Descrizione
IL COLLOQUIO
Dentro il sacco – Visita inattesa – Ottocento lire – Una spia in casa – Tutto cambia
Aveva di nuovo sognato le parole.
Le accadeva spesso, quando passava la notte a Lanzo: una successione di lettere che sbocciavano una dopo l’altra mentre dormiva, e nessuna catena logica a guidarle. Le parole generate da quelle lettere sfilavano come su un nastro e si rincorrevano dando forma a frasi incomprensibili, risultando oscure anche al risveglio. Talvolta, appena spalancati gli occhi sul mondo reale, si sforzava di riacciuffare brandelli di senso; concentrandosi le sembrava di riconoscere una conversazione sentita durante il giorno e riemersa nel dormiveglia, qualche riga studiata la sera prima, oppure un appunto preso distrattamente sul quadernone ad anelli.
Le facevano visita di frequente, le parole. Anche quel mattino di inizio novembre galleggiavano nella stanza, come bolle di sapone pronte a dissolversi.
Da quando la scuola era ricominciata, le giornate erano scandite dai paradigmi di inglese da mandare a memoria e dagli esercizi di geometria che tanto la tormentavano. Era una studentessa diligente, che non ambiva a essere la prima della classe, anche se fin da piccola le maestre dicevano fosse “più matura della sua età”. Un destino curioso per chi, come lei, era nato prematuro: qualcuno diceva che i settimini fossero condannati a un futuro infelice. Ma Sonia no. I genitori – o per meglio dire la madre, conscia di quella precocità – l’avevano a suo tempo iscritta alla primina. Il vantaggio che aveva sulla maggior parte dei coetanei quando si trattava di studiare sbiadiva di fronte alle cose più pratiche, ma lei si accontentava di portare a casa buoni voti che non facessero arrabbiare i genitori. Soprattutto il padre.
Alcune linee di febbre l’avevano tenuta a casa. Capitava che, vuoi perché giocava in cortile col giubbotto mezzo aperto (la rimproverava la nonna), vuoi perché il suo corpo reagiva così all’abbassamento di temperatura (che quell’anno si preannunciava drastico), si ammalasse con facilità. Nulla che un paio di pomeriggi a oziare leggendo qualche vecchio giornalino e guardando la TV – dopo aver finito i compiti, ovvio – non potessero guarire.
La casa era fuori dal centro abitato, sulla strada che s’inerpicava per le montagne. Lanzo Torinese – chissà chi l’aveva battezzato così, visto che si trovava a una quarantina di chilometri dal capoluogo – era un paese di provincia simile a tanti altri delle Valli di Lanzo. Possedeva molte caratteristiche da località di alta montagna (in passato era stato un luogo di villeggiatura), pur restandosene da sempre quieto ai piedi delle Alpi. Eppure il semplice fatto di trovarsi all’imbocco delle valli boschive a cui dava il nome rendeva Lanzo e i suoi abitanti in certa misura permalosi: guai a dire male di quelle case, molte ancora di pietra; di quelle vie strette e tortuose perlopiù in salita, progettate per far passare i carri col bestiame; o di quei pochi negozi che vendevano qualsiasi cosa.
Altrettanto imbevute di orgoglio provinciale erano le persone che nascevano e morivano a Borgo Loreto: così la gente del posto chiamava il pugno di case dove la madre di Sonia era cresciuta, e dove ancora viveva nonna Ada. I suoi vicini erano Sergio e Cilia, un’anziana coppia che abitava le stanze che, un tempo, avevano ospitato una fucina. A fianco della cuccia di Baldo, il loro cane, si trovava un mulino ancora funzionante, anche se ormai nessuno più lo usava per forgiare il ferro o lavorare il rame. Le volte in cui dormiva dai nonni – così si ostinava a dire sua madre anche se nonno Delio era morto da sette anni, così aveva imparato a dire Sonia – si addormentava ascoltando il lamento dell’acqua che precipitava sulle pale del vecchio mulino. Il getto del torrente cadeva instancabile, muoveva la ruota producendo un suono dolce che conciliava il sonno e niente più. Una notte dopo l’altra, Sonia veniva cullata da quella personale ninnananna.
Adorava il bozzolo in cui la intrappolava nonna Ada. Le estremità della coperta finivano sotto il materasso insieme alle lenzuola: il sacco, così lo chiamava mentre – con fare deciso – sistemava il letto dopo che Sonia ci era scivolata dentro come un foglio in una busta. Poi la nonna spegneva la luce senza tanti complimenti, chiudeva la porta a soffietto che separava le due stanze e si ritirava in camera sua. A Sonia non importava rinunciare all’idea di alzarsi durante la notte per fare pipì, né le dispiaceva di non potersi girare su un fianco: preferiva rimanere supina fra le lenzuola. Immobile, dentro il caldo buono del sacco.
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