenti, o aver precedentemente letto L’ULTIMA CRIPTA o L’ULTIMA CITTÀ PERDUTA.

Informazioni aggiuntive

Autore

Editore

Data di pubblicazione

19 giugno 2023

ISBN-13

979-8390582022

Lingua

Formato
Copertina flessibile

€ 22,95

COD: 9380 Categoria: Tag: Product ID: 21140

Descrizione

PARTE I

Diario

 

1

Il tunnel era immerso nelle tenebre.

Parzialmente inondato da un’acqua scura e fetida che mi arrivava alle ginocchia e sembrava non avere fine.

Più avanti, il buio più assoluto.

Un’oscurità imperscrutabile, palpabile, densa come petrolio.

Ero solo. Avevo freddo.

E paura.

Avanzavo senza una meta in quel sotterraneo dalle umide pareti di pietra poco più largo delle mie spalle, brandendo una torcia che a stento riusciva a illuminare al di là del mio braccio teso.

Il silenzio in quel corridoio claustrofobico era così assordante che il suono del mio respiro affannoso rimbombava sui muri come un’eco e ogni passo in quell’acqua quasi nera e maleodorante risuonava come un fragoroso picchiettio udibile a chilometri di distanza.

Il cuore mi batteva all’impazzata.

Avevo la bocca secca.

Sudavo.

Un brivido mi percorse la schiena fino alla base della nuca.

Un presentimento che andava oltre i sensi mi aveva spinto a fermarmi in tronco facendomi trattenere il fiato e aguzzare l’udito.

Rimasi in attesa per qualche secondo, completamente immobile. Ma oltre me c’era solo quel silenzio fragile, affilato, teso come la corda di un violino sul punto di spezzarsi.

Un silenzio profondo e innaturale.

Un silenzio minaccioso.

Un silenzio malvagio.

Un bisbiglio soffocato appena percettibile mi giunse da dietro le spalle.

Girai bruscamente la testa in quella direzione, ma il corridoio era così stretto che non avevo lo spazio sufficiente per puntare puntare la torcia che reggevo nella mano sinistra.

Scrutai l’oscurità da sopra la mia spalla, ma non vidi niente.

Lo strano rumore era stato come un chiacchiericcio lontano, quasi impercettibile. Un attimo dopo averlo sentito mi domandai se non mi fossi sbagliato.

Con il fiato sospeso rimasi immobile, in attesa di vedere o sentire qualcos’altro, qualsiasi cosa potesse confermare che non l’avessi immaginato.

Ma non accadde niente.

Il corridoio alle mie spalle era muto e lugubre esattamente come quello che si apriva davanti a me. Delle gallerie morte e abbandonate, e io ero il primo uomo che si avventurava al loro interno da migliaia di anni.

Eppure, non ero solo.

Lì sotto c’era qualcos’altro.

Qualcosa di indefinibile. Una presenza maligna che sembrava avvolgere ogni cosa, trovandosi da ogni parte e, tuttavia, inafferrabile.

Rimasi in quella posizione ancora per qualche secondo con lo sguardo rivolto alle mie spalle, senza osare nemmeno respirare. Il cuore mi martellava nelle orecchie mentre delle gocce di sudore mi scivolavano lungo le tempie.

Continuavo a non vedere o sentire assolutamente niente. Presi un profondo respiro, lasciando andare l’aria a lungo trattenuta, mi passai la lingua sulle labbra aride e mi rimisi in cammino.

Ora avanzavo più velocemente, quasi con urgenza.

In un modo atavico e irrazionale, ero sicuro che laggiù ci fosse qualcosa che seguiva furtivamente i miei movimenti.

A ogni mio passo, la paura si spandeva dentro di me come una macchia d’olio e a quel punto ebbi la certezza che non sarei riuscito a uscire da quel corridoio e che qualcosa si stesse avvicinando a me rapidamente, qualcosa di perverso e indistinto.

Iniziai a correre facendomi strada a fatica in quell’acqua che sembrava colla e che faceva di tutto per trattenermi.

Di nuovo quel rumore alle mie spalle, come di ratti intenti a confabulare. Ma più vicino.

Questa volta non mi fermai quando mi voltai a guardare indietro, consapevole che non avrei visto altro che quel nero senza fine.

Accelerai inconsapevolmente il passo, lottando per allontanare dalla mia mente la terribile convinzione che qualcosa si stesse avvicinando. Un essere inimmaginabile intenzionato ad afferrarmi e a fare di me la vittima di qualche azione terrificante, infinitamente peggiore della morte.

Quel rumore si palesò per la terza volta, ora però accompagnato da un aspro suono graffiante, come se ciò che si stava avvicinando stesse grattando la pietra con i suoi artigli.

La paura mi attanagliava al punto che non riuscii a raccogliere il coraggio necessario per voltarmi di nuovo e affrontare il vuoto che avevo dietro me. Era un terrore così profondo e irrazionale che temetti di perdere il controllo dei miei arti e rimanere paralizzato alla mercé dell’ignoto che mi inseguiva.

Mentre correvo brandivo davanti a me la torcia quasi fosse una bacchetta magica con la quale spaventare i fantasmi. Ma ancora non sapevo dove mi stessi dirigendo e non riuscivo a vedere al di là di un paio di metri attraverso quelle ombre che sembravano inghiottire la luce.

A quel punto, una zaffata pestilenziale mi colpì le narici e l’inconfondibile alito di un essere di grosse dimensioni risuonò a pochissima distanza dalla mia schiena.

Capendo di non avere via di scampo, mi fermai e mi girai di scatto su me stesso, brandendo la torcia come una spada e gridando No! con tutta la forza della mia disperazione.

Ma, ancora una volta, lì non c’era niente.

Ansimando, la torcia retta a stento dalla mia mano tremante, rimasi per quasi un minuto in attesa che qualche mostro emergesse dalle ombre. Ero determinato a guardare negli occhi quell’essere prima che mi facesse fuori, impedendogli di sorprendermi alle spalle.

Ma il demonio non si fece vivo. Ero solo.

Mi passai la mano sul viso per asciugare il sudore causato dallo sforzo e dalla paura. Il respiro affannato, il battito impazzito, l’angoscia che impregnava ogni pensiero.

Stavo impazzendo? Avevo le allucinazioni? Ero assolutamente sicuro di ciò che avevo sentito, ma la verità era che di fronte a me non c’era niente o nessuno. Né un uomo, né un mostro, né un demonio. Niente.

Decisi di aspettare il tempo necessario per recuperare la calma e la lucidità. Inspirai a fondo, espirai e, abbozzando un sorriso beffardo rivolto a me stesso e alle mie paure infondate, mi voltai per riprendere il mio cammino.

Ed eccolo lì.

Quell’essere si ergeva di fronte a me ad appena qualche metro di distanza come un’ombra gigantesca che occupava quasi per intero lo spazio del tunnel. La sua unta pelle nera rifletteva la misera luce della torcia che a fatica consentiva di distinguere un torso imponente, delle braccia infinite coronate da artigli affilati, delle spalle larghe e forti, e su di esse, una testa vagamente umana ma allungata in modo esagerato sul cui volto brillavano due occhi feroci iniettati di sangue che mi guardavano con un odio che non era di questo mondo.

Incapace di muovere un solo muscolo, rimasi a fissare quell’abominio uscito dall’inferno.

Sapevo che sarei morto in quel preciso istante. Che non esisteva una via d’uscita.

E a conferma del mio presagio, quell’essere spalancò una bocca terrificante colma di denti grandi e affilati, pronto ad azzannarmi.

Pervaso da un’improvvisa e inaspettata calma in quel breve istante che precedeva la mia morte, dedicai il mio ultimo pensiero al ricordo del volto di Cassie, di mia madre, del professor Castillo e di tutte le persone che amavo e che non avrei mai più rivisto.

A quel punto l’essere gettò la testa all’indietro, piegò le gambe e con un balzo prodigioso si scagliò su di me con un ruggito.

Gridai con tutte le mie forze.

Il mostro aprì la bocca.

–Signor Vidal.

Quella creatura mi stava dando del “Signore”?

–Ulises –alzò la voce, ora chiamandomi per nome–. Può bastare.

Il mostro non solo conosceva il mio nome, ma aveva anche un sorprendente accento di Buenos Aires.

–Ulises! –sbraitò.

Aprii gli occhi di colpo.

Non mi trovavo più nel tunnel oscuro, ma in una stanza avvolta nella penombra, con un rosone nell’alto soffitto bianco da cui pendeva un lampadario vintage, spento.

Sbattei le palpebre un paio di volte e abbassai lo sguardo per scoprire delle pareti coperte da librerie, diplomi e foto di sconosciuti.

Cosa era reale? Quello che avevo vissuto prima o quello di adesso?

Il mio cervello ci mise diversi secondi a raccapezzarsi.

Alla mia sinistra, una pioggia autunnale picchiettava sui vetri della finestra, e la sua luce plumbea di fine serata illuminava appena un uomo che mi guardava con espressione preoccupata.

–Si sente bene? –domandò il dottor Martínez: psichiatra di professione e argentino di vocazione. O forse era il contrario.

Era un tipo giovane, forse troppo, ma con lo sguardo sincero in quegli occhi a mandorla e la sua voce soporifera era stato il primo con il quale avevo raggiunto qualche miglioramento. Piccolo e irregolare, certo, ma se non altro non mi svegliavo più tutte le notti in un bagno di sudore e in preda alle urla. Ora mi accadeva solo di tanto in tanto.

Quella era già la terza seduta con lui. Nella penombra del suo studio, steso su quel divano che profumava di cuoio di qualità, tornavo ancora e ancora nei tunnel della Città Nera per affrontare di petto i miei mostri. Il giorno in cui li avessi sconfitti nella mia memoria, stando a quanto garantiva il terapeuta, li avrei sconfitti anche nei miei sogni e avrebbero smesso di causarmi quei terrori notturni che mi tormentavano da quando eravamo tornati dall’Amazzonia.

Mi passai la mano sulla fronte. Era umida.

La situazione era sfuggita ancora una volta al nostro controllo.

–Vuole un bicchiere d’acqua? –mi chiese, indicando la caraffa che si trovava sulla scrivania.

–No, grazie –risposi, rendendomi conto però di avere la bocca secca–. O magari sì. Immagino che non abbia invece della birra fresca, vero?

Un leggero sorriso si affacciò sulle labbra dello psichiatra.

–Il fatto che abbia voglia di scherzare è un buon segno –affermò–. Sta andando molto bene, Ulises.

–Bene? –ripetei, portandomi la mano al petto–. Accidenti, ho ancora le palpitazioni.

–Il primo giorno di regressione, nel caso in cui l’avesse dimenticato, ha passato dieci minuti senza dire una parola e con lo sguardo perso. Il solo fatto che ora stia chiacchierando con me è un notevole miglioramento, mi creda.

–Se lo dice lei.

–Lo dico eccome –confermò–. Dobbiamo continuare a insistere fino a estirpare il problema alla radice, come un’erbaccia, per fare in modo che non spunti mai più. La aspetto di nuovo la prossima settimana.

–Sì, beh… Non sono sicuro di riuscire a venire la prossima settimana.

–D’accordo –annuì, estraendo il suo iPhone dalla tasca–. La segno in agenda tra due settimane?

–Ecco… è meglio che la avvisi io, va bene?

Il dottore sembrò sul punto di ricordarmi quanto fosse importante la costanza nella terapia, come faceva dopo ogni seduta, ma questa volta si limitò ad annuire, rimettendo il telefono nella tasca.

Il problema era che non potevo permettermi la sua parcella di cento euro l’ora. Da qualche mese riuscivamo a stento a coprire le spese per il mangiare e per pagare le bollette, e anche se Cassie insisteva su quanto fosse importante la terapia per me, semplicemente andava troppo al di là del nostro budget. La mia salute mentale avrebbe dovuto aspettare.

Quando tornai a casa quella stessa notte, dopo un lavoretto dell’ultimo minuto nelle acque sudicie e gelate del porto di Barcellona per riparare l’elica di uno yacht russo con troppa fretta di salpare, Cassie era già a letto con un libro.

Si era fatta una graziosa coda di cavallo con i suoi biondi capelli mossi e, distesa contro la parete con indosso una mia maglietta scolorita che le arrivava alle ginocchia usata a mo’ di camicia da notte, mi parve la visione più bella che avessi avuto in tutto il giorno.

La mia devozione nei suoi confronti non era diminuita di una virgola dal giorno in cui l’avevo vista per la prima volta sul ponte della Midas, mentre solcavamo il Mar dei Caraibi alla ricerca del tesoro perduto dei Templari.

Sembravano essere passati mille anni da allora.

–Ciao –salutai.

–Chi si vede –sorrise lei calorosamente, e i suoi occhi verdi mi fecero dimenticare i problemi della giornata–. Come è andata al porto?

–Uno spasso –dissi, sedendomi sul bordo del letto e dandole un lungo bacio–. Pesci colorati, acque tiepide e delfini che mi sguazzavano attorno.

–Così male? –fece una smorfia, intuendo che era stato l’esatto contrario–. Sarei potuta venire ad aiutarti.

Scossi la testa, ne avevamo già parlato altre volte. Anche se Cassie era un’esperta archeologa subacquea, non aveva i titoli necessari per lavorare con me. L’ultima cosa di cui avevamo bisogno era che ci multassero o sospendessero la mia licenza professionale.

–E la terapia?

–Bene. Ogni giorno un po’ meglio –dissi, senza entrare nel dettaglio né menzionare il fatto che non ci sarei tornato più. Non avevo le energie per discuterne di nuovo.

Un caldo sorriso si disegnò sulle sue labbra.

–Evviva. Sono davvero felice, amore –si rallegrò, accarezzando con la punta delle dita la mia barba di tre giorni.

–Sì, è fantastico –dissi, spostando lo sguardo per evitare che mi leggesse nel pensiero–. Se per te va bene, vado a fare una doccia bollente per togliermi di dosso il freddo prima di venire a letto.

–Certo –mi fece un occhiolino, dando una pacca alla copertina del suo libro–. Ti aspetto qui.

La doccia consolatoria si fece molto più lunga del previsto. Ci misi più di mezz’ora a togliermi il freddo dalle ossa e l’odore di olio motore e pesce dalla pelle.

Quando uscii dal bagno Cassie si era già addormentata, la mano sinistra appoggiata sul libro chiuso che giaceva al suo fianco.

Per un momento tentennai sul fatto di sdraiarmi accanto a lei, ma per quanto fossi stanco, non avevo abbastanza sonno da addormentarmi e sapevo che stare a rigirarmi nel letto era la cosa peggiore che potessi fare.

Facendo attenzione a non svegliarla, spostai il libro, spensi la luce e avvicinai le labbra alla sua fronte. Il suo respiro cadenzato suggeriva che si era addormentata da un bel pezzo.

–Ti amo –le dissi, baciandola piano e impregnandomi di quel profumo di frutta che emanavano costantemente i suoi capelli.

Diedi un’occhiata al mio orologio e scoprii che non era ancora mezzanotte. Con gesti cauti presi il Kindle che tenevo sul comodino e mi diressi verso il salotto con l’intenzione di leggere un po’ e guardare il canale di televendite fino a quando lo schivo Morfeo non si fosse degnato di venire a trovarmi.


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