Descrizione
I
ANNIE
Quando guardi nell’abisso, l’abisso guarda in te.
FRIEDRICH NIETZSCHE
1
umber whunnnn
yerrrnnn umber whunnnn fayunnnn
Questi suoni: nonostante la nebbia.
2
OGNI tanto i suoni si affievolivano, come il dolore, e allora restava solo la nebbia. Prima della nebbia ricordava l’oscurità: oscurità totale. Doveva dedurne che stava facendo progressi? Sia fatta la luce (anche se di tipo nebbioso), e la luce era cosa buona e così via e così via? Erano esistiti quei suoni nell’oscurità? Non era in grado di dare risposta ad alcuna di quelle domande. Aveva senso porsele?No, non aveva risposta nemmeno a questa.
Il dolore restava poco sotto i suoni. Il dolore era a est del sole e a sud delle sue orecchie. Qui si concludevano le sue certezze.
Per un lasso di tempo che sembrò molto lungo (e così era, poiché in esso esistevano solo il dolore e quella nebbia inquieta) quei rumori furono l’unica realtà esterna. Non aveva idea di chi fosse o dove fosse e nemmeno gli importava saperlo. Avrebbe voluto esser morto, ma nella nebbia intrisa di dolore che gli riempiva la mente come una tempestosa nube estiva, non sapeva di volerlo.
Con il passare del tempo, s’accorse che c’erano periodi di non-dolore e che questi periodi avevano una cadenza ciclica. E per la prima volta da quando era emerso dal buio totale che aveva anticipato la nebbia, formulò un pensiero separato dall’incomprensibile situazione in cui si trovava. Era il pensiero di un pilone spezzato che sporgeva dalla sabbia a Revere Beach. Suo padre e sua madre lo avevano condotto spesso a Revere Beach da bambino e lui pretendeva sempre che stendessero la coperta in un punto da dove potesse tenere un occhio su quel pilone, che a lui sembrava come l’unica zanna di un mostro sepolto. Gli piaceva sedersi a osservare l’acqua salire fino a coprire lo spuntone.
Poi, ore più tardi, dopo che erano stati consumati i sandwich e le patate in insalata, dopo che erano state spillate anche le ultime gocce di Kool-Aid dal grosso thermos di suo padre, appena prima che mamma dichiarasse che era il momento di sbaraccare per tornare a casa, la cima di quel pilone marcio faceva di nuovo capolino: un balenare istantaneo dapprincipio, nel riflusso delle onde, poi sempre di più. Ora che avanzi e rifiuti erano stati gettati nel grosso bidone con la scritta TENETE PULITA LA VOSTRA SPIAGGIA e i giocattoli di Paulie erano stati raccolti.
(Paulie è il mio nome è così che mi chiamo e questa sera la mamma mi metterà il Baby Oil dellajohnson sulle scottature, pensò dentro il cirrocumulo in cui viveva ora) e la coperta ripiegata, il pilone era quasi completamente ricomparso, con il suo legno nerastro e viscido circondato da grappoli di schiuma. Era la marea, aveva cercato di spiegargli suo padre, ma lui aveva sempre saputo che era il pilone. La marea andava e veniva; il pilone restava. Solo che certe volte non lo si vedeva. Senza pilone, non c’era nemmeno la marea.
Quel ricordo girava e girava, esacerbante, come una mosca pigra. Brancolò alla ricerca di un significato, ma per un lungo momento fu interrotto dai suoni.
fayunnnn
tutto rrrrosssso
umberrrr whunnnn
Ogni tanto i suoni cessavano. Ogni tanto lui cessava.
Il primo ricordo veramente chiaro di quell’adesso, l’adesso all’esterno della nebbia tempestosa, era di essersi interrotto, di essersi accorto all’improvviso di non poter più respirare, e non gli era dispiaciuto, andava bene così, anzi, era una meraviglia; era capace di sopportare una certa dose di dolore, ma il troppo stroppia ed era stato felice di poter abbandonare la partita.
Poi c’era stata una bocca che si era schiacciata sulla sua, una bocca che era indubitabilmente di donna nonostante l’arida durezza delle labbra, e il fiato di quella bocca di donna gli era stato soffiato nella sua, giù per la gola, a gonfiargli i polmoni, e quando le labbra estranee si erano staccate, aveva odorato la sua carceriera per la prima volta, l’aveva fiutata nel deflusso dell’aria che lei gli aveva forzato nel corpo come un uomo potrebbe entrare di forza in una donna che gli si oppone: un tanfo nauseante di biscotti alla vaniglia e gelato al cioccolato e sugo di pollo e fondenti al burro d’arachide.
Aveva sentito uno strillo: «Respira, dannazione! Respira, Paul!»
Le labbra gli si erano stampate di nuovo sulla bocca. Di nuovo gli era stato soffiato alito in gola. Soffiato giù come il risucchio di vento umido e oscuro sulla scia di un convoglio di metropolitana in accelerazione, quel vento che si trascina dietro fogli di giornale e carte di caramelle. E le labbra si erano ritirate e lui aveva pensato: Per l’amor di Dio non fartene venir fuori dal naso; ma non aveva saputo impedirselo e ah quel puzzo, quel puzzo quello schifoso PUZZO.
«Respira, maledetto!» aveva strillato la voce invisibile e lui aveva pensato: Respiro, respiro, qualunque cosa, solo ti prego non farlo più, non mi infettare più, e aveva tentato, ma prima ancora che cominciasse le labbra si erano schiacciate nuovamente sulle sue, labbra asciutte e morte come strisce di cuoio salato, e lei lo aveva violentato di nuovo riempiendolo con la sua aria.
Quando aveva staccato le labbra quest’altra volta lui non aveva esalato il fiato alieno, ma lo aveva buttato fuori e aveva preso una gigantesca boccata. L’aveva lasciata uscire. Aveva aspettato che il suo petto invisibile si muovesse per proprio conto, come aveva fatto per tutta la sua vita, senza il suo aiuto. Quando non era accaduto, aveva risucchiato nuovamente aria a litri e finalmente aveva ripreso a respirare, ma concitatamente, per ripulirsi dell’odore e del sapore di lei.
Mai l’aria gli era sembrata così buona.
Cominciò a scivolare nuovamente nella nebbia, ma prima che il mondo svanisse del tutto udì la voce di donna borbottare: «Caspita, se c’è mancato poco!»
Sempre troppo, pensò lui e si addormentò.
Sognò il pilone, così reale che gli pareva di poterne accarezzare la curva superficie screpolata e ricoperta di chiazze verdi e nere, se solo avesse allungato il braccio.
Quando tornò al suo precedente stato di semincoscienza, riuscì a trovare il collegamento fra il pilone e la situazione attuale, fu come se gli cadesse in mano. Il dolore non era intermittente. Quella era la lezione del sogno che era in realtà un ricordo. Era solo un’illusione che il dolore andasse e venisse. Il dolore era come il pilone, talvolta immerso e talvolta visibile, ma sempre presente. Quando il dolore non lo torturava attraverso il denso grigiore di pietra della sua nuvola, ne era stolidamente grato, ma non per questo si lasciava più ingannare: c’era ancora, aspettava di ripresentarsi. E non c’era solo un pilone. Ce n’erano due. Il dolore corrispondeva a quei due piloni e qualcosa dentro di lui sapeva già molto tempo prima che la sua mente si rendesse conto di saperlo, che i piloni spezzati erano le sue gambe spezzate.
Ma passò un altro tempo molto lungo prima che riuscisse finalmente a strappare la schiuma di saliva rappresa che gli aveva incollato le labbra e gracchiasse: «Dove sono?» alla donna che sedeva al suo capezzale con un libro fra le mani. Il nome dell’uomo che aveva scritto quel libro era Paul Sheldon. Lo riconobbe come suo senza stupore.
«A Sidewinder, nel Colorado», rispose lei dopo che lui fu riuscito finalmente a esprimere la domanda. «Io mi chiamo Annie Wilkes. E sono…»
«Lo so», la interruppe lui. «Sei la mia ammiratrice numero uno.»
«Già», fece lei, e sorrise. «Proprio così.»
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