Descrizione
DEAN
L’estate in cui avevo compiuto diciassette anni era stata brutta, ma niente mi aveva preparato per il suo gran finale del cazzo.
Tutti i segnali lasciavano presagire una catastrofe incombente. Non riuscivo a individuare con esattezza la strada che mi ci avrebbe condotto ma, conoscendo la mia vita, mi preparavo a ricevere un colpo a tradimento che mi avrebbe spedito dritto all’inferno.
Alla fine, tutto si ridusse a un unico, sconsiderato momento, come in un cliché da film. Qualche settimana di birre chiare e canne rollate malamente prima della fine del penultimo anno delle superiori.
Eravamo sdraiati intorno alla piscina di Vicious a bere la birra sgasata di suo padre, consapevole che l’avremmo passata liscia per questo (e per tutto il resto, Cristo) sotto il tetto di Baron Spencer Senior. C’erano delle ragazze. Erano fatte. Non c’erano molte cose da fare a Todos Santos, California, con le vacanze estive alle porte. Era tutto bollente. L’aria era pesante, il sole enorme, l’erba gialla e la gioventù annoiata dalla propria esistenza senza problemi e senza senso. Eravamo troppo pigri per inseguire brividi facili, così li cercavamo mentre ce ne stavamo stravaccati comodi su materassini a forma di ciambelle o fenicotteri e lettini prendisole importati dall’Italia.
I genitori di Vicious non erano a casa (c’erano mai?) e tutti contavano su di me per i rifornimenti. Non ero tipo da deludere le aspettative, così avevo portato il fumo e dell’Ecstasy, che avevano inalato avidamente senza neanche ringraziarmi né, tantomeno, rimborsarmi. Pensavano che fossi un ricco bastardo fumato, che aveva bisogno di soldi quanto Pamela Anderson di rifarsi le tette, cosa che era in parte vera. E comunque io non me la prendevo mai per delle inezie, quindi lasciai perdere.
Una delle ragazze, una biondina che si chiamava Georgia, sbandierava la sua Polaroid nuova, che il padre le aveva regalato durante l’ultima vacanza a Palm Springs. Scattò delle foto a noi ragazzi (me, Jaime, Vicious e Trent), sbandierando anche la sua mercanzia in un piccolo bikini rosso, afferrava le foto appena stampate coi denti e ce le passava, da bocca a bocca. Le sue tette sprizzavano dal minuscolo pezzo di sopra del bikini come il dentifricio dal tubetto. Avevo voglia di strusciarci l’uccello in mezzo e sapevo con certezza che l’avrei fatto, prima della fine di quella giornata.
«Oh, oddio, questa verrà moooolto bella.» Georgia usò un numero indefinito di O per dare enfasi. «Sei super-sexy, Cole» miagolò quando mi catturò con la macchina fotografica intento a scolarmi ciò che rimaneva di una birra con una canna stretta tra le dita, e poi sbattevo la lattina sulla mia coscia soda.
Click.
La prova del misfatto scivolò fuori dalla Polaroid con un fruscio provocante; lei la catturò tra le labbra lucide, si piegò in avanti e me la passò. La morsi e me la infilai nel costume. Lei seguì la mia mano con gli occhi, mentre spingevo l’elastico verso il basso, scoprendo il sentiero dritto di peli chiari sotto l’ombelico, che la invitava alla continuazione della festa. Deglutì. Visibilmente. I nostri occhi si incontrarono e tacitamente ci accordammo su un dove e quando. Poi qualcuno si tuffò a bomba nella piscina e la schizzò tutta; lei scosse la testa, ridendo senza fiato, prima di passare al suo successivo progetto artistico, il mio migliore amico, Trent Rexroth.
Il piano, come sempre, era distruggere la foto prima di tornare a casa. Do la colpa a quella fottuta Ecstasy per essermene dimenticato. Alla fine, fu mia madre a trovarla. Alla fine, mio padre mi fece una delle sue prediche pacate che, come sempre, mi corrodevano le budella come arsenico. E alla fine di tutto? Mi fecero passare l’estate con il mio maledetto zio, quello che non potevo proprio sopportare. Mi guardai bene dal discutere con loro. L’ultima cosa di cui avevo bisogno era combinare un casino ancora peggiore e mettere a rischio la mia permanenza a Harvard a un anno dal diploma. Avevo lavorato sodo per quel futuro, per quella vita. Era dispiegata davanti a me in tutta la sua ricca, privilegiata, fottuta gloria di jet privati, case in multiproprietà e vacanze negli Hamptons. È così che va la vita. Quando ti ritrovi tra le mani qualcosa di buono, non solo l’afferri, ma la stringi così forte quasi fino a romperla, che cazzo.
Solo un’altra lezione che ho imparato troppo tardi nella vita. Comunque, fu così che finii su un aereo diretto in Alabama, a bruciare due mesi in una maledetta fattoria, prima dell’ultimo anno delle superiori.
Trent, Jaime e Vicious trascorsero l’estate a bere, fumare e scopare con le ragazze, il tutto giocando in casa. Per quanto riguarda me, tornai con un occhio nero, generosamente offertomi dal signor Donald Whittaker, noto anche come Owl, il Gufo, dopo la notte che mi aveva cambiato per sempre.
«La vita è come la giustizia,» mi aveva detto Eli Cole, il mio avvocato-barra-padre prima che mi imbarcassi sull’aereo per Birmingham. «Non è sempre giusta.»
Cazzo se era vero.
Quell’estate fui costretto a leggere la Bibbia dalla prima all’ultima pagina. Owl aveva detto ai miei genitori di essere diventato un cristiano convertito e un esperto di studi biblici. Corroborò la sua affermazione facendomela leggere insieme a lui durante la pausa pranzo. Un panino al prosciutto e il Vecchio Testamento erano il suo modo di non comportarsi da stronzo totale perché, per il resto del tempo, era piuttosto tremendo con me.
Whittaker era un agricoltore. Quando era abbastanza sobrio da riuscire a essere qualcosa, intendo. Mi mise a lavorare nel fienile. Io acconsentii, soprattutto perché mi dava modo di palpeggiare la figlia del suo vicino alla fine di ogni giornata.
La figlia del vicino pensava che fossi una specie di celebrità solo perché non avevo l’accento del Sud e possedevo una macchina. Non sarei certo stato io a infrangere le sue illusioni, soprattutto visto che lei era entusiasta di prendere lezioni di educazione sessuale da me.
Assecondavo Owl quando mi insegnava la Bibbia, perché l’alternativa sarebbe stata fare a botte con lui nel fieno fino a che uno dei due non avesse perso conoscenza. Penso che i miei volessero che mi ricordassi che la vita non era fatta solo di macchine costose e settimane bianche. Owl e sua moglie erano una specie di Vita da poveracci – corso base. Così, tutte le mattine mi svegliavo chiedendomi cosa fossero due mesi in confronto a tutta la mia vita.
C’erano un sacco di storie pazzesche nella Bibbia: incesti, collezioni di prepuzi, Giacobbe che aveva un incontro di lotta libera con un angelo (giuro che quel libro inizia a rasentare l’assurdo verso il secondo capitolo), ma una sola storia mi rimase davvero impressa, anche prima di incontrare Rosie LeBlanc.
Genesi 27. Giacobbe andò a vivere con Labano, suo zio, e si innamorò di Rachele, la minore delle due figlie di Labano. Rachele era sexy da morire, impetuosa, leggiadra, insomma un vero schianto (come riportato nella Bibbia, anche se con meno parole).
Labano e Giacobbe fecero un patto. Giacobbe avrebbe lavorato per Labano per sette anni, poi avrebbe potuto sposare sua figlia.
Giacobbe lo fece: si spaccò il culo sotto il sole, giorno dopo giorno. Dopo sette anni, finalmente Labano andò da Giacobbe e gli disse che poteva sposare sua figlia.
Ma ecco il tranello: non era la mano di Rachele che gli aveva concesso, ma quella della sorella maggiore, Lia.
Lia era una brava donna. Giacobbe lo sapeva.
Era dolce. Sensibile. Caritatevole. Bel culo e occhi dolci (sto parafrasando di nuovo. Tranne la parte degli occhi. Quella roba lì c’è davvero nella Bibbia).
Ma non era Rachele.
Non era Rachele, e lui voleva Rachele. Sempre e solo Rachele.
Giacobbe si mise a discutere, a litigare, cercò di far ragionare suo zio, ma alla fine, perse. La vita era come la giustizia, anche a quei tempi. Era tutt’altro che giusta.
«Altri sette anni di lavoro,» promise Labano. «E ti permetterò di sposare anche Rachele.»
Quindi, Giacobbe aspettò.
E rimase in agguato. Guardò da lontano. E la bramò.
Cosa che, come sa bene chiunque abbia un minimo di cervello, accresce solo il desiderio disperato per l’oggetto dell’ossessione.
Gli anni passarono. Lentamente. Dolorosamente. Senza emozioni. Nel frattempo, lui stava con Lia.
Non stava male. Non in senso stretto. Lia era buona con lui. Una scelta sicura. Gli poteva dare dei figli, cosa che Rachele, come avrebbe scoperto in seguito, aveva difficoltà a fare.
Ma lui sapeva cosa voleva, e Lia le poteva assomigliare, poteva avere il suo stesso odore, e cazzo, forse poteva anche sembrare lei, ma non era lei.
Gli ci vollero quattordici anni, ma alla fine Giacobbe si guadagnò Rachele in modo onesto.
Rachele poteva non essere stata benedetta da Dio. Lia lo era. Ma questo era il punto.
Rachele non aveva bisogno di essere benedetta.
Lei era amata.
E, a differenza della giustizia e della vita, l’amore è giusto.
Cosa dire di più? Alla fine, l’amore fu abbastanza.
Alla fine, fu tutto, cazzo
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