Descrizione
1
Non c’erano finestre in quella stanza, nessuna fuga per lo sguardo che potesse distrarre Aurora Scalviati dai suoi due interlocutori.
Il più giovane, seduto all’altro lato del tavolo rispetto a lei, indossava un completo nero che sembrava appena uscito dalla sartoria. Nel taschino aveva agganciato il distintivo che lo qualificava come operativo della polizia giudiziaria. Dalla sua posizione, Aurora riusciva perfettamente a leggere nome e qualifica, Ettore De Robertis, ispettore capo. Di fronte a lui c’era un fascicolo con la copertina gialla senza nessuna scritta sopra. Da come gli faceva la guardia, sembrava che contenesse i documenti relativi a un segreto di Stato.
L’altro uomo aveva un’ampia stempiatura che tentava di camuffare con un riporto. Sedeva su una poltroncina a ridosso della parete di fondo, che doveva essere piuttosto scomoda, da come continuava a cercare una posizione. Di tanto in tanto, lanciava un’occhiata alla porta alle sue spalle con una certa impazienza.
Forse temeva che le salme contenute nei cassetti refrigerati dell’obitorio adiacente si rianimassero e invadessero la stanza.
Aurora bevve un sorso d’acqua dalla bottiglietta. «Si soffoca, qua dentro.»
La stanza era angusta e puzzava di chiuso. Le pareti erano spoglie, intonacate di un colore che qualche decennio prima doveva essere stato bianco. La luce proveniva da un neon montato sul soffitto che gettava ombre nette sui volti.
«Ancora qualche minuto di pazienza, vice ispettore Scalviati» ribatté De Robertis. «Il tempo che arrivi il tecnico con l’attrezzatura video.»
Aurora fece un ampio respiro. «È proprio necessaria la registrazione? Avevate detto che si trattava di una formalità.»
«In linea di massima sì. Anche se, sostanzialmente, i termini della chiacchierata dipendono da lei e dalla sua disponibilità a collaborare.» C’era una vena di compiacimento nel modo in cui De Robertis scandiva le parole. Era incredibile come riuscisse a parlare senza muovere nessun muscolo facciale a parte le labbra. Era quasi come osservare il pupazzo di un ventriloquo.
Aurora si chiese se quell’attesa fosse in realtà solo una tattica per intimorirla. Conosceva abbastanza le tecniche di interrogatorio per sapere che mettere a disagio il soggetto poteva essere un modo per indurlo alla confessione, facendo intendere di sapere già tutto. Quell’approccio non le era mai piaciuto, se l’era sempre cavata bene quando si trattava di capire se qualcuno stava mentendo, senza dover ricorrere a strategie da manuale di criminologia. Per non parlare del fatto che, in questo caso, c’era lei dall’altra parte del tavolo.
«Sciocchezze. Non ho altro da aggiungere, se non quello che vi ho già detto. Ne so quanto voi.»
Sul viso di De Robertis comparve l’ombra di un sorriso. «Avremo modo di tornarci su.»
Lo stomaco di Aurora emise un borbottio. Estrasse dalla tasca dei pantaloni il cellulare e controllò l’orario. Era quasi mezzanotte e non metteva niente sotto i denti dalla mattina. Gli ultimi giorni erano stati piuttosto intensi, principalmente a causa dell’imminente avvicendamento al vertice del commissariato. Quasi non ci credeva che il commissario Piovani stesse davvero per andare in pensione. Era convinta che da un momento all’altro ammettesse che era stato solo uno scherzo di cattivo gusto e riprendesse a dare ordini come se niente fosse.
«Mi scusi, devo chiederle di spegnerlo.»
Aurora roteò gli occhi verso l’alto. Fu sul punto di protestare quando la porta si aprì di scatto e fece il suo ingresso nella stanza un ragazzo di corporatura robusta, con una folta barba ben curata. Indossava una felpa nera con scritto “Polizia” sulla schiena, e portava a tracolla una borsa che si affrettò ad appoggiare sul tavolo. Salutò con un cenno del capo i due poliziotti e si mise al lavoro per montare una stazione di registrazione video improvvisata.
Posizionò un treppiede di fianco a De Robertis e ci avvitò sopra una videocamera vecchia di almeno dieci anni. Inserì la cassetta, fece una prova per controllare che tutto funzionasse a dovere e poi annunciò: «Fatto». Infine si congedò dai presenti e se ne andò.
«Ottimo» annunciò De Robertis. «Possiamo cominciare.»
«Alla buon’ora» mormorò Aurora.
«Per prima cosa, vice ispettore Scalviati, mi conferma che è d’accordo a partecipare a questo colloquio volontariamente, senza che nessuno l’abbia obbligata a farlo?»
«Non mi sembra che mi abbiate lasciato molta scelta.»
«La prego, si limiti a rispondere alla domanda.»
«Sì» sospirò Aurora.
«Molto bene.» De Robertis guardò in direzione della camera per assicurarsi che la registrazione stesse procedendo. «Ora, le sembrerà banale, ma vorrei sapere dove si trovava tra la mezzanotte di ieri e le cinque del mattino.»
«Ero a casa mia, a Sparvara.» Le fece una strana impressione parlare in questi termini della città in cui era stata trasferita da appena quattro mesi, e che non l’aveva di certo accolta a braccia aperte. La diffidenza iniziale dei colleghi era diventata quasi ostilità per via dei metodi con cui aveva affrontato il caso del serial killer noto come il Lupo Cattivo. La diplomazia non era mai stata il suo forte, e questo non le aveva spianato la strada per ambientarsi nella nuova città.
A peggiorare le cose, proprio ora che i dissapori con il commissario Piovani si erano appianati, era arrivato l’annuncio del suo ritiro.
«C’è qualcuno che può confermarlo?»
«No. Vivo sola.» Da un paio di settimane, Aurora si era trovata una casa in affitto nella prima periferia della città, un bel progresso rispetto alla stanza del bed & breakfast in cui aveva passato il primo periodo. La casa avrebbe avuto bisogno di qualche lavoro di ristrutturazione, l’arredamento era spartano e aveva un piano solo, a parte un seminterrato in cui non entrava mai, ma c’erano tutte le comodità di cui aveva bisogno. Poteva raggiungere il centro in pochi minuti, ed era abbastanza vicina al parco pubblico in cui amava trascorrere le poche ore libere a leggere, protetta dagli alberi e circondata dal cinguettio degli uccelli. Aveva preferito quella casa a un appartamento per via degli orari del suo lavoro. C’era già passata, e quando si trattava di fare turni in quinta, che almeno una volta alla settimana prevedevano di passare la notte in servizio, non c’era niente di peggio del cane del dirimpettaio che abbaiava all’improvviso o della vicina del piano di sopra con l’abitudine di camminare sui tacchi a tutte le ore.
De Robertis aprì il fascicolo e iniziò a sfogliarlo. Dopo una breve riflessione, disse: «Vedo che lei è stata recentemente oggetto di trasferimento dalla sua città natale, Torino, a Sparvara.»
Avrebbe dovuto immaginarlo, Aurora, che quello che De Robertis trattava con gli stessi riguardi di un prezioso manoscritto altro non era che il fascicolo su di lei. Il resoconto dei suoi errori, tutto quello che l’aveva portata a essere lì, in quel momento.
Scostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, scoprendo per un istante la lunga cicatrice sulla tempia. «Credevo che l’argomento sarebbe stato ciò che abbiamo visto questa notte.»
«Ci arriveremo» fece De Robertis, apparentemente accomodante. «Ora vorrei concentrarmi sull’indagine disciplinare che l’ha coinvolta personalmente dopo il conflitto a fuoco del cosiddetto “Blitz di capodanno all’ex mattatoio”, e della successiva valutazione psichiatrica a cui è stata sottoposta. Non c’è dubbio, credo, che questo abbia a che fare con il suo trasferimento.»
Aurora dovette lottare per non perdere il controllo. «Se intende formalizzare un’accusa, tanto vale che chiami un avvocato.»
«Non credo sia necessario, in questa fase.»
«Non sono più quella persona» disse Aurora, sforzandosi di mantenere la calma. «Ho imparato dai miei errori, perché rivangare quella vecchia storia?»
«Nelle sue cartelle cliniche è indicato chiaramente che da quel momento ha cominciato ad accusare dei disturbi mentali. I medici che l’hanno avuta in cura, pur avendola dichiarata guarita dallo stress post traumatico, sostengono che il frammento di proiettile che le è rimasto nella testa potrebbe manifestare effetti imprevedibili sulla sua psiche. È vero, è stata reintegrata in servizio… Tuttavia, crede che questi disturbi possano in qualche modo interferire con la sua capacità di giudizio?»
Aurora sentì il sangue ribollire nelle vene. Si alzò di scatto. «Me ne vado.»
«Si sieda» intervenne l’uomo col riporto. Fino a quel momento era stato così silenzioso che Aurora si era dimenticata della sua presenza. «A meno che non preferisca essere convocata domattina in questura ed essere sentita dal sostituto procuratore incaricato in persona.»
Aurora gli dardeggiò un’occhiata feroce. «E allora dica al suo collega di piantarla con le insinuazioni.»
«L’ispettore De Robertis sta solo facendo il suo lavoro.»
«La prego, Scalviati, torni a sedere» fece De Robertis. «È anche nel suo interesse.»
«C’è un cadavere, là fuori!» protestò lei. «Avete visto com’è conciato. L’assassino è a piede libero. Credete davvero che io abbia qualcosa a che fare con… quella roba?»
De Robertis fece di tutto per assumere un’espressione rassicurante, ma in fondo agli occhi ardeva un bagliore predatorio. «Me lo dica lei» disse con voce ferma. «In che rapporti era con la vittima?»
«Rapporti? Non l’ho mai visto in vita mia.»
«Possiamo saltare la fase in cui lei fa finta di non sapere nulla, e io insisto per tirarle fuori una risposta plausibile?» La facciata accomodante del giovane ispettore capo era definitivamente caduta, lasciando il posto a un mastino a caccia della preda. «Del resto, anche lei è una funzionaria di polizia… Non faccia giochetti con me, e le assicuro che nessuno si farà male.»
«Se crede di intimorirmi si sbaglia. E ora cercherò di essere il più chiara possibile» sibilò Aurora. «Non ho mai visto quell’individuo. Non ho la più pallida idea di chi si tratti.»
L’uomo col riporto balzò in piedi e, guardando Aurora fisso negli occhi, batté la mano sul tavolo. «E come diavolo la spiega, allora, la scritta sul petto di quel morto ammazzato?»
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