Descrizione
Montagna Del Teschio Il Lago della Pace
IN un certo senso la nostra vita è veramente un film. I protagonisti sono i famigliari e gli amici. Tra i comprimari rientrano vicini, colleghi, insegnanti e le conoscenze occasionali. Non mancano i ruoli minori: la giovane cassiera del supermercato con il sorriso carino, il barista affabile del locale all’angolo, i tipi con cui vi allenate in palestra tre giorni alla settimana. E ci sono migliaia di comparse, persone che attraversano la vita di ognuno come fa l’acqua in un colino, viste una volta e poi mai più. Il ragazzino che curiosa tra le graphic novel in libreria, che avete dovuto scansare (sussurrando uno «Scusami») per raggiungere le riviste. La donna nell’auto di fianco, che approfitta del semaforo per aggiustarsi il rossetto. La madre che pulisce dal gelato la faccia del suo marmocchio in un autogrill dove vi siete fermati per un boccone al volo. Il venditore allo stadio dal quale avete comperato un sacchetto di noccioline durante una partita di baseball.
Però a volte compare nella vostra esistenza qualcuno di estraneo a tali categorie. Una specie di jolly, che ogni tanto sbuca dal mazzo nel corso degli anni, soprattutto in un momento di crisi. Nei film un personaggio simile viene definito il quinto elemento o l’agente del cambiamento. Quando si presenta in un lungometraggio, sapete che è stato lo sceneggiatore a inserircelo. Ma chi scrive la nostra vita? Il fato o la pura coincidenza? Voglio credere che sia la seconda. Lo voglio con tutto me stesso. Quando ripenso a Charles Jacobs (il mio quinto elemento, il mio agente del cambiamento, la mia nemesi), non riesco neppure a considerare che la sua presenza nella mia vita fosse dovuta al destino. Altrimenti significherebbe che quelle vicende tremende, quegli orrori, erano destinati ad accadere. In tal caso, non esiste qualcosa di simile alla luce, e la nostra convinzione in merito è giusto una pia illusione. In tal caso, vivremmo nelle tenebre come bestie dentro una tana o formiche nel profondo dei loro cunicoli.
E non da soli.
Per il mio sesto compleanno Claire mi regalò un esercito, e un sabato di ottobre del 1962 mi stavo preparando a una battaglia campale.
La mia era una grande famiglia (quattro figli maschi, una femmina), io ero il più piccolo e ricevevo sempre un sacco di doni. I migliori arrivavano da Claire. Forse perché era la più vecchia o l’unica femmina o entrambe le cose, non ne ho idea. Però fra tutte le belle sorprese di mia sorella nel corso degli anni, l’esercito si rivelò la più fantastica in assoluto. Erano duecento soldatini di plastica verde, alcuni armati di fucili, altri di mitra e una decina uniti ad aggeggi fatti a tubo che, mi spiegò, si chiamavano mortai. C’erano anche otto autocarri e dodici camionette. Forse il particolare più figo era la scatola del gioco, un bauletto militare di cartone in tinta mimetica marrone e verde, con PROPRIETÀ DELL’ESERCITO AMERICANO stampigliato sul davanti. Appena sotto, Claire aveva aggiunto: JAMIE MORTON, COMANDANTE.
Quello ero io.
«Ho visto la pubblicità dei soldatini sul retro di uno dei fumetti di Terry», disse lei quando smisi di urlare dalla gioia. «Non voleva che la ritagliassi perché è ancora un moccioso…»
«Certo», rispose Terry. Aveva otto anni. «Quel moccioso del tuo fratellone.» Divaricò indice e medio, ficcandoseli dentro le narici.
«Piantatela», intervenne nostra madre. «Niente battibecchi durante un compleanno, per favore, grazie. E tu, togliti le dita dal naso.»
«Comunque, ho copiato e spedito il talloncino per l’ordine», continuò Claire. «Avevo paura che non arrivasse in tempo, invece sì. Sono contenta che ti piaccia.»
Mia sorella mi baciò su una tempia, come sempre. Dopo tanti anni, ancora la sento sfiorarmi leggera.
«Mi piace da morire!» esclamai, stringendo il piccolo baule di cartone al petto. «E mi piacerà per sempre!»
Era appena dopo una colazione a base di pancetta e pancake ai mirtilli, la mia prediletta. Quando compivamo gli anni, ci venivano sempre serviti i nostri piatti preferiti, e subito dopo arrivava il regalo direttamente nella cucina, con la stufa a legna e il lungo tavolo e il dinosauro di lavatrice che continuava a rompersi.
«Secondo Jamie, ‘per sempre’ significa grosso modo cinque giorni», intervenne Con. Aveva dieci anni, era snello (anche se poi avrebbe messo su peso) e con il pallino per la scienza, persino allora.
«Molto divertente, Conrad», rispose nostro padre. Era vestito da lavoro, con una tuta pulita e il suo nome (RICHARD) ricamato in filo dorato sulla tasca anteriore sinistra. Sulla destra c’era scritto: OLIO COMBUSTIBILE MORTON. «Ne sono davvero colpito.»
«Grazie, papino.»
«Per merito della tua lingua lunga ti sei aggiudicato l’opportunità di aiutare mamma con i piatti della colazione.» «Ma tocca ad Andy!»
«Toccava ad Andy», lo corresse papà, versando lo sciroppo d’acero sull’ultimo pancake. «Prendi uno strofinaccio, Lingua Lunga. E cerca di non rompere niente.»
«Lo state viziando troppo», replicò Con, obbedendo comunque.
Connie non si sbagliava completamente sulla mia idea di «per sempre». Dopo cinque giorni, L’allegro chirurgo regalato da Andy già prendeva polvere sotto il letto (certo, alcune parti anatomiche mancavano fin dall’inizio; mio fratello l’aveva scovato per un quarto di dollaro a un mercatino dell’usato all’Eureka Grange). La stessa sorte toccò al puzzle che mi diede Terry. Conrad in persona mi donò un View-Master che sarebbe durato un po’ di più, per poi venire chiuso nel mio armadio a muro e sparire per sempre.
Da mamma e papà ricevetti dei vestiti, perché la mia festa cade al termine di agosto e quell’anno avrei frequentato la prima elementare. I pantaloni e le camicie nuove si rivelarono eccitanti quanto il monoscopio della televisione, ma mi sforzai di ringraziare con entusiasmo. Probabilmente loro me lo lessero in faccia senza troppi problemi; è difficile per un bambino di sei anni fingersi al settimo cielo… anche se si tratta di un’abilità che la maggior parte di noi impara abbastanza rapidamente, per quanto sia triste ammetterlo. A ogni modo, gli abiti vennero lavati nel solito dinosauro, appesi allo stendibiancheria nel cortile a lato e alla fine riposti nel mio cassettone. Dove, forse è superfluo aggiungerlo, restarono dimenticati finché non arrivò settembre e non fu tempo di indossarli. Ricordo che un maglione era piuttosto figo, color marrone con strisce gialle. Quando me lo infilavo, mi immaginavo di essere un supereroe chiamato la Vespa Umana: criminali, attenti al mio pungiglione!
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