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Niente di personale (Piemonte in noir)

12,00

Torino, giugno 1990: l’estate, i Mondiali di calcio. Dante Finazzi, cinquant’anni, professione killer, riceve un nuovo incarico. Lui è il migliore. È un cane sciolto e ha un metodo a prova di errore, affinato negli anni. Mai un problema, uno sbaglio, mai lasciata una traccia dietro di sé. Però questo è un caso particolare, e prova uno strano disagio. Non solo perché, per la prima volta, la vittima designata è una donna. C’è pure il fatto che ha deciso: sarà l’ultimo lavoro prima di mollare tutto e cominciare una nuova vita in Sudamerica. Dante si mette in caccia e comincia a osservare da vicino Petra Kònig. Affitta una stanza di fronte alla casa della donna, la spia, la fotografa giorno e notte (soprattutto la notte), la segue. Entra nella sua vita senza essere visto, vive con lei fino a restarne pericolosamente affascinato (e a te, lettore, accadrà lo stesso, come in una lunga, insinuante soggettiva). È la routine del killer, che deve sapere tutto della vittima per poter scegliere il momento migliore per agire. Anche se qualcosa non torna. Uno dei committenti gli sta con il fiato sul collo, sembra che lo controlli, e questo lo innervosisce. Qualcuno, poi, ammazza il suo amico Mario, e allora scatta l’allarme. Ormai è tardi per tornare indietro. La domenica di Argentina-Brasile, che si gioca al Delle Alpi, è il giorno stabilito per chiudere. La città è vuota, nelle strade risuona la telecronaca della partita. La Walther PPK è pronta. È ora di finire il lavoro.

Informazioni aggiuntive

Editore

Data di pubblicazione

1 Marzo 2021

ISBN-13

978-8877075673

Lingua

Italiano

Formato
Copertina flessibile

€ 12,00

COD: 8850 Categoria: Tag: Product ID: 21212

Descrizione

Capitolo 1

Agguato Peppe Argirò parcheggiò la Mercedes grigio metallizzato in doppia fila, all’altezza del numero civico 56 di via Giovenale Ancina, periferia nord di Torino. Diede tre colpi di clacson in rapida successione, senza neppure spegnere il motore. Da una finestra del secondo piano si affacciò una donna corpulenta, con i capelli raccolti in una coda di cavallo, gli occhi bistrati e un rossetto vivace sulle labbra.

«Rosaria scende subito, Peppe!» gridò.

Peppe Argirò sbuffò, incassandosi nel sedile dell’automobile. Spense il motore, poi prese un pacchetto di sigarette dal cassettino del cruscotto, ne accese una con il Ronson placcato oro che gli aveva regalato zia Concetta, abbassò il finestrino e soffiò fuori una boccata di fumo. Sapeva benissimo che Rosaria ci avrebbe impiegato ancora cinque minuti, se non dieci. Non era la prima volta che l’andava a prendere a casa ed era sempre la stessa storia. Da principio lei gli aveva chiesto se voleva salire e aspettarla in casa, ma Peppe non aveva nessuna voglia di sorbirsi le chiacchiere noiose della signora Santoro e i silenzi ostili del marito, che non faceva mistero di sopportare assai poco quel fidanzato della figlia tanto discusso e chiacchierato nel quartiere.

Ma lui, Peppe Argirò, se ne fotteva del padre di Rosaria, così come se ne strafotteva delle minchiate che andava raccontando in piazza la gente invidiosa. Anche perché era tutta roba vera, ridacchiava fra sé il giovane balordo. Dicevano che non gli andava di lavorare, ed era vero. Sostenevano che frequentava brutte compagnie, ed era ancor più vero. Qualcuno a mezza voce insinuava che aveva fatto delle rapine e adesso stava nel giro grosso della droga, e in effetti era la sacrosanta verità. Poi, di nascosto, c’era persino chi raccontava che Peppe aveva ammazzato un «cavallo» calabrese che sei mesi prima se l’era data con cinquanta grammi di eroina senza pagare il dovuto alla famiglia. E quello invece non era vero, ma Peppe non smentiva perché faceva curriculum, come diceva l’avvocato De Bono, che aveva studiato il latino.

Non aveva ammazzato nessuno, Peppe Argirò. Non ancora. Ma don Salvatore gli aveva detto di tenersi pronto, che di lì a poco ci sarebbe stato da sparare, infatti da alcuni mesi girava sempre con indosso la Bernardelli calibro 9 che gli aveva procurato compare Filippo, detto Pippo ‘u Curtu. Quando circolava in auto, per precauzione, la teneva nascosta sotto il sedile, a portata di mano.

Gettò il mozzicone di sigaretta fuori dal finestrino e si stravaccò ancor più comodamente sul sedile in pelle color ocra della Mercedes. Controllò l’ora: le venti e quindici. Aveva prenotato il ristorante per le venti e trenta, sarebbero arrivati in ritardo. Ma chissenefrega, al locale di Santo il tavolo di Peppe Argirò non glielo toccava nessuno, neppure se avesse tardato un’ora.

Sbuffò, infastidito. Rosaria stava esagerando. L’ultima volta era scesa in strada quasi quindici minuti dopo il suo arrivo, mentre Peppe era già furibondo e stava per andarsene mollandola lì a casa. Quando lei aveva aperto lo sportello dell’auto stava per prenderla a male parole, ma poi il suo sguardo era stato attratto come un magnete dalla scollatura che lasciava intravedere quelle tette che lo facevano impazzire, sode e grosse come due meloncini delle parti sue. Così si era calmato all’istante, borbottando solo un paio di bestemmie. Rosaria l’aveva baciato con la lingua, strusciandogli il davanzale sul petto, e quando gli aveva accarezzato il pacco, provocando un’immediata erezione, Peppe Argirò aveva già dimenticato il ritardo, l’appuntamento al ristorante e persino come si chiamava.

Era maggio inoltrato ed era ancora chiaro, ma la sera era fresca e minacciava pioggia. I nuvoloni neri si aggiravano da mezz’oretta sul cielo di Torino e in lontananza, verso la collina, si udiva il rombo di un tuono.

Capace che si mette a piovere, porca puttana, pensò Argirò.

Gli sarebbe seccato bagnare il completo beige di Armani che si era comprato due giorni prima e che aveva messo indosso apposta per fare una sorpresa a Rosaria. Lei lo rimproverava di vestirsi come un tamarro e allora era andato in quel negozio in centro, vicino a via Roma, e si era provato uno degli abiti più cari che aveva visto in vetrina. Gli era piaciuto subito, guardandosi allo specchio sembrava uno di quegli attori americani di Miami Vice, e pazienza se erano due sbirri di merda. In quanto a stile ne avevano da vendere, specie quello bianco con la Ferrari Testarossa.

Che poi, rifletté Peppe, gli americani ce ne rifilano di stronzate! Quando mai s’è visto uno sbirro che va in giro con un completo Armani e una Ferrari Testarossa? Quelli sono morti di fame, che è già tanto se i vestiti se li comprano alla Standa.

Peppe Argirò sorrise alla sua battuta e lì per lì non fece neppure caso al tizio che arrancava in carrozzina sul marciapiede. Un tuono gli esplose sulla testa e dopo pochi istanti dal cielo nero cominciarono a venir giù goccioloni che rimbalzarono rumorosamente sul tettuccio della macchina, coprendo in un istante il parabrezza. Argirò azionò il tergicristalli e accese anche la ventola dell’aria calda, per asciugare l’umidità all’interno del vetro.

Guardò attraverso il finestrino l’invalido che arrancava sotto il temporale, con la testa china in avanti e le braccia che cercavano di azionare più in fretta le ruote gommate della carrozzina. Peppe Argirò non aveva il cuore tenero, ma provò un pizzico di pena.

Minchia, che sfigato, pensò, già è handicappato e adesso si becca pure il nubifragio sulla testa.

Controllò l’ora, irritato. Aspettava ormai da dieci minuti, ma ragionò che con tutta quell’acqua che veniva giù col cavolo che Rosaria sarebbe scesa. Di sicuro non avrebbe voluto rovinare la piega o bagnarsi le scarpe, perciò a lui sarebbe toccato aspettarla finché non avesse smesso di piovere. Ma porco Giuda maiale!

Accese un’altra sigaretta e premette il pulsante dell’autoradio. Dalle casse stereo uscì la voce di Phil Collins che cantava Another Day in Paradise e Peppe Argirò la canticchiò per alcuni istanti, ma ben presto si stancò: «Che cazzo di lagna!» Cambiò stazione radio e s’imbatté in Donna con te di Anna Oxa, che gli piaceva molto di più.

Diede un’altra occhiata al marciapiede e notò che il disabile si era fermato sotto l’acqua che scrosciava. Armeggiava con le ruote della carrozzina, ma non riusciva a muoversi, una delle gomme sottili si era incastrata nella grata di un tombino. Abbassò un poco il finestrino appannato per vedere meglio e quello se ne accorse.

«Scusi signore, può aiutarmi per favore? Sono rimasto bloccato, se potesse darmi una spinta…»

Peppe Argirò si lasciò scappare una bestemmia sottovoce. Non aveva nessuna voglia di uscire sotto la pioggia e rischiare di rovinare il completo nuovo, ma non poteva neppure far finta di niente. Insomma, un uomo d’onore talvolta doveva sapersi dimostrare compassionevole. Compassionevole era un’altra parola che aveva imparato dall’avvocato De Bono durante un’udienza in tribunale, non sapeva esattamente che cosa significasse, ma gli era piaciuta, così come il concetto che aveva usato il legale nel descriverlo in modo positivo agli occhi dei giudici.

Aprì la portiera della Mercedes e si avvicinò in fretta all’uomo sulla carrozzina. Prima mi tolgo il fastidio e prima ritorno all’asciutto in macchina, pensò. Quando fu a poco più di un metro di distanza l’handicappato sollevò la testa brizzolata, fradicia per la pioggia. Argirò notò appena gli occhi chiari, freddi come un lago di montagna, perché subito il suo sguardo venne attratto da una pistola semiautomatica ch’era comparsa all’improvviso nella mano destra del tizio.

Un attimo prima di morire Peppe Argirò si rese conto che l’arma aveva il silenziatore, perciò nel frastuono del temporale neppure lui, la vittima, udì i due colpi sordi esplosi dalla pistola. Crollò a terra come un fantoccio e l’ultimo, stupido pensiero fu per il completo di Armani che si stava inzuppando di sangue.

Mentre Argirò annaspava sul marciapiede inondato di pioggia e sangue, l’uomo si alzò dalla carrozzina, si avvicinò di mezzo metro e gli sparò il colpo di grazia alla nuca. Poi si dileguò a grandi passi verso una strada laterale, senza correre, come un passante qualunque che cerca soltanto di affrettarsi per non bagnarsi troppo

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