Descrizione
Capitolo 1
Kim trasse un sospiro di sollievo mentre l’infermiera finiva di tagliare l’ingessatura in fibra di vetro con una sega speciale. Tutte e cinque le dita sembravano intatte.
Finalmente poteva sentire la carezza dell’aria fresca e pulita sulla pelle desquamata.
Emise un gemito di piacere mentre allungava una mano per grattarsi un punto a metà dello stinco, liberandosi dall’insopportabile prurito che per sei lunghe settimane l’aveva fatta impazzire.
«Meglio?», le chiese l’infermiera con un sorriso.
«Diamine, sì!», rispose Kim, raschiando con tanta energia da far arrossare la pelle.
Eppure, dopo sei settimane di tortura, quel gesto non le procurava la soddisfazione che aveva immaginato. Certe notti era stata tentata di usare la sua sega circolare per tagliare il gesso e darsi una grattata, ma aveva resistito, anticipando il piacere di questo momento. E invece era finito troppo presto.
L’infermiera le passò una salvietta umida che lei usò con gratitudine per strofinarsi la pelle raggrinzita.
Poi la donna gettò da parte il gesso mentre Kim portava la gamba destra sul bordo del letto. Dopo sei settimane con quel peso addosso, aveva l’impressione che la gamba sinistra stesse per sollevarsi e fluttuare via.
Una mano rassicurante si posò sulla sua coscia. «Non così in fretta, ispettore», disse l’infermiera con uno sguardo d’intesa. «Il dottor Shah verrà a visitarla tra un minuto. Abbiamo tolto il gesso, ma non è ancora guarita», concluse dandole un colpetto come se parlasse a una bambina.
«Ci sono dei posti dove devo…».
«Ah, signorina Stone», disse il dottor Shah, «vedo che è tornata nel suo consueto ruolo di paziente».
«Dottore, voglio solo tornare a…».
«È frustrante quando il corpo non obbedisce alla volontà della mente, vero?».
Il tono gioviale del medico le fece strizzare gli occhi.
Il dottor Shah la scrutò da sopra gli occhiali, come aveva fatto quando l’avevano portata in ospedale sulla sedia a rotelle dopo la morte del suo collega.
La voce calma e suadente del medico aveva raffreddato la sua rabbia mentre si dibatteva per scendere dal letto e andarsene. Non aveva idea di dove volesse andare. Sapeva soltanto che il suo collega giaceva esanime ai piedi di una torre campanaria e che avevano dovuto allontanarla a forza.
Kim si riscosse e tornò al presente mentre il dottor Shah posava una mano su ciascuna delle sue caviglie, tenendole ferme mentre parlava.
«La sollevi», disse dandole un colpetto sulla caviglia sinistra e alzando la mano a mezz’aria.
Ci fu un ritardo di qualche secondo mentre la mente di Kim inviava il comando ai muscoli rimasti dormienti per settimane. Poi la gamba si sollevò fino a toccare la mano tesa, tremando per qualche istante prima che il quadricipite controllasse la discesa sul letto.
«A sinistra», disse il dottor Shah. «E adesso a destra».
«I muscoli sono indeboliti e bisognerà rafforzarli gradualmente. La gamba non è ancora guarita», concluse, scrutandola di nuovo da sopra gli occhiali.
Come se lei non lo sapesse! La pelle bianco latte recava incisi i segni dell’ingessatura. E una cicatrice di cinque centimetri sullo stinco segnava il punto in cui l’osso era uscito dalla carne.
«Le radiografie ci rivelano che la frattura si è saldata, tuttavia…». Il medico fece una pausa e Kim pensò che quel tuttavia non implicasse nulla di buono.
«Dovrà fare molta attenzione. Avrà ancora dolori e i muscoli andranno rafforzati. Vorrei che venisse a fare fisioterapia tre mattine…».
«Dottore, sa cosa sto per chiederle?», lo interruppe lei. «Deve capire che la sua gamba ha bisogno di tempo e di riabilitazione per guarire completamente. La saldatura delle ossa è soltanto il primo passo».
«Dottor Shah», lo interruppe ancora lei.
Lui reagì con un sospiro teatrale di fronte all’impazienza di Kim e indicò con un cenno le stampelle che lei aveva appoggiato al distributore di salviette di carta a destra della porta.
«Vorrei che continuasse a usarle finché non avrà fatto un paio di sedute di fisioterapia».
«Dottore», protestò ancora lei.
«Se non sforza la gamba e resta preferibilmente seduta a una scrivania, nulla le impedisce di tornare al lavoro».
Kim sollevò la gamba destra oltre il bordo del letto e poi fece lo stesso con la sinistra, usando i muscoli del fianco e del gluteo.
«Quindi sono ufficialmente dimessa, giusto?».
Lui annuì con aria circospetta, come se percepisse che uno dei due avrebbe finito per rimpiangere quella decisione.
Kim scese dal letto e sollevò una mano quando il dottor Shah e l’infermiera le si avvicinarono per aiutarla.
Posò la gamba destra sul pavimento, poi la sinistra.
Una fitta di dolore si irradiò dalla tibia fino al fianco, facendola barcollare.
Il dottore allungò un braccio per sorreggerla, ma lei scosse la testa e si aggrappò al letto.
Fece un altro tentativo, sforzandosi di ignorare la sensazione di assenza di gravità che la induceva a pensare che la gamba sarebbe levitata per conto proprio come in uno spettacolo di magia
. La gamba era stata protetta dall’ingessatura per sei settimane, e quella sensazione di instabilità ora la innervosiva.
Si concentrò e fece un altro passo avanti.
Un’altra fitta di dolore, ma non lancinante come la prima, e questa volta se l’aspettava. Ignorò le gocce di sudore che le imperlavano la fronte e avanzò di un altro passo.
Il dottor Shah era indietreggiato e la stava osservando.
Kim fece un altro passo verso la porta.
«Cerchi di riabilitare la gamba gradualmente», disse il medico mentre lei continuava ad avanzare.
Kim posò la mano sulla maniglia e lo ringraziò.
Il dottor Shah ricambiò le sue parole con uno sguardo gentile e lei uscì, chiudendosi la porta alle spalle e lasciando le stampelle nella stanza.
Avanzò lentamente lungo il corridoio. Aveva scordato quanto la sua stanza fosse lontana dall’ingresso principale. Era entrata in ospedale con quelle due gambe supplementari, alle quali era stata abituata a sorreggersi per sei settimane.
Contò dieci passi e raggiunse gli ascensori. Ogni volta che posava il piede a terra le sembrava un po’ più naturale, come un lontano ricordo che riaffiorava, ma lo sforzo le aveva provocato un’ondata di nausea.
Si concesse un secondo di pausa e si appoggiò alla parete, frustrata dalla debolezza dei suoi muscoli.
«Posso aiutarla, signorina?», chiese un volontario in maglietta rossa. La targhetta sul petto indicava che il suo nome era Terry.
Kim scosse la testa e il volontario aprì una porta alla sua destra.
«Qui dentro c’è una sedia», disse, indicando un piccolo ripostiglio. «Sembra che stia per svenire».
«La ringrazio, ma sto bene», replicò Kim, allontanandosi e dirigendosi verso l’ingresso principale.
Mentre si avvicinava alle porte automatiche, scorse il tassista al quale aveva chiesto di aspettarla e si precipitò verso la vettura.
Era arrivato il momento di tornare al lavoro e alla sua squadra. E anche se la squadra non sarebbe stata mai più la stessa, era rimasta lontana per troppo tempo.
Capitolo 2
Il dottor Gordon Cordell si fermò davanti alla palazzina, meravigliandosi della velocità con cui le sue sorti erano cambiate.
Nelle sei settimane successive all’indagine sulla morte di Sadie Winters nella sua vecchia scuola, la Heathcrest Academy, la sua vita non aveva registrato alcun mutamento. Ogni aspetto della scuola esclusiva per i ragazzini ricchi e privilegiati della Black Country era stato investigato. E l’indagine aveva svelato anche l’aborto illegale che lui aveva praticato alla sorella sedicenne di Sadie.
Cordell non aveva avuto scelta. Quando gli era stata presentata dal padre, almeno tre settimane oltre le ventiquattro del limite legale, aveva rinunciato al consenso obbligatorio di un altro medico, come prescritto dalla legge sull’aborto, ponendo comunque fine alla gravidanza.
Grazie a Dio, non aveva conservato alcuna registrazione dell’intervento, e gli altri membri della famiglia Winters si erano ben guardati dal gridarlo ai quattro venti.
Ma quella stronza di una detective e la sua squadra della polizia delle West Midlands avevano fatto di tutto per incriminarlo. E non ci erano riusciti.
La società segreta delle Picche si era riunita e l’aveva protetto. E lui aveva ricordato con gratitudine il giorno in cui, all’età di undici anni, era stato invitato a unirsi a una delle quattro società segrete della Heathcrest. Aveva assaporato il prestigio di essere stato prescelto e goduto di tutti i benefici e le connessioni della confraternita, che si estendevano ben al di là della scuola. Quando si diventava una Picca, lo si restava per sempre. E proprio come si era aspettato, i confratelli altolocati si erano prodigati per proteggerlo finché il pericolo non era passato.
E poi gli avevano mandato la carta.
Il sospiro di sollievo al pensiero di essere intoccabile era svanito quando aveva aperto la busta e scoperto la carta da gioco strappata. Un nove di picche ridotto in piccoli frammenti. Nessun biglietto. Nessuna spiegazione. Non che lui ne avesse bisogno. Aveva colto il messaggio, forte e chiaro.
Le Picche l’avevano protetto per un’unica ragione: non avevano voluto che la polizia lo distruggesse perché dovevano essere loro a farlo.
Nell’arco di quarantotto ore dall’apertura della busta era stato licenziato dal suo lavoro come capochirurgo alla clinica privata Oakland di Stourport-on-Severn. Quello stesso giorno gli avevano sequestrato la Lexus nuova di pacca e due giorni dopo, quando aveva saputo che aveva perso il lavoro, la moglie l’aveva buttato fuori di casa. Le Picche non ce l’avevano con lui perché aveva praticato un aborto illegale, ma perché si era fatto beccare.
Una settimana dopo il licenziamento era stato assunto dall’Azienda sanitaria di Dudley, felice di averlo nel suo staff.
Com’era giusto che fosse, aveva pensato lui. Aveva frequentato le migliori scuole del Paese e il suo curriculum era impeccabile. Quello ufficiale, naturalmente.
Benché fosse lontano dalla cifra a sei zeri che percepiva alla Oakland, lo stipendio gli consentiva di pagare le rate del mutuo della casa occupata dalla moglie, lasciandogli quanto bastava per pagare l’affitto dell’appartamento monocamera a Dudley e la Vauxhall vecchia di nove anni che guidava adesso.
Era una situazione temporanea, questo lo sapeva. Era la penitenza che doveva scontare per essere stato scoperto. La sua punizione per aver portato la polizia sulle tracce di una società segreta radicata nella tradizione. Ma le sue sorti sarebbero presto cambiate. Una Picca avrebbe avuto bisogno del suo aiuto. Ci sarebbe stato qualche Lord o membro del governo con una sconsiderata figlia adolescente alla quale serviva qualcuno che si prendesse cura di lei e sapesse tenere la bocca chiusa.
E a quel punto l’avrebbero richiamato. Avrebbe riavuto il suo vecchio lavoro. La Lexus sarebbe riapparsa sul vialetto del suo granaio riconvertito ad abitazione con cinque camere e quattro bagni a Hartlebury, e la moglie l’avrebbe riaccolto in casa a braccia aperte. Sarebbe tornata a essere la sua casa.
Ma per il momento doveva eseguire interventi di routine sulla feccia dell’umanità per conto del servizio sanitario nazionale in cambio di un tozzo di pane.
«Oh, dottore…».
«Non ora, signora Wilkins», tagliò corto lui, passando davanti alla porta dell’appartamento 1A mentre l’anziana inquilina sbirciava fuori.
Da quando le aveva stupidamente detto di essere un medico, lei lo assaliva quasi ogni giorno con una serie di sintomi sempre diversi.
«Ma è soltanto…».
«Mi dispiace, non posso fermarmi», rispose lui, affrontando la prima rampa di scale. Alle sue spalle udì le proteste dell’anziana signora, ma non sarebbe tornato sui propri passi. Ringraziò il cielo che la donna non avesse accesso a Internet, dove avrebbe trovato un’infinità di malattie letali.
Cordell salì le due rampe di scale, controllando il respiro. Con il suo peso non era stato facile rinunciare all’ascensore, ma in un mese aveva perso più di sette dei suoi centotrenta chili. E benché non avesse alcuna intenzione di prolungare oltre il dovuto quella scomunica dalla sua vita reale, si augurava segretamente di perdere un altro chilo prima di tornare a casa. Sua moglie, Lilith, aveva sperimentato decine di diete senza ottenere alcun risultato, e lui non si era mai stancato di ripeterle che l’unico modo era mangiare meno e fare più esercizio. Pregustò con un certo compiacimento l’istante in cui lei avrebbe riconosciuto la verità della sua teoria.
Salire le scale e non trovare i pasti già cucinati per lui stavano funzionando a meraviglia.
Ignorò il respiro ansimante, le stelle che gli danzavano davanti agli occhi, il sudore che gli imperlava la fronte e aprì la porta della sua residenza temporanea. Era un appartamento che affittava da qualche anno, ma soltanto per dormirci di tanto in tanto.
Entrò direttamente nel salotto, che gli sembrava diventare di giorno in giorno più piccolo. Sulla destra, un arco si apriva su una cucina squadrata, senza finestre e con troppi pensili alle pareti.
Una porta dava accesso alla camera, in fondo alla quale c’era il bagno con la doccia.
L’appartamento era ancora come il giorno in cui aveva preso in consegna le chiavi: una fredda scatola vuota.
S’incamminò verso la camera allentandosi la cravatta. Dopo i primi giorni Lilith gli aveva permesso di tornare per prendere una valigia di vestiti. Gli aveva detto di prenderseli tutti ma di non toccare nient’altro.
Cordell sorrise al pensiero che la moglie non l’aveva visto infilare nella valigia la foto dei due figli posata sul comodino: Saul, anche lui chirurgo, e Luke, che stava studiando medicina. Un piccolo trionfo, ma comunque un trionfo.
Aprì la valigia e tirò fuori la fotografia, come faceva sempre.
Posarla accanto al letto sarebbe stato come ammettere una stabilità della sua attuale situazione che non era pronto ad accettare.
Le sue dita paffute sfiorarono la fodera di seta della valigia.
Aggrottò la fronte e spostò le scarpe di ricambio e due paia di calzini.
Non c’era nient’altro, soltanto la seta della fodera e la cinghia di fissaggio.
Si guardò attorno nella stanza, nonostante sapesse di non averla tolta da quel posto sicuro nella valigia.
«Dove diavolo…?».
Un dolore lancinante alla testa lo fece ammutolire.
Cadde in avanti e un rumore di vetri rotti gli riverberò nelle orecchie.
Con le stelle che gli danzavano davanti agli occhi e un conato di nausea che gli saliva in gola, sentì di essere sul punto di perdere i sensi. Deglutì ripetutamente per scacciare la nausea e sbatté le palpebre per vincere le tenebre che gli stavano calando addosso.
«Salve, dottor Cordell», disse una voce dolce e pacata alle sue spalle.
Lui deglutì di nuovo e si voltò per guardare il suo aggressore.
La voce non gli era familiare, ma quando si girò, si rese conto che la faccia lo era. Era un volto che aveva già visto, ma non ricordava dove.
«Cosa diavolo…».
«Stia zitto, dottor Cordell», lo interruppe l’aggressore.
«Ha proprio due bei ragazzi», lo udì dire Cordell mentre si sforzava di rimettere a fuoco la vista annebbiata.
Soltanto allora si rese conto che era stato colpito con la foto. La fotografia dei suoi due splendidi figli.
Gliel’aveva sbattuta in faccia.
«Dottor Cordell, per lei è arrivato il momento di fare una scelta».
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