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L’ultimo cavaliere. La torre nera (Vol. 1)

Author: Stephen King

12,35

L’ultimo cavaliere è il primo romanzo della serie «La Torre Nera», che ha impegnato il genio creativo di Stephen King per oltre trent’anni: una saga fantastica, ambientata in un mondo di sinistre atmosfere e macabre minacce, che appare come lo specchio oscuro di quello reale. Scritto in età giovanile e completamente rivisto dall’autore prima della pubblicazione dei capitoli conclusivi del ciclo, questo romanzo mostra un nuovo, appassionante aspetto dello straordinario talento creativo di Stephen King. Qui, in uno sconfinato paesaggio apocalittico, l’eterno, epico scontro fra il Bene e il Male s’incarna in uno dei più evocativi personaggi concepiti dall’autore: il pistolero Roland di Gilead, l’ultimo cavaliere di un mondo «che è andato avanti», leggendaria figura di eroe solitario sulle tracce di un enigmatico uomo in nero, verso una misteriosa Torre al centro dell’universo.

Informazioni aggiuntive

Editore

Data di pubblicazione

13 giugno 2017

ISBN

978-8868363666

Lingua

Italiano

Formato

Copertina flessibile

COD: 7670 Categoria: Tag: Product ID: 20632

Descrizione


Il cavaliere

1

L’uomo in nero fuggì nel deserto e il pistolero lo seguì.

Il deserto era l’apoteosi di tutti i deserti, sconfinato, vasto fino a traboccare nel cielo per quella che sembrava un’eternità in tutte le direzioni. Era bianco e accecante e arido, amorfo salvo che per l’abbozzo labile e nebuloso delle montagne all’orizzonte e per l’erba diavola che portava dolci sogni, incubi, morte. A indicare la via appariva di tanto in tanto una lapide, perché un tempo la pista semicancellata scavata nella spessa crosta alcalina era stata una strada importante, percorsa da carri e corriere. Da allora il mondo era andato avanti. Il mondo si era svuotato.

Il cavaliere era stato colto da uno stordimento fugace, una sensazione di smisuratezza che faceva apparire il mondo intero effimero, quasi ci si potesse

guardare attraverso. Poi la sensazione passò e, come il mondo sulla cui pelle camminava, il cavaliere andò avanti. Percorreva le miglia con flemma, senza fretta, senza indugio. Gli pendeva alla vita un otre di pelle simile a una mortadella. Era quasi pieno. Dopo molti anni di applicazione, il pistolero aveva raggiunto forse il quinto livello del khef. Fosse stato un sant’uomo Manni, non avrebbe forse patito la sete; avrebbe potuto osservare con clinico distacco il progressivo disidratarsi del proprio corpo, irrorandone i cunicoli e le oscure cavità interiori solo quando la logica gli avesse detto che era indispensabile. Ma non era un Manni, non era un seguace dell’Uomo-Gesù, e in nessun modo si considerava santo. Era solo un comune viandante, in altre parole, e l’unica cosa che poteva dire con assoluta certezza era che aveva sete. Tuttavia non sentiva il bisogno impellente di bere. Ne provava un vago piacere. Era l’atteggiamento giusto per quella terra, poiché era una terra assetata, e nella sua lunga vita non gli aveva certo fatto difetto l’adattabilità. Sotto l’otre c’erano le sue pistole, il cui peso era stato calibrato con cura sulle sue mani; una zavorra era stata aggiunta a entrambe quando gli erano giunte da suo padre, che era stato più leggero di lui e non tanto alto. I due cinturoni gli si incrociavano sopra l’inguine. Le fondine erano lubrificate troppo bene perché quel sole, per quanto filisteo, potesse screpolarle. Il calcio era di sandalo, giallo, con venature sottili. Le fondine dondolavano leggermente ai suoi passi, trattenute da lacci di cuoio poco stretti intorno alle cosce; avevano strofinato via il blu dei suoi jeans (e assottigliato la tela) in due archi che somigliavano a sorrisi. I bossoli di ottone delle cartucce infilate nei passanti dei cinturoni ammiccavano mandando segnali di sole. Ne aveva di meno, ora. Il cuoio scricchiolava sommessamente.

La camicia, del non-colore della pioggia o della polvere, era aperta sulla gola, con un laccio di cuoio allentato negli occhielli punzonati a mano. Non aveva più il cappello. E non aveva più il corno che portava un tempo, caduto dalla mano di un amico morente, e li rimpiangeva entrambi.

Salì il dolce pendio di una duna (ma non c’era sabbia in quel deserto crostoso e persino gli aspri venti che soffiavano al calar delle tenebre riuscivano solo a sollevare un fastidioso pulviscolo pungente simile a polvere abrasiva) e vide i resti scalciati di un minuscolo fuoco da bivacco sul versante sottovento, il lato dal quale il sole si sarebbe ritirato prima. Di piccoli segni come quello, a riaffermare la possibile umanità dell’uomo in nero, non mancava mai di compiacersi. Distese le labbra nel volto scavato e riarso. Un sorriso macabro, dolente. Si accosciò.

La sua preda aveva bruciato l’erba diavola, ovviamente. Era l’unica cosa che si potesse bruciare da quelle parti. Ardeva con un bagliore untuoso e opaco, lentamente. Gli abitatori della frontiera gli avevano detto che i diavoli vivevano anche in quelle fiamme. Perciò la usavano per alimentare il fuoco, ma evitavano di guardarne la luce. Dicevano che i diavoli ipnotizzavano e seducevano chi li fissava, attirandolo infine nelle fiamme. Così il prossimo stolto che avesse guardato il fuoco avrebbe forse visto proprio te.

Il solito ideogramma composto con l’erba bruciata si disfece in un uniforme, impalpabile grigiore sotto la mano indagatrice del pistolero. Nulla c’era nei resti del fuocherello oltre a un frammento carbonizzato di pancetta, che mangiò sovrappensiero. Era sempre andata così. Il pistolero seguiva l’uomo in nero attraverso il deserto da ormai due mesi, nella vastità infinita e tremendamente monotona di quel purgatorio, e ancora non gli era dato di trovare altra traccia che quelle asettiche, sterili, ideografie dei fuochi. Mai che avesse trovato un barattolo, una bottiglia o un otre (il pistolero ne aveva lasciati quattro dietro di sé, come pelli abbandonate da un serpente dopo la muta). Non aveva trovato escrementi. Ne aveva dedotto che l’uomo in nero li interrava.

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